giovedì 31 dicembre 2009

All Good Things...(buon 2010)

C'è un episodio delle serie Star Trek-The Next Generation che si intitola proprio cosi: All Good Things... Anzi è proprio l'ultimo episodio. Nella traduzione italiana viene reso come Ieri, Oggi, Domani.
In una sorta di precognizione, il futuro dei personaggi della serie viene presentato come orribile, drammatico, incarognito.
Tutte le belle cose finiscono e, forse, non sono nemmeno mai iniziate. La nostra storia, quella eroica degli imperatori, dei papi e delle battaglie e quella immobile delle genti meccaniche (per dirla alla Manzoni) è un turbinio di affanni.
La fine dell'anno, come il Natale, è un momento di attesa, di passaggio. Sì, certo, sono attese fittizie, non corroborate da nulla se non dalle nostre esperienze di vita.
Ma per un momento, per un attimo, per un secondo, proprio a ridosso di queste attese che mai si realizzano, pensiamo al mistero delle parole, al loro ritmo, che, forse, può per un attimo cullarci e, forse, salvarci.
All Good Things...

mercoledì 30 dicembre 2009

La differente struttura del ricordo

Ogni tanto capita. Anzi, capita spesso. Sulle strade, ai lati, tra l'erba striminzita che delimita il confine tra l'asfalto e il fosso, sorgono croci, mazzi di fiori, fotografie incorniciate dall'aspetto di ex voto che non hanno rispettato il patto con la divinità. Stanno là, quasi tutte uguali, senza un'apparente storia, se non quella di un vago dolore lontano, che comunque non ci tocca.
Ogni tanto capita. Ma capita di meno. Sulle strade, ma più all'interno, a volte in mezzo a un campo o su una collinetta. Piramidi improbabili, di un grigio tendente al nero. La forma quasi a ricordare un qualche elitario tempio massonico. Parole a ricordo di un evento di polvere e sangue, di divise e fanfare. Anche questo non riguarda ormai che la memoria di pochi.
Accomunate da un sentore di destino violento.
Le prime a testimonianza di una maledizione quotidiana, che riguarda tutti e, nella sua banalità, nessuno.
Le seconde a imperitura memoria di un eroismo pubblico, che comunque non può, e non vuole, prescindere dal sangue.
Così, nel nostro andare quotidiano, nel nostro essere veloci, nel nostro essere di benzina e metallo, incontriamo sulle strade le croci che ricordano i morti degli incidenti stradali e i morti delle battaglie risorgimentali.
Un tributo di sangue che unisce due guerre. Quella eroica che finisce nei libri di storia. Quella banale che, riguardandoci tutti, finisce nell'oblio.
Due film.
Il sorpasso, di Dino Risi.
1860, di Alessandro Blasetti.

sabato 26 dicembre 2009

In memoria di Carlo Sgorlon

La pianura è sempre stata un luogo di passaggio. Dalle mie parti i vecchi ricordano che, dopo il 25 aprile del '45, dagli stradoni dei paesi era passata la X Mas. Le persiane chiuse avevano nascosto le donne che guardavano giù, verso i teloni scuri dei camion. Una fila infinita di automezzi neri aveva impegnato per ore gli sguardi attenti delle madri e quelli preoccupati dei figli, nascosti nei solai per sfuggire alla Germania.
Andavano a passo d'uomo, con le canne dei mitra spianate verso le case. Eterna minaccia del male che non si arrende nemmeno di fronte alla sconfitta.
Ci avevano messo quasi un giorno e una notte a lasciare quegli sguardi e poi se ne erano andati verso la loro resa, con le acque del Po che erano già rosse del sangue dei carnefici divenuti vittime.
Qualche giorno dopo i contadini avevano trovato nei campi il corpo senza vita di un marò, abbandonato dai suoi camerati. Sembrava dormire. Era morto probabilmente a causa delle ferite riportate in qualche scontro a fuoco, avvenuto durante il passaggio del Po. Non aveva le armi e nemmeno le scarpe. Anche negli ultimi istanti della disfatta possono sempre servire.
Lo seppellirono in fretta e furia nell'ossario del cimitero del paese. Seppero allora che la guerra era veramente finita.
Ancora oggi c'è una piccola lapide: 30/4/1945 - Sergente X Mas.
Negli stessi giorni, nell'Oltrepo Pavese, si ritiravano i mongoli. Tutti assieme, come una tribù. Come tribù erano stati quando, nei disastri umani e politici della storia, avevano stretto, nel gelo russo, il loro folle patto con il Terzo Reich. Anche loro andavano verso il nulla, con i loro ataman e le loro iurte. Come un circo dell'orrore.
Carlo Sgorlon è morto oggi. Anche Carlo Sgorlon aveva visto avvenire tutto questo, nelle sue terre. E ne aveva scritto.
Un libro.
L'armata dei fiumi perduti, di Carlo Sgorlon, Mondadori.

giovedì 24 dicembre 2009

Il passo della formica e quello del gallo

Santa Lusìa al pas d'una furmìa. Nadàl al pas d'un gal. Santa Lucia il passo di una formica. Natale il passo di un gallo. Dalle mie parti i vecchi dicevano così. Ma lo diciamo anche oggi. Il 13 dicembre, il giorno di Santa Lucia, la luce ha il passo corto, come quello della formica. Il giorno di Natale, ormai passato da alcuni giorni il solstizio d'inverno, la luce aumenta e quindi ha un passo più lungo, come quello del gallo.
Oggi sono stato al cimitero. A trovare i miei morti. Ogni vigilia di Natale ci vado. I miei morti mi stanno dietro. Io sono la loro fine e forse il loro principio. Tra i miei morti c'è anche mio padre.
Sarà stato per la nebbia o per la pioggia ma, nonostante il prossimo passo del gallo, alle quattro del pomeriggio era già buio.
Ho acceso un cero. Mi è sembrato che ci fosse un po' più di luce. Tutto qui.

Come in un romanzo di Conrad

Dalle mie parti le poste sono molto impegnate a fare l'istituto di credito e il gestore di telefonia mobile. Un po' meno a fare le poste. Ci sono giorni nei quali il flusso delle comunicazioni si blocca all'improvviso e si sta tutti lì, come nelle colonie, ad aspettare il postale da Londra, che ti porta il Times vecchio di un mese. Sarebbe bello starsene tranquilli, indossando un completo di lino bianco, un casco coloniale di sughero, fumare un sigaro sorseggiando rhum e dire: sto aspettando un comuncato urgente dalla Compagnia delle Indie. Speriamo mi arrivi entro il mese prossimo.
Ecco, proprio come in un romanzo di Conrad.
Ultimamente poi mi accade un fatto strano. Essendo abbonato ad un quotidiano, si presume che arrivi tutti i giorni. Sistematicamente mi accade che il postino mi metta nella cassetta delle lettere il giornale vecchio di un giorno. Il giorno 20 leggerò il giornale del 19 e il giorno 19 quello del 18. Interessante. Sembra di essere nel Mago di Oz.
Indro Montanelli diceva che non c'è cosa più vecchia al mondo di un quotidiano vecchio di un giorno.
Che, oltre all'istituto di credito e alla gestione di telefonini, le poste vogliano cominciare ad interessarsi anche di antiquariato? Buon Natale a tutti!

mercoledì 23 dicembre 2009

Vorrei averlo scritto io

Dino Campana camminava e camminava e camminava. Camminava e scappava. Scappava e camminava. Dino Campana ogni tanto si rifugiava in un cinema, per trovare un momentaneo sollievo alle sue ossessioni. Dino Campana attraversava l'Italia e il Sudamerica. Dino Campana alla fine ha smesso di scappare. Dino Campana è morto in manicomio. Dino Campana era un poeta.
A volte capita di camminare e camminare e camminare. A volte capita di camminare e scappare. Camminando e forse scappando ho trovato questo blog. E in questo blog ho trovato questo post.
Mi sono sentito come Dino Campana quando, nascondendosi nel buio della sala di un un piccolo cinema di paese, trovava un po' di sollievo al vagare della sua mente.
Quel post lì avrei proprio voluto scriverlo io.
Comunque credo che, come regalo di Natale, possa funzionare.

martedì 22 dicembre 2009

Pioggia e recensioni

Oggi, invece di nevicare, si è messo a piovere. Oggi ho scoperto che la pioggia non mi piace più.
Quando pubblichi un libro vai in cerca di recensioni. E' normale. Anch'io l'ho fatto a suo tempo.
Uno che conta. Uno che, se parla di te, ti fa vendere un sacco di copie. Uno che ha un blog seguitissimo. Uno che dirige la collana più importante di una casa editrice importante. Ecco cosa ti serve. Cerchi su internet. Trovi il suo indirizzo. Gli spedisci il libro e magari gli mandi una mail. Lui ti risponde che sì, se il libro gli piace ne parlerà.
Passano i mesi, gli anni. Vai sul suo seguitissimo blog e scopri una frase, una frase che non avevi letto prima: non inviatemi i vostri libri con raccomandate. Io a casa non ci sono quasi mai. Se mi spedite il libro con la posta ordinaria, il postino lo mette nella cassetta delle lettere e io poi lo trovo. Se lo spedite con una raccomandata mi costringete a sprecare un'ora e mezza di macchina per fare avanti e indietro dall'ufficio postale.
E io che credevo che il mio libro non gli fosse piaciuto. Ecco perché non ne ha mai parlato. Si è trattato solo di un disguido postale.
Credo che la pioggia ricomincerà a piacermi.

lunedì 21 dicembre 2009

In cerca della Biblioteca di Babele

(nella foto: Borges e Franco Maria Ricci)

Nei primissimi anni Ottanta riuscii ad accaparrarmi il primo numero di FMR. Rivista patinata edita da Franco Maria Ricci (purtroppo non siamo parenti, ma solo quasi omonimi). Nelle ultime pagine feci una grande scoperta (le scoperte fatte alla fine di una rivista o di un libro sono, secondo me, le più belle e foriere di fascino). La sua casa editrice aveva raccolto in una collana tutti i testi che Borges riteneva fondamentali per la sua formazione e i suoi interessi. La collana si intitolava (of course, direbbero alcuni) La Biblioteca di Babele (inserisco il link, così se ne può avere la visione completa). All'epoca non riuscii ad acquistare nessuno di quei libri. D'altra parte ero molto giovane, la passione per Borges mi era appena nata e si era concretizzata nell'entusiastica lettura della Antologia della letteratura fantastica. Anni dopo la collana uscì negli Oscar Mondadori, ma neanche allora ne acquistai i volumi. Qualche anno fa, a cena da un amico scrittore, potei ammirarne tutta la serie completa (quella originale edita da Franco Maria Ricci). L'amico scrittore mi confessò di averla fortunosamente trovata in una libreria di Pisa, luogo dove allora frequentava, alla Normale, un corso di dottorato. Quella sera mi ricordai di tutte le volte che quella collana mi era capitata sotto agli occhi, senza che io facessi nulla per ottenerla. Una ricerca senza esito che mi ha accompagnato per anni e che mi accompagna tuttora. Sono sicuro che Borges stesso, in qualche modo, apprezzerebbe questo inseguimento infruttuoso.
Il Natale si avvicina. Tra gelo, nebbia e neve, sono costretto ancora una volta ad esortare gli amanti del grande argentino a frequentare bancarelle e librerie semiclandestine. Può darsi che quei libri si nascondano da qualche parte. Se qualcuno che li conosce e li cerca, li trova, mi faccia un fischio. Almeno saprò che qualche estimatore di Borges è rimasto soddisfatto.

domenica 20 dicembre 2009

Indro Montanelli e la salamandra

Sono sempre stato un grande ammiratore di Indro Montanelli. La sua Storia d'Italia me la sono bevuta tutta prima dei vent'anni.
Il grande Indro accusava noi italiani di essere dei dietrologi; di cercare cioè, dietro ad ogni avvenimento politico, cause più o meno occulte, che poi tanto occulte magari non erano. Portava ad esempio gli americani che mai, secondo lui, avrebbero fatto o pensato una cosa del genere. Il grande toscano dimenticava però tutta la dietrologia americana sull'omicidio del presidente Kennedy e tutto il florilegio sulla teoria del complotto, che proprio negli Usa ha uno dei suoi pilastri.
Ma ai grandi del giornalismo si può ben perdonare una svista (e io, a Montanelli, perdonerei questo ed altro).
Nei primi anni Settanta esce in Italia un libro strano. Lo scrive Morris West. Si intitola La Salamandra. Non so se Mondadori lo ha ancora in catalogo e pertanto invito tutti a frenetiche consultazioni prenatalizie di bancarelle e di remainders.
Il passato della nostra storia è sempre presente ed sempre in procinto di ritornare (o forse è già ritornato, o forse non se ne è nemmeno mai andato via). Le parole d'ordine più retrive e pericolose sono da noi sempre attuali. Morris West ha scritto alcune cose sull'Italia, alcune cose sul nostro passato recente. E per raccontarle ha scelto la forma del romanzo. Molto prima di De Cataldo.
Due libri.
La Salamandra, di Morris West (Mondadori).
Libra, di Don DeLillo (Einaudi).

venerdì 18 dicembre 2009

Alack Sinner


Topolino si leggeva bene. C'erano su un sacco di citazioni. Era una scuola che ti insegnava tantissime cose. Una ventina di anni fai scoprii Philip Dick, poi mi sono ricordato di una storia, apparsa proprio su Topolino, dove un robot maggiordomo si chiamava Android (e in Italia le pecore elettriche e i blade runner erano di là da venire). E in un'altra c'era uno scienziato pazzo, con il corpo distrutto, che viveva in una sorta di incubatrice mobile, cose che si vedranno nella serie originale di Star Trek (dove peraltro si sprecano le citazioni ad Asimov e al buon vecchio Phil Dick).
Ma il tempo passa, diventa di pietra, come forse di pietra diventano le nostre facce (se non, Dio non voglia, anche le nostre anime).
Se si deve parlare di facce di pietra, e lo si deve fare visto che il tempo passa, allora bisogna parlare di Alack Sinner.
José Munoz e Carlos Sampayo sono due bei nomi. Viene in mente, a sentirli, tutto il Sudamerica, con il suo colore (fatto di gioia, allegria, umanità) ma anche con tutto il suo dolore (fatto di narcos, di consiglieri americani, di torturatori alla Pinochet e alla Videla).
Loro si firmano così: Munoz y Sampayo. Un nome dalla fonetica spagnola quasi rimbalzante, che ti ricorda quando Gianni Minà parla estasiato di Cuba (forse un po' meno di estasi non farebbe male, d'altra parte Cuba, prima di Castro, era un bordello mafioso).
E allora è ovvio che le facce (e non solo) diventino di pietra.
Alack Sinner è un personaggio cupo che vive storie cupe. Alack Sinner è un detective dalla faccia di pietra. Munoz y Sampaio l'hanno disegnato e fatto vivere.

giovedì 17 dicembre 2009

E.M.Forster e lo stradone

Si dice proprio così: lo stradone. Dalle mie parti è la strada principale del paese. E' la Statale 211, che va da Tortona a Novara. Ma può essere anche un'altra. Magari una che ti porta da Casale Monferrato a Pavia. Oppure da Alessandria fino a Vigevano. Oppure una circonvallazione qualsiasi, un nastro grigio, senza paracarri, che si confonde con la nebbia d'inverno o che si fa abitare dalla Fata Morgana, nel luccichio tremante del caldo di Luglio.
L'importante è che spezza in due tutti i paesi e nell'unirli e avvicinarli (in quella apparente facilità della pianura) li lascia come sono. Perché le due parti tagliate sono in realtà simili. Niente quartieri diversi o gente o usi differenti. Li spezza e basta. Ma li lascia uguali. Perché quello che conta, poi, non sono i paesi, non sono i campi, no; quello che conta è lo stradone.
Dello stradone mi ero completamente dimenticato. Me lo ha fatto ricordare Piersandro Pallavicini quando, recensendomi su Satisfiction, ha parlato degli stradoni che si potevano riconoscere in quello che avevo scritto.
Passavo in auto proprio su uno stradone quando mi è venuta voglia di leggere Forster. Avevo comprato tempo prima un meridiano mondadori con tutti i suoi romanzi. Quegli acquisti che si fanno a Natale, quando i meridiani sono scontati.
L'ho già detto tempo fa. Quando, come faccio io, si legge per motivi tecnici, quando si legge per scoprire i trucchi del mestiere, si perde la gioia di leggere per il gusto di farlo. E la si perde definitivamente. In modo irreversibile.
Ma con i romanzi di Forster no. Con Forster è stato diverso. Dopo tanti anni.
Una volta Piersandro Pallavicini mi disse: "La Lomellina è uno stato d'animo."
L'importante è farsi venire in mente un buon libro da leggere, mentre si viaggia su uno stradone.
Un libro.
Romanzi, di E.M. Forster (I Meridiani Mondadori)

lunedì 14 dicembre 2009

Neanche nella Rurh

Ci son dei giorni che ti guardi intorno e non vedi niente.
Una volta qui era pieno di filande. Ma una volta non vuol dire ieri. Una volta vuol dire prima della guerra. Una volta qui era pieno di gelsi, che i bachi da seta solo le foglie dei gelsi mangiavano. E le filande avevano delle ciminiere. Alte, in pietra rossa, che neanche nella Rurh. Perché i bachi li dovevi far morire nell'acqua bollente, prima di prelevarne la seta. E poi le migliaia di bozzoli li raggruppavi in balle, come il fieno.
I vecchi raccontavano che c'era uno che in filanda si occupava di spostare queste balle. E che era diventato mezzo matto perché, diceva lui, le balle gli cadevano in testa. E lo facevano apposta, a cadergli in testa.
Ieri ho fatto una passeggiata. Ho visto un sacco di TIR e un sacco di capannoni. I TIR e i capannoni non avevano insegne. Non avresti potuto capire cosa trasportassero i primi e che cosa si facesse nei secondi.
Mi è sembrato che una balla mi cadesse in testa e che lo facesse apposta, a cadermi in testa.
Ci son dei giorni che ti guardi intorno e non vedi niente.

domenica 13 dicembre 2009

Holland House Library

Io questa foto me la porto dietro da un sacco di tempo.
Dalle mie parti c'è una città in riva ad un fiume. E in questa città c'è un'università. E questa università è quella che ho fatto io. E questa università divide in due la città. Da una parte le facoltà scientifiche, dall'altra tutte le altre. E le facoltà scientifiche sono in periferia, mentre tutte le altre sono in centro. Così chi frequenta le prime, quando viene in centro, dice:"vado in città".
Qualche anno fa capitai per caso nella periferia delle facoltà scientifiche. Mi misi a guardare la vetrina di una libreria. Mi piacciono le librerie. Mi piace guardare le loro vetrine. E' una cosa che faccio sempre. Vicino a testi di anatomia e di patologia (era una libreria per studenti di medicina) c'era un poster. E il poster riproduceva proprio questa fotografia. Entrai. Il titolare era un omino anziano, vestito con un completo marrone. Mi incartò il poster e pagai. Poi chiesi: "Che cosa rappresenta?" Sorrise piano:"Bisogna andare avanti. Sempre. Nonostante tutto. Nonostante tutto."
Io questa foto me la porto dietro da un sacco di tempo.




(1940-Holland House Library. Kensington. Londra.
Lettori scelgono libri, dopo un raid aereo tedesco.)

venerdì 11 dicembre 2009

Avevo cinque anni e mezzo (12 dicembre 1969)

Da bambini il ...e mezzo conta. Conta eccome! Non sei schiavo del tempo che passa e che ti si deposita addosso. Il tempo lo vuoi cavalcare. Il tempo è importante e lo devi segnare, lo devi contare. Ecco perché non ti basta dire: ho tot anni. No! Il tempo lo devi fare tuo. Tutto! E allora aggiungi il ...e mezzo, così diventi più grande.
Una grande foto. Tutta grigia. Anzi, piena di tonalità di grigio. Grigio scuro dei mattoni, grigio chiaro del pavimento, grigio pieno di ombre degli stracci, grigio quasi bianco delle facce. Ma i mattoni non sono mattoni, sono calcinacci. Il pavimento non è pulito, è tutto sporco. Anche le facce sono sporche. Sono facce con le bocche aperte. Più per la sorpresa (la sorpresa dell'orrore, quello inspiegabile, quello che pensi non possa accadere, mai) che per il dolore. Gli stracci non sono stracci. Sono vestiti. Anzi, sono persone. Buttate per terra. Buttate via. Come stracci.
Mia madre mi tolse di mano il giornale. Non sta bene per un bambino vedere quelle cose.
Era una foto della sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura. Quella in Piazza Fontana. A Milano.
Era il 12 dicembre 1969.
Avevo cinque anni e mezzo.

martedì 8 dicembre 2009

Il sogno, José Saramago, Borges e la biblioteca

Subisco spesso la ricorrenza di un sogno. Su di me, come su tutti quelli che amano i libri, stare in una libreria o in una biblioteca, ha lo stesso effetto che una pasticceria ha su un bambino che ama i dolci.
Nella ricorrenza di questo sogno l'ambientazione è ovviamente una libreria. Immensa, con migliaia di scaffali, dove altrettante migliaia di libri non aspettano altro che di essere guardati, sfogliati, letti.
A pag. 100 de Il Quaderno, José Saramago così scrive: "L'ultima immagine che abbiamo del Brasile è quella di una libreria, una cattedrale di libri...una libreria per acquistare libri, certo, ma anche per godere dell'impressionante spettacolo di tanti titoli organizzati in modo così attraente, come se non fosse un negozio, come se si trattasse di un'opera d'arte."
Certamente è un'effetto della traduzione, ma mi pare di notare nella prosa di Saramago, a me che sono da sempre un frequentatore della parola di Borges, lo stesso ritmo, la stessa prevalenza del non detto che ritrovo spesso, e con sommo piacere, nel grande argentino.
Sempre Saramago, sempre Il Quaderno. Così a pag. 111: "...continuo a considerare (Borges, n.d.a.) l'inventore della letteratura virtuale, quella sua letteratura che sembra essersi slegata dalla realtà per meglio rivelarne gli invisibili misteri."
Due libri.
Il Quaderno, di José Saramago (Bollati Boringhieri).
Il fascino delle biblioteche, di Massimo Listri e Umberto Eco (Umberto Allemandi & Co.)

lunedì 7 dicembre 2009

Web 2.0 addiction

Oggi sulla pianura piove. Una pioggia umida, costante. Una pioggia, come disse una volta un mio amico, alla Blade Runner. Una pioggia che ti trapassa i muscoli e anche, forse, il cervello. Ecco perché viene voglia di scrivere certe cose (tutte comunque molto phildickiane).

Lo devo proprio confessare. Mi piace girare sul web per leggere quello che il web dice di se stesso. Digitare friendfeed o twitter o tumblr o wordpress su qualsiasi motore di ricerca e leggere tutto quello che si dice o si racconta o si spera o si prevede sui destini del web2.0, esercita su di me un fascino sconfinato. Adoro sapere se blogger ha ancora un senso. Mi piace conoscere quello che la blogosfera pensa (nel bene o nel male) di tumblr. Provo un senso di appagamento sapere dell’esistenza di ping.fm o di hellotxt. Mi perdo nelle considerazioni di chi cerca di dare un senso a Posterous. Che tristezza infinita e inconsolabile venire a scoprire che un follower ti ha mollato, o che su FB qualcuno dei tuoi amici è scomparso. E che orrore quando il disertore non si è cancellato, ma è ancora lì, con tutti i suoi amici e i suoi followers, e tutto questo senza di me! E il grave è che tutto quello che ho scritto fin qui, l’ho scritto senza alcun intento ironico. E’ questo il grave. E’ questa la mia folle web 2.0 addiction.

Mio nonno combatté nella Prima Guerra Mondiale. Si fece un paio di inverni in una trincea sul Carso, prima di essere colpito da una granata. Si lavava nella neve e, nelle lettere che spediva a mia nonna, ci metteva le pulci morte per far vedere come se la passava da schifo.

Mio padre combatté nella Seconda Guerra Mondiale. Si fece tre anni al fronte, prima di essere travolto dall'otto Settembre e finire preso dai Tedeschi.

Chissà. Almeno la guerra oggi si facesse solo via mail o su qualche social network. Sta di fatto che, come disse una volta un altro mio amico (che non abitava in pianura, ma sulle colline tortonesi): ci va giù bene!

sabato 5 dicembre 2009

Apocalipsi nau

C'è un detto, nel dialetto delle mie parti, che si usa quando a qualcuno vengono le idee più strane e irrealizzabili: ad venan in ment me i fra ad not (ti vengono in mente come ai frati di notte).
Oggi non è l'anniversario di niente che riguardi Andrea Pazienza, ma a me, che vengono in mente come ai frati di notte, è venuto in mente il Paz.
Certo che, quando lui cominciava a disegnare le sue storie, io non è che fossi già grande. Mi pare facessi le medie. Però già cominciavo a leggere Linus, Frigidaire, Alter e tutta la compagnia.
Lo Zanardi, lo confesso, mi è sempre stato sulle cosidette, però, quando qualche anno dopo, cominciai a frequentare l'università, con tutto l'annesso e connesso di collegi, mense, file chilometriche alle segreterie per ritirare gli statini (chissà se oggi qualcuno sa ancora cosa sono gli statini?), di cose e atmosfere simili a quelle che disegnava il Paz ne ho viste parecchie.
Poi nel 2002, dopo tante letture sulle tavole a fumetti, ho visto il film Paz!
E lì Andrea Pazienza c'era tutto. E c'era tutto il suo mondo che poi era stato anche il mio. E allora mi sono tornati in mente Pompeo, Pentothal e tutta la compagnia e perfino lo Zanardi mi stava un po' meno sulle cosidette.
C'è una scena del film dove un'interminabile fila di studenti aspetta di entrare in un mensa universitaria e, guardandola, ho capito che in file così avevo passato degli anni e che miei erano anche i portici della città universitaria e i cieli grigi degli autunni e le figure che ci passavano sotto.
E mi sono ricordato che a tutti era capitato, prima o poi, di finire davanti a una commissione d'esame e dire, come Fiabeschi: Apocalipsi nau.
Un film.
Paz!, di Renato De Maria (2002).
Le opere di Andrea Pazienza.
Ovviamente tutte.

venerdì 4 dicembre 2009

Il tarlo della lettura

E così alla fine è uscito. Ha per titolo Il tarlo della lettura, lo pubblica Rizzoli e c'è lo zampino di aNobii. Su aNobii ci siamo un po' tutti-quelli ai quali piace leggere, quelli che ci stanno per farsi vedere e quelli che ci stanno perché gli piace starci, punto e basta (tra l'altro non ho mai capito perché la maggior parte dei suoi iscritti ci sta con un nickname e non con il proprio nome, cosa, secondo me, freudianamente interessante).
Il libro non l'ho ancora comprato e non so se lo comprerò, comunque, se lo leggerò, magari ne parlerò ancora.
Sul duepuntozero è tutto un fiorir di critiche: "che me ne faccio se le recensioni posso leggerle gratis direttamente sul sito"; "oh, che bello, hanno messo la mia recensione"; "costa troppo"; "era ora, lo aspettavo con ansia" e via discorrendo.
Negli '80 (anzi, se non ricordo male proprio nell'80) girava una canzone (con relativo video; ah, i video degli anni'80) dei Buggles (costola degli Yes): Video killed the radio star.
Poi, sempre negli '80 (ma quante cose accadevano negli '80, sembra quasi di rimembrare il tondelliano weekend postmoderno) Renzo Arbore ci dice che la radio non è morta e se ne sta tranquillamante a fianco della tivvù.
Allora, tiriamo le somme. Sul duepuntozero è tutto un peana sulla morte del libro e alla fin della fiera dal duepuntozero proprio un libro viene fuori.
Che dire?

giovedì 3 dicembre 2009

Una risata vi (ci) seppellirà

Nei momenti bui si legge di più. Si scrive anche di più. Forse. Oppure è un'impressione. Ma le impressioni sono importanti. Niente di ciò che è vale tanto come ciò che sembra. E nello scrivere te ne freghi bellamente di ciò che è, perché il tuo compito è solo quello di far sembrare vero quello che è vero.
Mi sono sempre piaciuti i libri della Longanesi. Almeno quelli di una volta. Squadrati, con la copertina liscia e la carta bianca e ruvida.
Nel 1982 mi metto a leggerne uno. E' appena uscito. In copertina una foto strana: Stalin che fa cippirimerlo con la manina. L'immagine è sfocata, a denunciare la polvere del tempo; a dare, forse, quella patina da combat film, che fa tanto anni Quaranta e ricorda anche quei filmini, girati da Eva Braun, dove Hitler fa il buffone a Berchtesgaden.
Diego Gabutti, il cippirimerlo con la manina, è lui a farlo. Un'avventura di Amadeo Bordiga porta come sottotitolo: Il romanzo della rivoluzione come fantasmagoria.
Il dibattito sul post noir? Lucarelli che afferma che le nostre guerre coloniali sono il nostro far west? Dimentichiamoci tutto. Diego Gabutti aveva già capito come girava il mondo, letterario e non. E lo aveva capito quasi trent'anni fa. E aveva capito come descriverlo.
Umberto Eco, ne Il nome della rosa, gioca sulla presunta ossessione della Chiesa per il ridicolo e per l'umorismo. Per Gabutti invece il mondo è abitato da inconsapevoli burattini di un vaudeville politico-ideologico. E lo dice (e lo scrive) come un Henry Miller rinsavito o un Raymond Chandler ubriaco.
Prego per voi affinché ne possiate trovare una copia. Su una bancarella o in un remainder, poco importa. Quando lo leggerete, capirete quanto di ridicolo (e di spaventosamente terribile) c'è dietro la storia (quella con la esse maiuscola).
Un libro.
Un'avventura di Amadeo Bordiga, di Diego Gabutti (Longanesi).

domenica 29 novembre 2009

Lavoro già eseguito! Martin Eden e Ferruccio Parazzoli

E allora scrivi e scrivi e scrivi e scrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi. E poi ancora scrivi e scrivi e scrivi e scrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi. E, prima ancora di scrivere e di riscrivere, hai letto e letto e letto e letto ancora e poi ancora e poi ancora e poi ancora. Perché sai che, per scrivere, devi leggere e leggere e leggere e leggere e poi ancora leggere. E allora, dopo aver letto e letto e letto e letto ancora, scrivi e scrivi e scrivi e scrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi. Poi magari ti capita di riuscire a trovare un editore che ti pubblica e riesci anche ad ottenere perfino qualche recensione e allora sei contento e ricominci a leggere e a leggere e a leggere e a leggere ancora, per scrivere e scrivere e scrivere e scrivere ancora.
Poi un giorno ti capita per le mani questo libretto di Ferruccio Parazzoli, con il titolo accattivante. Accattivante perché sai che parla di gente come te, di gente che legge e legge e legge e legge ancora e poi scrive e scrive e scrive e scrive ancora.
Allora scopri che ci sei quasi arrivato vicino e che ti manca giusto tanto così per la perfezione e che ti sembra di poter già urlare come Martin Eden: lavoro già eseguito!
Ma scopri anche che quel tanto così che ti manca può valere un'intera vita e che forse un'intera vita non sarà abbastanza.
E allora leggi e leggi e leggi e leggi ancora e poi scrivi e scrivi e scrivi...
Due libri.
Martin Eden, di Jack London (Einaudi).
Inventare il mondo. Teoria e pratica del racconto, di Ferruccio Parazzoli (Garzanti).

sabato 28 novembre 2009

White noise

Una scia di automobili nella notte autunnale. Movimento istintivo di un mammifero meccanico, pluricellulare. Colonna monotona di luci mobili, confusa con la voce monocorde del traffico dati. Onde radio. Voci perse nella notte. Hub d'informazioni. Interessanti. Ottime per addomesticarci e assuefarci alla follia dell'auto. Forse radiotre. Forse Fahrenheit. Argomento accattivante. La vitalità mostruosa del traffico resa accettabile dai suoni articolati della radio. Conclusioni che nascono dalla concretezza di voci che discutono della possibile impalpabilità del web. Tutto ciò che scriviamo, tutto ciò che affidiamo alla rete ha, nelle sue possibilità, anche quella della conservazione? Un flusso costante di affermazioni, un flusso costante di disperata vitalità, percorre un sentiero forse posticcio. Siamo osservatori o osservati? Le voci discutono, ma non hanno risposte. Solo domande. Nel Ciclo della Fondazione, Asimov fa cercare ai suoi personaggi il punto originario di tutti noi. La Terra però non conserva più alcuna informazione. Il nostro esserci affidati con supponenza a supporti eterei ha trasformato il nostro patrimonio di ricordi in un costante e definitivo effetto neve. Perdendo e cancellando ogni memoria di noi. Il traffico della scia luminosa delle auto ci porta via, come ci porta via il traffico dei dati e della ridondanza dei flussi.
Ogni analisi sul nostro tempo, anche la più critica, è forse una componente, magari smaliziata, di questa assuefazione. Come le droghe che assumono i personaggi di Philip Dick. Creatrici dapprima di un universo sintetico, costruito per alleviare, nell'allucinazione, il nostro dolore quotidiano. Nemico mortale poi. Senza appello. Come in Un oscuro scrutare.
La discussione in radio è finita. Rimane un suono costante. Rilassante. Forse.
Rumore bianco.
White noise.

mercoledì 25 novembre 2009

Non c'è più la nebbia di una volta

-Io ne possiedo più di centomila pertiche. Pertiche milanesi intendo. Sopra di me c'è solo il Radice-Fossati.-
Certo. D'altra parte è una cena di lavoro. E le cene di lavoro sono fatte per dire e soprattutto per ascoltare. E ascoltare cose così.
Ascolto. Ascolto e guardo la ragazza bionda che lo accompagna. Esile. Carina. Porta i capelli raccolti con la coda di cavallo. Ma di quelle sbarazzine. Quelle che stanno sulla nuca e ballano ogni volta che lei muove appena la testa.
Maria Corti per me era un mito. Non l'ho mai conosciuta. Ma era un mito lo stesso. Per quello che faceva, per quello che insegnava, per quello che scriveva.
Anni fa lessi un suo libro. C'era una ricercatrice, forse una filologa, che andava negli USA e poi, dopo grande fatica, improvvisamente scopriva tutti i segreti della lingua inglese. La ricercatrice doveva essere di mezza età, forse un alter ego della stessa Corti. Ma io me l'ero immaginata bionda. Esile, carina, giovane e bionda. E con i capelli raccolti con la coda di cavallo.
Anche Micol Finzi-Contini me l'ero immaginata così. E poi, quando vidi Dominique Sanda nel film di De Sica, me ne innamorai subito.
La cena di lavoro è finita. Se ne va con la ragazza bionda (la figlia? l'amante?).
-Stasera si arriva a casa subito. Non c'è più il gran nebbione. Non c'è più la nebbia di una volta.-
La nebbia. Più che grigia me l'ero sempre immaginata bionda.
Non c'è più la nebbia di una volta.
Due libri.
Voci dal Nord-Est: taccuino americano, di Maria Corti (Bompiani).
Il giardino dei Finzi-Contini, di Giorgio Bassani (Mondadori).

post di servizio (verrà cancellato)

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lunedì 23 novembre 2009

Qui non siamo mica nelle Langhe

Cesare Pavese l'ho letto. Ma di rileggerlo la voglia non mi è mai venuta. D'altra parte qui non siamo mica nelle Langhe. Qui, di provincia granda, nemmeno l'ombra. Gianni Brera sì, che lui l'aveva detto e poi l'aveva anche scritto: questa provincia tuttalpiù poteva sembrare un grappolo d'uva. Ma solo perché sotto il Po fanno il vino. E il resto della provincia può semmai somigliare alla foglia.
Beppe Fenoglio l'ho letto. E l'ho anche riletto. E l'ho quasi imparato a memoria. Perché la sua provincia granda è fatta di violenza e di disperazione. Non è necessario imbracciare lo sten o fare azioni di guerriglia partigiana. La sua è una provincia sempre in guerra. Anche quando la guerra non c'è.
Il Carlén girava vestito come un barbone. Mangiava i rifiuti e di notte dormiva sulla panchina, l'unica, della piazza del paese. Non solo d'estate con l'afa, ma anche d'inverno, con la brina e la nebbia.
I ragazzi lo prendevano per il culo e lui gli bestemmiava contro. Quando litigava con qualcuno, era capace poi di incendiargli il raccolto.
Il Carlén non si è mai lavato. E' morto a ottant'anni e in banca gli hanno trovato un pacco così di milioni.
Altro che provincia granda.

domenica 22 novembre 2009

Vincitori e vinti

Una cittadina. Persa nella terra tra i tre fiumi.
Un pomeriggio di novembre. Tra Piemonte e Lombardia.
Ragazzine. Pantaloni a vita bassa e sigarette fra le dita. Parlano e ridono e camminano in quattro, fianco a fianco, sul marciapiede. Non si spostano. Una mamma con la carrozzina deve scartare sotto un portone. Per farle passare. Parlano e ridono. A voce alta.
Quattro ragazzi. Più grandi. Sui vent'anni. Anche loro sul marciapiede. Anche loro non si spostano. La mamma con la carrozzina aspetta. Aspetta sotto al portone che passino anche loro. Per non essere costretta a scendere dal marciapiede.
Sguardi duri. Vissuti. Abiti D&G. Loro come le ragazzine. Anche le ragazzine hanno sguardi duri. Vissuti. Depositari di un orizzonte misterioso. Maria de Filippi ha lavorato bene. Uomini e donne ha ormai fatto proseliti.
Un suv nero. Con i vetri oscurati. Svolta senza freccia e passa veloce sulle strisce pedonali. Una frenata. Breve. Stizzita. Riparte suonando il clacson. Sulle strisce pedonali ci sono due mamme. Una è quella di prima, l'altra indossa il chador. Guadagnano l'altro lato della strada e se ne vanno. Il suv riparte. Sgommata di rito.
Due magrebini sono seduti su una panchina. Guardano lontano e parlottano tra di loro. Di fronte alle strisce una pattuglia di vigili urbani. Anfibi neri, beretta automatica e sfollagente.
Le mamme sono lontane. Quella italiana e quella con il chador.
Una cittadina. Persa nella terra tra i tre fiumi.
Un pomeriggio di novembre. Tra Piemonte e Lombardia.

giovedì 19 novembre 2009

Quanti sorsi ci vogliono per vuotare un bicchiere di vino?

Quanti sorsi ci vogliono per vuotare un bicchiere di vino?
Il tramonto del sole trasformava lentamente in giallo il verde chiaro delle colline.
-Fa caldo. Quest'anno a vendemmiare si comincia presto e sarà un'annata ottima.-
Prese la bottiglia. Con calma. Soffiò via piano piano dal vetro scuro il sottile velo di polvere, quasi con amore. Come se avesse avuto tra le mani un neonato.
Si sedette adagio. Si tolse il panama, se lo appoggiò in grembo e allungò le gambe stanche. Le giunture, scricchiolando, gli fecero male.
-E' da troppo tempo che sono qui. Sono troppi anni ormai.-
La Napa Valley si apriva davanti ai suoi occhi stanchi.
Quanti sorsi ci vogliono per vuotare un bicchiere di vino?
Sospirò a lungo. L'aria sapeva di terra. Sapeva di estate finita e di tiepido autunno.
Prese un bicchiere di vetro spesso. Un bicchiere da osteria. Niente calici. Niente vetri sottili da enologo. Gli enologi lui li pagava. E li pagava bene. Da sempre.
-Ma il pinot nero e il cabernet vengono così buoni per la vite, per la terra, per il sole. Mica per le chiacchiere dei tecnici.-
Tolse il tappo con pochi gesti familiari e ne annusò il sughero. Lentamente. Con passione. Come se stesse apprezzando il profumo di una donna.
Riempì il bicchiere fino all'orlo, lo appoggiò con calma sul tavolo e si sistemò per bene sulla sedia.
La luce del tramonto attraversava il rosso del vino, accendendolo come una notte d'agosto.
Quanti sorsi ci vogliono per vuotare un bicchiere di vino?
Alzò il braccio con solennità e mostrò il frutto della sua terra al sole del tardo pomeriggio. Poi portò il bicchiere alle labbra e cominciò lentamente ad assaporare.
Il primo sorso lo dedicò a suo padre.
Ellis Island. Un bastimento sudicio per il vomito del mal di mare.
Un uomo orgoglioso, di poche parole, che teneva per mano un bambino pieno di paura.
Quasi settant'anni prima.
Il secondo sorso lo dedicò a sua madre.
Una donna piena di amore, piegata dalla fatica, che aveva lasciato le lacrime al suo paese, in Piemonte.
Il terzo sorso lo dedicò ai suoi figli.
Il maschio, ingegnere al Caltech. La femmina, medico a San Francisco.
Il quarto sorso lo dedicò a sua moglie.
Il suo profumo era come quello del vino. E adesso, era accanto alle viti che riposava. E presto, molto presto, anche lui sarebbe andato a riposare accanto a lei. E un giorno, proprio accanto all'ombra delle viti, si sarebbero risvegliati insieme.
Si alzò adagio, con fatica. Si rimise in testa il panama, prese il bastone e cominciò a camminare piano.
La corona delle colline in lontananza lo accoglieva come una madre.
Al limitare della sua casa scorreva un piccolo torrente che, qualche chilometro dopo, finiva nel Napa River.
Arrivò con fatica fin lì. Alzò il bicchiere e lentamente iniziò a vuotarlo, versando il rosso vivo del vino rimasto, nell'azzurro tranquillo dell'acqua.
Da lì, accompagnato dalla corrente, sarebbe arrivato fino all'Oceano Pacifico. E dall'Oceano Pacifico, piano piano, sarebbe arrivato fino alle coste dell'Italia.
Così la sua terra, la terra di suo padre e di sua madre, avrebbe finalmente saputo dov'era finito quel bambino pieno di paura.

martedì 17 novembre 2009

Il mare a quadretti

Jo Galliard era un marinaio. Anzi, Jo Galliard era un capitano. Un capitano di una nave mercantile. Jo Galliard era anche il titolo di una serie di telefilm. E il capitano era interpretato da Bernard Fresson. Ma Bernard Fresson era anche l'ispettore Henry Barthelemy, ne Il braccio violento della legge 2, di John Frankenheimer. E Il braccio violento della legge 2 era ambientato a Marsiglia. E Marsiglia è un porto del Mediterraneo. E anche Montecarlo è sul Mediterraneo. E il direttore del Museo Oceanografico di Montecarlo era Jacques Cousteau. E Jacques Cousteau aveva una nave. E questa nave si chiamava Calypso. E a volte, sulla Calypso, c'era anche un piccolo idrovolante, che si chiamava Catalina. E Jacques Cousteau, con la Calyspo e il Catalina, era il protagonista di una serie di documentari. E questa serie si intitolava L'uomo e il mare. Questa era la televisione di quando ero piccolo.
Dalle mie parti il mare non c'è. Ci sono tre fiumi. E le risaie. Ma quello è un altro mare. E' un mare a quadretti. Ed è un mare che si vede solo ad aprile e a maggio.
Però Ivano Fossati ha scritto: "Fin da Pavia si pensa al mare/fin da Alessandria si sente il mare."
Ivano Fossati ha ragione.

lunedì 16 novembre 2009

Casual blogger

Siamo tutti schiavi ormai, nel bene e nel male, dei quindici minuti di notorietà che Andy Warhol teorizzava, pioniere dell'autoaffermazione nel e del nulla. Il blog si è estroflesso nei social networks (o SN, come dicono i geeks o presunti tali). E i social networks si sono atomizzati nelle piattaforme di microblobbing. Piattaforma. Nome definitivo che promette solidità marmoree nel pulviscolo atmosferico della parola. Qualcuno, da qualche parte nella rete, dice che chi entra in questo gioco virtuale (e molto phildickiano) della alimentazione forzata della espressività online, è convinto, per il solo fatto di starci, di essere protagonista di chissà quale scena. Trovo tutto comunque molto affascinante.
Come, d'altra parte, è affascinante quella definizione che sta scritta sulla home di posterous (ultima conquista della ridondanza del nostro egotismo): CASUAL BLOGGER. Mi ci ritrovo completamente. Non so perché ma il termine casual mi riporta alla fine degli anni Settanta, a Fiorucci, a "chi mi ama mi segua" stampato sulle deliziose natiche di una provocante fanciulla, fasciate da un paio di jeans (Wampum? Jesus? o Fiorucci, ancora lui?). Nel pieno di un solipsistico delirio duepuntozero mi posto questa roba nel cuore della notte e la posto via mail, proprio tramite posterous e da posterous finirà nel mio tumblr e poi la riprenderò, con qualche aggiustamento, nel mio blog, cosa che faccio ora, in una negazione totale e consapevole dello spazio tempo. Così, tanto per provare. Così, alla casual blogger. Postare via mail. E' un po' come un matrimonio per procura o per telefono, come vige in alcuni paesi di diritto islamico (o almeno così vuole, forse, un'ennesima leggenda metropolitana). Postare via mail. Tributo estremo alla logorrea infinita che nella notte cerca un argine. Tempo fa, su tumblr, qualcuno dichiarava di osservare "l'umanità insonne della dashboard". Ecco, tutto questo nei Settanta (e non me ne voglia Simone Sarasso) non succedeva. Forse non possiamo nemmeno più permetterci il lusso di dire "chi mi ama mi segua", nemmeno se sta scritto sul grazioso sedere di una bella ragazza che comunque, altezzosamente incurante, ci volterebbe pur sempre le spalle.
Un libro.
Quelli di Philip K. Dick (tutti).
Un film.
Un poliziottesco anni Settanta (uno qualsiasi).

domenica 15 novembre 2009

Romagna mia

Io in Romagna ci sono stato. Una volta, qualche anno fa. Non mi ricordo neanche più il perché. Ma non era estate. Era inverno, subito dopo l'Epifania. Nevicava perfino un po'.
Mi ricordo una città. Di plastica. Forse era Riccione. Ma non so. Non sono più sicuro.
Il mare era senza colore e girava poca gente. Le nubi erano di un rossiccio smorto e la sabbia della spiaggia sembrava grigia. Tutta la città sembrava grigia.
Tutti i colori, delle facce, delle case, dei pensieri, erano quelli lì.
Mi viene in mente un teppistello. Con la faccia del bambino, ma del bambino che tortura i gatti e poi, senza emozione, spiega agli amici il perché. E lo trova anche, il perché. E gli amici lo stanno ad ascoltare. Perché chi comanda è lui.
Mi vengono in mente pomeriggi senza il giallo del sole, nella sala fredda ed enorme di un ristorante semideserto e senz'anima, costruito lì, sulle fondamenta, come per caso. Ma per un caso sbagliato.
Mi viene in mente la faccia sfatta di chi si riunisce e si diverte per forza, ma poi non è nemmeno capace di odiare. E sa solo piangere. Per la rabbia del suo fallimento irreversibile.
Mi viene in mente un nome: Molecola.
Mi viene in mente un avvocato fallito. C'è sempre un avvocato fallito. Anch'io, quando scrivo, metto sempre, da qualche parte, il personaggio di un avvocato fallito. Chissà perché.
Un libro.
Snack Bar Budapest, di Marco Lodoli e Silvia Bre (Einaudi).
Un film.
Abissinia, di Francesco Ranieri Martinotti.

venerdì 13 novembre 2009

Piero Scaruffi, il musico e il freak

Sì, lo ammetto. Ho letto una storia della musica rock. Anzi più di una. Leggere di musica produce un sottile piacere. La parola scritta, il mezzo stesso della parola, trasfigura l'elemento dell'espressività musicale, creando una vera e propria illusione alternativa che, a poco a poco, diviene altro. Una casa editrice specializzata in testi sulla musica e sulla sua storia, chiamò anni fa una sua collana Vessazioni. Ecco, credo che il segreto stia tutto qui. Vessata dalla parola, la musica addirittura migliora.
Piero Scaruffi non è un critico musicale. Non è un giornalista che cerca la rockstar del momento. Piero Scaruffi è un navigante dell'underground. Non nel senso dell'ambiente anticonformista (spesso venato di conformismo e guidato delle sapienti mani del business discografico) che si fa bello di questa definizione. Scaruffi è un navigante e un esploratore del suo e del nostro underground. Di quello delle nostre anime.
Spietato con i mostri sacri. La sua quasi stroncatura dei Fab Four ha qualcosa di letterariamente immaginifico. La sua valutazione degli Stones e dei Ramones è la stessa che farebbe un mercante di cavalli ad una fiera quando, con disincantata esperienza, si attarda a guardare la dentatura degli animali per capirne quanto di artefatto ci sia in loro.
Un amore profondo (e un altrettanto profondo odio) lo lega a Zappa che alternativamente idolatra o distrugge.
Una passione infinita per il particolare maniacale. La rivalutazione di strumenti atavici delle origini della musica americana, come la washboard. La sua predilezione per esperienze inquetanti e singolari, come quella dei Residents. Il suo attardarsi nell'esaminare, con l'occhio scientifico dell'anatomopatologo, fenomeni produttori di stupefazione, come i Throbbing Gristle e la loro cantante Cosey Fanni Tutti, autentica icona di ispirazione warholiana, in bilico tra musica e porno. Il suo porsi con sufficienza di fronte ai Sex Pistols del tenutario di boutique Malcolm McLaren e dei suoi sodali Johnny "Rotten" Lyndon e Sid Beverly detto Vicious, lo renderebbe ad honorem coautore, con Julien Temple, de La grande truffa del Rock'n'Roll.
Il suo soffermarsi su fenomeni come i Tragic Mulatto o Jello Biafra gli fa alla fine affermare, quasi inconsapevolmente, che tutto comunque è in qualche modo debitore del punk. Come affascinante è la sua altrettanto inconsapevole e quasi paterna pietas per Lydia Lunch, poetessa, cantante, nichilista che lui definisce, con tenerezza priva di ogni acrimonia, "lamentosa".
Piero Scaruffi ha scritto e scrive di musica. A noi il compito di leggerlo sempre.
Due libri.
Storia del rock, di Piero Scaruffi (Arcana Editrice).
Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano, di Ernesto Assante e Gino Castaldo (Einaudi).

giovedì 12 novembre 2009

Essere Roberto Saviano

Certo, è difficile essere Roberto Saviano. E' difficile confrontarsi con Roberto Saviano, con quello che rappresenta, con ciò che attira e con ciò che respinge.
E' difficile pensare a Roberto Saviano. E' difficile parlare di Roberto Saviano.
Perché è necessario parlare del Roberto Saviano che scrive. Del Roberto Saviano che, come tutti noi, usa la parola e attinge dall'esperienza della condivisione della e nella letteratura.
E' necessario andare oltre gli schematismi. E' necessario andare oltre la definizione, peraltro lusinghiera, ma pur sempre tecnicistica, che di lui viene fatta da Wu Ming in New Italian Epic (Einaudi Stile Libero).
Certamente è affascinante e condivisibile definirlo "oggetto letterario non identificato". E lo è, forse inevitabilmente.
Certo, si può non essere completamente d'accordo con la sua citazione di Ken Saro-Wiwa, relativamente al fatto che lo scrittore deve avere un ruolo attivo e non aspettare il tempo in cui si realizzino le sue fantasie.
Ma credo si debba andare oltre.
Questa sera l'ho seguito su raitre. E l'ho ascoltato. Al di là di tutto. Al di là del mio essere d'accordo o meno con lui. Al di là delle definizioni letterarie e delle citazioni.
E l'ho ascoltato parlare di coloro i quali si sono immolati, anche loro malgrado, anche senza avere per nulla la vocazione al martirio, per l'amore della parola. Della parola e della letteratura. L'ho ascoltato parlare di coloro i quali hanno usato la parola come unica arma a loro disposizione.
Non voglio tirare in ballo definizioni come democrazia o libertà. Voglio solo dire che ho ascoltato Roberto Saviano.
In lui ho visto un poeta. E i poeti dicono la verità. Al di là di tutto e di tutti.
Grazie Roberto.

mercoledì 11 novembre 2009

Narrare il territorio

In Francia è definito il roman du terroir e come non sentire l'affascinante assonanza con il termine terroir, che nel mondo del vino sta a definire quell'insieme di fattori (la terra, l'ambiente, il vitigno, ecc. ecc.) che ne plasmano l'anima.
Ne avevo brevemente accennato in un'altra sede e ora ne approfitto per approfondire.
Il roman du terroir rappresenta una forma di espressione narrativa, nata nel mondo francofono, che prende le mosse dal territorio. Ma ha un senso narrare il territorio? E soprattutto ha un senso essere narratori del territorio?
Narrare il territorio, raccontare il territorio non può e non deve essere una rappresentazione solo agiografica, simile ad una guida turistica. Narrare il territorio, essere narratori del territorio ha un senso se l'intendimento è quello di partire dalle proprie radici per raccontarne i sentimenti (di amore, ma anche perché no, di odio) che da quelle radici inevitabilmente sgorgano.
Narrare il territorio, raccontare il territorio non può e non deve essere una diafana descrizione di baluardi indifendibili, apparentemente fermi, in un divenire storico da sempre in movimento.
Narrare il territorio, raccontare il territorio ha un senso solo se questa narrazione si libera da un malinteso senso dell'immobilismo memorialistico, per aprirsi alle contaminazioni: letterarie, di stile, di narrazione, di vita.
Solo così il narratore del territorio saprà sentire (e far sentire) il sapore, l'odore, l'aroma di quella zona di confine che è poi il territorio dell'uomo.
Un premio letterario: Tracce di Territorio.
Un libro: Narratori delle pianure di Gianni Celati (Feltrinelli).
Un dvd: Mondovino di Jonathan Nossiter (Feltrinelli).

martedì 10 novembre 2009

Il libro e la nemesi

Borges! Ancora Borges! Il grande aedo argentino, anzi, il grande Omero argentino. Ai due cantori è vicino un destino comune, che li unisce in un'inquietante nemesi.
Un libro che parla di libri. Un libro che parla di Borges. Borges stesso avrebbe approvato.
Alberto Manguel, nel suo Con Borges ci racconta come per il grande argentino:"...il nocciolo della realtà stava nei libri, scrivere libri, parlare di libri. In maniera viscerale, era consapevole di continuare un dialogo iniziato migliaia di anni fa e che credeva non sarebbe mai finito."
Borges che, ormai cieco, sente il libro con il tatto. Il tatto, un senso materiale, quasi bestiale, soccorre il poeta ormai privo dell'uso del senso divino della vista.
Racconta Manguel l'arrivo del postino che porta un grande pacco. Il pacco contiene un'edizione di lusso del racconto borgesiano Il congresso del mondo. Edizione curata da Franco Maria Ricci, "un volume enorme, rilegato in seta nera e racchiuso in un astuccio pure di seta nera, con impressioni in oro stampato su carta a mano azzurra di Fabriano; le illustrazioni (pitture tantriche ) erano incollate a mano e ogni esemplare numerato."
Borges se lo fa descrivere, apprezza il libro con la mano, con la ricerca tattile che lo soccorre nella perdita (orribile per uno scrittore) della vista.
Poi, definitivo, dice: "Ma non sembra un libro, è una scatola di cioccolatini".
Leonardo Sciascia si accomuna a Borges con uno scrivere tagliente e sottile.
Come una lama.
In A ciascuno il suo, il professor Laurana, nella sua ricerca di una soluzione, di una risposta a ciò che di terribile la sua terra nasconde, si reca in visita dal vecchio professor Roscio, il cui figlio è scomparso in un agguato mafioso.
Così Sciascia: "Il vecchio professor Roscio, la cui fama di oculista ancora durava nella Sicilia occidentale e anzi già volgeva nel mito, da circa vent'anni aveva lasciato la cattedra e la professione. Più che novantanne, per ironia della sorte o perché meglio si inverasse nel mito di uomo che aveva sfidato la natura ridando ai ciechi la vista e dalla natura nella vista era stato colpito, era afflitto da una quasi totale cecità..."
Anche Sciascia rimane affascinato da questa nemesi della natura che forse ha punito Borges per la sua costruzione di una biblioteca di Babele, così simile, nell'orgoglio umano, alla torre di Babele che sfida Dio.
La vita reale del poeta argentino si confonde con la narrazione dello scrittore siciliano, in una confusione e contaminazione di tempi e di storie, di realtà e di irrealtà.
Due libri.
Con Borges, di Alberto Manguel, Adelphi.
A ciascuno il suo, di Leonardo Sciascia, Einaudi (un tempo), Adelphi (oggi).

giovedì 5 novembre 2009

Io, se lo incontrassi, Tullio Pironti lo ringrazierei

Tutti noi abbiamo avuto un inizio. Tutto quello che abbiamo fatto ha avuto un inizio.
Forse non c'entra nulla con quello che voglio dire, ma personalmente non sopporto i gruppi elitari. Non sopporto i gruppi chiusi che se la cantano e che se la suonano. E Dio solo sa quanti ce ne siano, specialmente fra chi bazzica libri, scrittori, editori ed il variegato e rutilante mondo dell'editoria. Non parlo solo dell' istituzione, parlo anche di chi fa dell'anticonformismo una bandiera al punto da creare un bel conformismo dell'anticonformismo.
Tempo fa, quando giravo ancora con i miei manoscritti sotto il braccio, un editore che passa per anticonformista, attento alle tematiche dei ggiòvani, attento a promuovere tutto ciò che di tondelliano gli passava sotto il naso, mi disse "la tua scrittura è efficace, ma i tuoi scritti non hanno superato l'esame del mio desk di giovani".
Ora, è passato un sacco di tempo, ma io sto ancora qui a chiedermi che cosa diavolo sia un desk di giovani.
Comunque, dicevo, tutti abbiamo avuto un inizio. Anche questo che ho raccontato forse è stato un inizio.
Ma per me la vita e la parola scritta spesso si confondono e quindi il mio inizio vero è più legato a questa contaminazione di vita e di parola scritta.
Non so perché ma un giorno (all'inizio, forse, di questa contaminazione) scoprii un certo tipo di letteratura americana. E scoprii Don DeLillo.
Mi piace DeLillo. Mi piace il suo voyeurismo controllato. Mi piacciono la sua scrittura, il suo stile, il suo starsene da parte mentre con la parola scardina ogni consuetudine.
Io DeLillo l'ho scoperto grazie a Tullio Pironti, che fu il primo a pubblicarlo e a farlo conoscere in Italia.
Tullio Pironti è un editore che ha sempre cantato fuori dal coro. Per questo mi piace.
Io Tullio Pironti non l'ho mai conosciuto, ma se lo incontrassi, lo ringrazierei.
Un libro: Libri e cazzotti di Tullio Pironti (Tullio Pironti Editore).
Un autore: Don DeLillo (i suoi libri, ovviamente, tutti).

martedì 3 novembre 2009

Davanti il Monterosa, a sinistra il Monferrato

Nel sole gelido delle giornate invernali senza nebbia, dalla pianura si vede il Monterosa. Ma non si vede tutto. Si vede solo la cima. Grande. Piena di neve. Immensa.
Sembra di poterla toccare con la mano e invece è lontanissima. E si rimane soli, nella pianura, a guardarla come un miraggio.
Tutti nella pianura hanno, prima o poi, visto il Monterosa. E, quando lo vedi, sei contento.
Nel biennio 1943/45 la Repubblica di Salò costituì una divisione alpina. Doveva combattere contro gli Alleati, ma finì a combattere i partigiani. Si chiamava divisione Monterosa.
Leggo Laura Bosio, Le stagioni dell'acqua: "Ogni tanto arrivavano dei disertori, fascisti allo sbando, e la sera facevano lunghe chiacchierate nelle stalle, l'unico posto caldo, con i partigiani e i figli dei contadini che erano stati obbligati ad arruolarsi nella Monterosa (la montagna dei loro orizzonti era diventata una divisione militare)..."
Il Monterosa sta davanti alla pianura. Il Monferrato è a sinistra.
Mi piace leggere quello che scrive Carlin Petrini, il fondatore di Slow Food. Sono sempre d'accordo con quello che scrive e con quello che dice. Lui è di Bra, nelle Langhe.
Un giorno scrive un libro, Slow Food Revolution: "Quattro notti e quattro giorni di festa pagana, un Canté i'euv memorabile, con 67 esibizioni e 117 musicisti impegnati, migliaia di persone coinvolte, teatri e piazze strapiene."
Enzo Bianchi è il il fondatore e il priore della Comunità Monastica di Bose. Lui sì che è del Monferrato.
Anche lui scrive libri. Fra gli altri, Il pane di ieri: "Ma ho memoria anche di un altro "rito" della mia giovinezza...che mi incuteva tristezza e apprensione:...alcuni passavano in gruppo per le strade e le cascine a canté i'euv, a "cantar le uova". L'amico Carlin Petrini recentemente ha voluto ricordare e rinnovare quest'usanza, dipingendola come un bel momento di festa condivisa, ma io ne conservo un ricordo molto triste:...quelli che cantavano le uova erano sovente ubriachi,...e a volte incutevano paura per i metodi spicci...Sì, non per tutti sono buone le stesse cose..."
Davanti il Monterosa, a sinistra il Monferrato. Per ognuno di noi qualche paesaggio, qualche orizzonte pieno di gioia è alla fine diventato una divisione militare.
Tre libri: Le stagioni dell'acqua (Longanesi) di Laura Bosio, Slow Food Revolution (Rizzoli) di Carlo Petrini, Il pane di ieri (Einaudi) di Enzo Bianchi.

venerdì 30 ottobre 2009

Dirty Harry e il disprezzo

Michel Piccoli se ne sta con le mani in tasca. Vestito di bianco guarda il mare, quasi con indifferenza. Il cobalto del mare è incorniciato da una delle enormi finestre della villa di Curzio Malaparte. Inondata dal sole. A Capri. La scena de Il disprezzo di Jean-Luc Godard sembra una tela di Hopper.
Una zoomata lenta e poi via via più veloce, ci porta ai bordi di una piscina assolata, in cima ad un palazzo. Un colpo di fucile e la bella ragazza che sta nuotando si ferma lentamente. Nel rosso cupo del suo sangue. Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo è già completo in questa scena. Don Siegel sapeva il fatto suo.
E lo sapeva anche nel riprendere il sole a picco sulla piccola banca rapinata di Chi ucciderà Charlie Varrik. Ed è lo stesso sole delle prime scene di Getaway! di Sam Peckinpah.
Il sole. Quel sole. Luminoso, senza ombre, quasi di ghiaccio.
Lo ritrovo addirittura in una scena girata al tramonto, in Detective’s Story di Jack Smight, con Paul Newman nei panni meravigliosamente hard boiled di Lew Archer.
Ma è lo stesso sole che Blake Edwards riprende nelle sue commedie: S.O.B. e Skin deep.
Un sole che crea una gabbia. Un sole che ha il potere di fermare il tempo. Un sole che non trasmette gioia. Un sole che produce una tranquilla tristezza.
Lo ricordo in tutte le scene esterne della serie Cannon, un mito dei Settanta.
È il sole che domina la villa di Willard White, in Agente 007-Una cascata di diamanti.
È il sole che ricordo in una fotografia di una rivista che persi molti anni fa. Ne ho già parlato qui.
Qualche tempo fa lessi un bellissimo saggio di Valerio Evangelisti, Alla periferia di Alphaville-Interventi sulla paraletteratura.
In quel libro ritrovai quasi tutti gli spunti che mi avevano affascinato in quella famosa rivista. Il titolo del libro rimandava ad un film di Godard (lo stesso regista de Il disprezzo). Tra i capitoli del libro ce n’era uno che illustrava il caso del serial killer che aveva ispirato Don Siegel per il suo film sul caso Scorpio.
Quando iniziai a leggere quel libro era una giornata di sole.

mercoledì 28 ottobre 2009

L'importanza del titolo

Il titolo è fondamentale. In un racconto, in un romanzo, in un film un buon titolo è tutto. A volte il titolo vive addirittura di vita propria e si stacca dall'opera che introduce.
Mi piace molto Carver, ma i suoi racconti non hanno buoni titoli. Troppo riduttivi, spiegano troppo poco, quando potrebbero dire (e dare) al lettore molto di più.
(Apro una parentesi. Per me Carver non è lo zio o il fratello maggiore di Bret Easton Ellis o di Jay McInerney, ma più semplicemente il cugino leggermente più stronzo di Bukowsky).
Pensate a un titolo come Scene di caccia in bassa Baviera, il film di Peter Fleischmann. In quel titolo c'è già tutta l'abitudine ordinaria alla violenza nei rapporti sociali, e in modo definitivo.
Oppure pensiamo all'apparentemente asettico Foto di gruppo con signora, di Heinrich Boll, che nasconde tutto ciò con cui la Germania postbellica ha tentato di venire a patti.
Anni fa mi pare premiarono come miglior titolo per un romanzo di fantascienza Camminavano come noi, di Clifford D. Simak.
In quelle tre parole è semplicemente nascosto tutto l'orrore del mondo.
Un racconto: Cattedrale, di Raymond Carver
Un romanzo: Riscatto, di Jay McInerney

Come si cambia

Questo blog oggi cambia grafica. Dallo sfondo nero si passa ad uno bianco e più essenziale. Ogni mutazione ha una ragione. Nulla avviene per caso. Notte di nebbia in pianura diventa da oggi (e lo è già da qualche tempo) non più soltanto una vetrina dell'omonimo libro, ma una vetrina dei miei pensieri e appunti su libri, storie e visioni. Un po' meno notte di nebbia in pianura e un po' più il blog di Angelo Ricci. Ma siccome i titoli sono importanti (e ne parlerò più diffusamente in un prossimo post) il blog continua ad essere "Notte di nebbia in pianura (il blog di Angelo Ricci)", quasi che dal titolo del libro si possa prendere spunto per un discorso ancora più diffuso e forse ancora più visionario.
Una cantante: Fiorella Mannoia
Una canzone: Come si cambia

sabato 24 ottobre 2009

Pesca alle rane

Dalle mie parti, una volta, si andava a rane. Si andava anche a caccia e a pesca, ma andare a rane era più bello. Lo potevano fare tutti, a qualsiasi ora e con poca attrezzatura. Bastava una canna da pesca, nemmeno tanto lunga. Non c'era bisogno né di mulinelli, né di ami o mosche o esche particolari. La prima cosa da fare era catturare una rana piccola, il ranino o ranén. Poi, con un bel colpo di forbice, le tagliavi la testa, legavi al filo il torso decapitato e, come un epigono di Galvani, cominciavi a farlo ballare nel calore umido e torbido dell'acqua di una risaia. E la altre rane arrivavano. Acchiappavano il ranino con istinto cannibale e le tiravi su. Per tenerle finché non arrivavi a casa, in attesa di mangiarle o fritte o in umido con la polenta, bastava metterle in un sacchetto di cellophane, come quello dei supermercati.
Un pomeriggio schiacciato dall'afa estiva, un paio di anni fa, mi trovavo a prendere un caffé nel bar-tabaccheria-trattoria-edicola di un paesino delle mie parti. Un paesino di quaranta anime (anime nel senso di Gogol e non di manga). Un paesino che ha pure una frazione, che di anime ne fa quindici.
Il proprietario era al telefono: -Per stasera, che ho gente. Mi raccomando. Sì, sì, va bene per quelle che vengono dalla Thailandia. E non troppo grosse, se no sembrano rospi e il cliente poi se ne accorge e poi non me le mangia."
Dalle mie parti, una volta, si andava a rane.
Due libri: Pesca alla trota in America, di Richard Brautigan. La filosofia della pesca alla rana, di Sandro Soleri.

lunedì 19 ottobre 2009

Ombelico noir (o post noir)

Avevo lasciato qui tempo fa alcuni appunti per sviluppare in seguito questo argomento. Nel frattempo Gian Paolo Serino apre un dibattito su satisfiction/menstyle. Ne viene fuori che siamo ormai al post-noir (o postnoir o post noir, che dir si voglia). Ma non entro nel merito delle etichette (già si è parlato a suo tempo di NIE/New Italian Epic). Carlo Lucarelli sostiene che le etichette si conquistano sul campo (come non dargli ragione?), mentre per Raul Montanari le etichette servono comunque a vivacizzare il panorama editoriale e, perché no, le vendite (come dargli torto?).
Ma riprendo da dove avevo lasciato i miei appunti.
Negli anni Settanta si è sempre detto che gli autori italiani erano negati per la letteratura di genere. Il motivo era che la presenza ingombrante (?) di Manzoni aveva trasformato la letteratura italiana in uno stone garden di suoi epigoni, con tutti gli annessi e connessi relativi alla forbice letteratura alta (con gli autori intenti a scrivere contemplando il proprio ombelico) e letteratura altra (giallo, noir, fantascienza, rigorosamente relegati in edicola).
Poi è accaduto quello che è accaduto e tutti hanno cominciato a scrivere polizieschi, gialli, noir e chi più ne ha più ne metta (Gianni Biondillo paventa ormai il giallista della porta accanto).
Ora, scrivere contemplandosi l'ombelico non è di per sé un delitto e lo stile di scrittura noir (ma quello vero, quello di Izzo, quello di Manchette, che hanno avuto anche una vita noir) permette una capacità di rappresentazione molto forte della contemporaneità (mi riferisco alla contemporaneità italiana).
Ne parlavo il 27 Settembre a Parole nel Tempo con Donato Dallavalle (Il letto di formiche-Excelsior 1881). E come gli ho anticipato allora, lancio qui la mia personalissima sfida: scriviamo pure contemplandoci l'ombelico, anzi continuiamo a farlo (per descrivere un sentimento non è necessario ricorrere ad investigatori e poliziotti), ma proviamo a farlo (e forse lo stiamo già facendo) usando gli stilemi del noir (per avere una vita noir c'è sempre tempo).
Un autore: Attilio Veraldi.
Due libri (suoi): La mazzetta e Uomo di conseguenza.

Flaubert e Matrix

Flaubert esortava a leggere non per divertimento, perché così fanno i bambini, né a leggere per imparare, perché così fanno i superbi, ma a leggere per vivere.
Ho letto per metà della mia vita come un bambino e poi come un superbo. Ma per imparare a scrivere devi, per forza di cose, leggere per imparare. Per imparare lo stile; per imparare il ritmo; per imparare, perché no, i trucchi del mestiere.
Nel tempo ho scoperto, quasi con orrore, che questo processo presenta i segni dell'irreversibilità. Dal momento in cui inizi a leggere per imparare a scrivere non sei più in grado di leggere per divertirti. Tantomeno per vivere.
In Matrix il personaggio di Cypher (il traditore; c'è sempre un traditore; forse anch'io lo sono) passa il tempo ad osservare la matrice non nella sua forma di rappresentazione, seppur artefatta, della vita, ma nella sua struttura originaria di incessante produzione di codice binario. E lo fa perché ormai è abituato e sa che ogni rappresentazione della matrice non riuscirebbe comunque a strapparlo dalla sua disillusa stanchezza.
Forse siamo tutti nella matrice.
Un film: Matrix.
Un libro: Auto da fé, di Elias Canetti.

sabato 17 ottobre 2009

Una pianura di Pupi

Eraldo Baldini dice di scrivere storie ambientate nella provincia perché gli piace avere a disposizione una dimensione, come quella rurale, dalla memoria lunga.
E la pianura che sta alle spalle di Eraldo Baldini (letteralmente alle spalle, perché lui abita vicino a Ravenna, tra la pianura e il mare) ha veramente una memoria lunga. Una memoria che scorre lungo tutto il fluire del Po, attraversando quel luogo letterario immenso (nel bene e nel male) che è la Pianura Padana.
La pianura la racconti (o meglio, "si fa raccontare") in tanti modi. Ma quello che più le si addice è un modo, oserei dire, quasi cialtronesco.
Sarà per l'afa d'estate o per la nebbia d'inverno, non so, nella pianura l'orrore e la cialtronaggine si mischiano e si raccontano a vicenda. Il bauscia, lo sborone, il cumenda e il cacciaballe vanno a braccetto con spettri e zombies.
Tre film. La Mazurka del Barone, della Santa e del Fico Fiorone. La casa delle finestre che ridono. Tutti defunti...tranne i morti.
(E forse un quarto. Zeder).
Tutti di Pupi Avati.

giovedì 15 ottobre 2009

Il fascino perverso del collaborazionista

Sono le nostre ossessioni a comandarci quando scriviamo. La violenza, la sopraffazione, la banalità dell'orrore quotidiano che regola le relazioni di tutti noi. Questi sono gli elementi coi quali devo scendre a patti nella scrittura. Mi interessa la figura del collaborazionista, mi interessa la figura del poliziotto. Ma non è così semplice. Il collaborazionista a volte non sceglie quel ruolo, ma è la violenza a sceglierlo. E il poliziotto usa una violenza per combatterne un'altra e, alla fine, ne rimane prigioniero.
I personaggi, prima di entrare in una storia, devono cominciare a parlarmi. Devono cominciare a farmi capire cosa vogliono dire e cosa vogliono fare. Alcuni cominciano ora a manifestarsi. L'inizio di una nuova storia. Forse.
Il nostro immaginario non è più solo di parole. E' anche di azioni filmiche che si sono sedimentate nella nostra memoria.
Due film: Cognome e nome: Lacombe Lucien, di Louis Malle e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri.
Immagini, parole, storie. Forse.

martedì 13 ottobre 2009

Il nemico

Hemingway aveva ragione a raccomandare agli scrittori di scrivere solo di ciò che conoscono. Per forza devi scrivere solo di questo. Perché quando scrivi non fai altro che girovagare tra i relitti dei tuoi ricordi, cercando di capire che ognuno di noi vive del proprio passato e nel giudizio degli altri.
La mia terra. Una volta la amavo. Oggi la sopporto. Certo che ne scrivo. Non posso fare altro. E' una coazione a ripetere che trascina ogni storia che invento, finché, in qualche modo, brandelli di quella storia si attaccano alla mia terra.
E allora, ne scrivo.
Mi piace il freddo. Mi piace l'inverno. Mi piacciono la nebbia, la neve, la pioggia.
Ma niente mi da il senso di un'angoscia tranquilla (seppure ineluttabile) come immaginare un primo pomeriggio pesante di afa, in un giorno estivo. Con il pulsare del gracidio delle rane che accompagna il battito del cuore. Con il sudore caldo e appiccicoso che cerca un armistizio nel fresco opaco di una chiesetta di campagna.
La bicicletta appoggiata all'erba alta di un fosso. Il silenzio spettrale spaccato dall'abbaiare di un cane alla catena, magari a un paio di chilometri da lì.
Soltanto allora capisci di essere solo.
Soltanto allora capisci che potrebbe esserci qualcun altro.
Soltanto allora capisci che quell'altro potrebbe essere un nemico.

domenica 11 ottobre 2009

Malaparte Borges

Penso spesso a Borges. Leggo spesso Borges. Cito spesso Borges. L'ho fatto anche qui.
Si insinua nei miei ricordi la Biblioteca di Babele, pubblicata da Franco Maria Ricci e poi passata agli Oscar Mondadori e ormai introvabile. Summa degli incontri tra la parola e il grande argentino. Ho davanti agli occhi L'antologia della letteratura fantastica, con Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo.
Borges!
Un suo racconto. Descrive il dialogo fra un uomo (Borges? Un'altro uomo? Un suo doppio? Un altro Borges? Un doppelganger di Borges stesso?) e un personaggio di idee filonaziste. L'io narrante scopre, tra le pieghe del discorso propagandistico e affascinato di costui, una sottile ombra di terrore. Quasi che il male, da lui seguito con così tanta enfasi, alla fine e nonostante tutto, lo sconvolga.
Non ricordo che racconto sia, né in quale opera di Borges si nasconda. Io stesso ho seguito per vent'anni un racconto, prima di scoprirne l'autore. Ne ho già parlato qui. Lascio ad altri il sottile gioco della scoperta. Borges mi approverebbe.

Ero prevenuto nei confronti di Curzio Malaparte. Un atteggiamento di vita troppo blasé, troppo guascone. Ma i libri sono sempre migliori di chi li scrive.
Leggo Kaputt. E ritrovo un uomo che si confronta coraggiosamente con il male. Che si confronta coraggiosamente con la banalità del male.
E ne esce nauseato.

sabato 10 ottobre 2009

Parole sui tempi di Parole nel Tempo

Ha ancora un senso parlare di libri? Ha ancora un senso incontrare un autore? Mantova parla di libri o parla di autori?
Ermanno Cavazzoni, tempo fa, in un'intervista disse che lui non andava mai né ai premi letterari né alle presentazioni perché, in fin dei conti, lì non si parla mai di libri, ma si aspetta semmai un qualche miracolo dagli scrittori, neanche fossero madonne pellegrine.
Mantova cannibalizza ormai gli altri appuntamenti? A Mantova ci sono troppi autori stranieri? A Mantova (e anche in qualche altro posto) si va a vedere in massa Nadine Gordimer e Luis Sepùlveda ma poi, se ne leggono i libri?
Credo che Mantova sia un faro al quale tutti dobbiamo guardare, non dimenticando però che un solo faro può abbagliare, mentre tante luci rischiarano il buio.
A Belgioioso un coraggioso gruppo di scrittori ha parlato dei propri libri. Con passione. Con gioia. Oserei dire con amore.
Senza passaggi televisivi alle spalle. Senza comparsate mediatiche. Senza operazioni a tavolino, create ad arte da uffici stampa.
Si è parlato solo e soltanto di libri. Senza miracoli né madonne pellegrine. E se ne è parlato con coraggio e passione. Con il coraggio e la passione di chi sa che il libro è più importante dell'autore.
Gloria Ghioni parla dell'ultima edizione di Parole nel Tempo su CriticaLetteraria. Credo che sia un'analisi sulla quale si possa cominciare a riflettere.

mercoledì 7 ottobre 2009

Visioni

L'ho già detto in un post precedente. Mi piacciono le zone di confine. Mi piacciono le città di confine. Credo che noi influenziamo i luoghi e che i luoghi, a loro volta, influenzino noi. Nel bene e nel male.
Ne nasce una sorta di rapporto biunivoco dove le anime dei paesaggi diventano lentamente paesaggi di anime.
Ne sorgono visioni che si perdono (o forse si uniscono) nella circolarità del tempo e che si contaminano nella e della molteplicità dei mezzi che si utilizzano per descriverle.
La parola, la musica, il cinema si fondono in questi paesaggi nello stesso istante in cui li descrivono, relativizzando la stessa dimensione temporale.
"I sogni nel cassetto", film di Renato Castellani. L'ho rivisto per l'ennesima volta. Pur nella lontananza del tempo, questo film degli anni '50 rende eterno un luogo. La mia città universitaria degli anni '80 (la stessa che fa da sfondo al film) era ancora uguale.
Trent'anni dopo.

lunedì 28 settembre 2009

"Notte di nebbia in pianura" recensito da MilanoNera


La nebbia “ti piace perchè ci sei nato dentro, la respiri, la modelli con il fiato” e la nebbia fa da cornice e da contenitore alle vite dei personaggi del romanzo d’esordio di Angelo Ricci. Avvocato di professione e scrittore per passione, Ricci non si distacca dai paesaggi a lui familiari e dalle atmosfere suggestive ed evocative della Lomellina, ed ambienta il suo romanzo in quel territorio in cui la nebbia, nonostante tutto “ti piace e fa la differenza”.
Il romanzo è a più voci, tanti personaggi apparentemente autonomi, finiscono per essere accomunati dallo stesso destino tragico o triste. Uomini e donne, consumano i loro drammi quotidiani, le loro solitudini ed incomprensioni, ambizioni e sogni, proprio in una notte di nebbia fitta e umida che annuncia l’imminente Natale.
Nel grigiore ovattato della nebbia, si distinguono però i colori: il giallo del capannone da dove un giovane imbonitore presenta la sua televendita, il verde delle foglie della pianta dell’ospedale dove muore la madre del giovane obeso e disadattato, il nero ed il blu scuro delle auto di lusso di giovani arricchiti e senza scrupoli, il nocciola e l’azzurro degli occhi spaesati delle loro donne dell’Est, il blu, il fucsia ed il grigio delle felpa dell’inconsapevole compagna italiana di un terrorista arabo. Su questo scenario di vita ordinaria si alza la voce dissacrante di Sticazzi, giovane balordo che con un amico vaga per la notte vomitando volgarità e rancori.
Quante cose succedono in una notte! Una notte di nebbia che, sembra attutire i rumori e nascondere le verità, ma che custodisce, invece, brandelli di vite difficili e tormentate.
L’arresto di Anna fa notizia, ma è solo giovane madre impaurita che non vuole accettare di aver raggiunto una normalità irregolare e che, come vittima di un torpore interiore, si estrania dal mondo e in stato di trance sente solo il calore della felpa che la lega al suo uomo. La solitudine del giovane orfano, si accentua durante la notte, quando a letto rivive con flashback angoscianti la sua infanzia e il suo rapporto con la madre forse troppo presente e opprimente e morta da poco.
La ripetitività di gesti e parole e l’ipocrisia di un uomo che cerca di vendere robaccia e di convincere soprattutto se stesso delle sue scelte. Giusta la giacca, le scarpe, il tono di voce o le luci ma sarà giusto il suo lavoro, è quello il suo obiettivo? Vuoti e senza principi i giovani imprenditori si giocano a carte il futuro e pianificano strategie per salvaguardare il loro patrimonio sotto gli sguardi rassegnati di Alessia e Svetlana, immigrate in cerca di fortuna che si vestono alla moda ma percepiscono la vacuità e la superficialità di quel tipo di vita. Insomma, tante storie che si intrecciano in una notte di nebbia.
Le parole ripetute, i concetti espressi più volte dall’autore evidenziano ed esprimono il tormento interiore che si impadronisce dei personaggi, vittime di legami fortemente recisi o mai consolidati o dello stesso destino, su tutti incombe la nebbia!
Cristina Marra

martedì 15 settembre 2009

"Notte di nebbia in pianura" e Parole Nel Tempo


"Notte di nebbia in pianura" arriva a "Parole Nel Tempo-Piccoli editori in mostra".
Domenica 27 Settembre 2009.
Alle ore 16.
Sala 2 del Castello di Belgioioso, a Belgioioso (PV).
La presentazione sarà a cura di Giuseppe Polimeni (Università degli Studi di Pavia).

sabato 12 settembre 2009

Uomini fatti di libri

Leggendo Trilogia di New York di Paul Auster mi appare alla memoria, non so perché, l’immagine mitteleuropea di Elias Canetti e del suo Auto da fè. Per la “trilogia” mi riferisco al primo dei tre romanzi: Città di vetro. Daniel Quinn si nasconde dietro ad uno pseudonimo per scrivere romanzi polizieschi e si trova invischiato in una discussione con un altro personaggio (che porta il nome dell’autore stesso della “trilogia”) sulla genesi del Don Chisciotte, che vedrebbe concretizzarsi un gioco di specchi fra un Cervantes presunto autore e un Chisciotte realmente esistito, che racconta la sua storia ad un Sancho Panza che forse è Cervantes stesso e via discorrendo. Un gioco di specchi fra libri passati e libri presenti, fra il romanzo stesso e l’autore che diventa personaggio del suo romanzo, scritto però da un altro. E tutto ciò mentre nel romanzo si racconta una storia simile di scambi fra autori e presunti personaggi, a loro volta diventati autori.

Libri fatti di uomini e uomini fatti di libri, come il Peter Kien di Elia Canetti in Auto da fè, l’uomo appunto fatto di libri. Il sinologo di fama mondiale che vive barricato fra i suoi testi di studio che conosce meglio della vita stessa. Anzi i suoi libri sono la vita stessa.

Peter Kien verrà distrutto dalla sua governante, Therese Krummholtz; Daniel Quinn verrà distrutto da se stesso (o forse non è lui ma il suo personaggio a distruggersi?).

Ancora una volta vedo il sorriso sornione di Jorge Luis Borges.

giovedì 10 settembre 2009

Come un chicco di riso (racconto pubblicato da "La Provincia Pavese")

-Allora, Ramona, Roberto dice che sei troppo gelosa e che si metterà con Luna. Tu che ne dici?-
La tazzina è bollente.
-Roberto, che rispondi a Ramona?-
La lascia andare di colpo e una goccia di caffè finisce sul metallo del bancone.
-Luna? Tu che fai?-
La conduttrice bionda sta appollaiata sugli scalini dello studio. Pantaloni di pelle e tacco dodici. Sulla faccia una smorfia di attesa, mista a studiato disgusto. Lo schermo al plasma rimanda sfondi azzurrini. Appeso a due metri d’altezza.
-Secondo me si sbaglia. Lasciare andare uno con un fisico così. È proprio una scema.-
Il bruciore sui polpastrelli arriva sempre qualche secondo dopo.
-Ai miei tempi mi sarei subito fatta avanti.-
Le due donne al tavolino bevono coca cola. Hanno permanenti gialle sopra le rughe nascoste dagli occhiali. Il gonfiore alle caviglie fa calzare pantofole rosa e blu.
Il dolore alle dita scompare subito. Appena il tempo di finire il caffè e di sentire un leggero colpo sul collo.
Si gira. Le due donne sui sessanta fissano lo schermo. In fondo alla sala quattro ragazzini. Quello con la cannuccia in bocca gli fa vedere il dito medio alzato.
La ragazza alla cassa ritira l’euro con dita tatuate.
Fuori. Nel sole. Nell’afa d’asfalto della piazza. Finalmente.
L’odore delle risaie a fine luglio, quello che senti subito quando passi il Sesia arrivando da Vercelli o il Po, arrivando da Alessandria, è scomparso nel sole della piazza.
Sono anni che non ritorna più in Lomellina. Che non ritorna più a casa sua. Ed è arrivato in ritardo. Si è perso il mare delle risaie. Si è perso la chiesetta di San Paolo che sembra galleggiare sull’acqua. Come a Venezia. Avrebbe dovuto venire in aprile. Ma il lavoro è lavoro.
-E così ti faccio fare un viaggetto dalle tue parti. Non lo faccio mai per nessuno dei miei. Ma per te faccio un’eccezione. Sei il mio elemento migliore.-
L’edicola è sempre al solito posto. È chiusa. Come sempre, alle due del pomeriggio.
Il calore dell’asfalto attraversa il cuoio spesso dei mocassini inglesi. L’afa gli incolla la camicia alla pelle. Si toglie la giacca di lino e se la mette sul braccio. In Libano e in Sicilia non è mai così. Te ne stai tutto elegante nel secco del caldo. La giacca e la cravatta non te le devi togliere. Basta mettere sempre gli occhiali da sole.
E sei a posto. Sempre.
A sinistra hanno ristrutturato il vecchio palazzo. Erano le scuole o la pretura o l’ufficio di collocamento. Chi se lo ricorda più. È passato troppo tempo. Troppo.
Comincia a sudare. Chissà perché con il caldo che fa d’estate, qui gli alberi sono sempre pochi.
In Libano ce n’è un sacco. Ecco perché hanno un albero sulla bandiera. Qui, se avessimo una bandiera, dovremmo metterci una spiga di riso. E il riso vuole il sole, non gli alberi. Ecco perché.
Attraversa lentamente la piazza. In fondo a destra c’è la stradina che porta a quella bella chiesa. Non se ne ricorda più il nome.
È passato troppo tempo. Troppo.
-Ma è per questo che ti faccio fare un salto a casa tua. Perché tu lavori bene. Te l’ho già detto. Sei il mio elemento migliore. E io non voglio che i miei uomini soffrano di nostalgia.-
Adesso si gira. Si gira verso il palazzone di dieci piani tutto balconi di vetro e piastrelline, che sembra fare la guardia nell’afa della piazza.
-E che ci vuole? Un po’ di Milano non guasta. Neppure dalle tue parti. E poi e che è? Con quei palazzi ci facciamo da sempre un sacco di soldi. Mica con il tuo riso, che oggi meglio di voi lo fanno indiani e cinesi.-
Forse sarebbe meglio sedersi sul marciapiede. Come faceva da bambino.
È passato troppo tempo. Troppo.
Si alza. Si rimette la giacca. Per cercare bene le chiavi della Mercedes nera. Prima che caschino dalla tasca.
I passi risuonano nel giallo opaco del sole afoso. Il calore delle auto nel parcheggio produce un tremolio a mezz’aria. Come a Beirut. Come a Palermo.
Il singulto dell’antifurto lo strappa dai suoi pensieri.
-Mi raccomando. Fai tutto con calma. Ma che te lo dico a fare. Sei il mio elemento migliore.-
Un tuffo al cuore. Sapore metallico in gola. La valigetta!
È solo un attimo. È passato troppo tempo. Troppo. I ricordi non dovrebbero mai esistere sul lavoro. Mai.
La valigetta. È rimasta nel bar. Bene!
Sale in auto. Accende l’aria condizionata e mette in moto. La Mercedes nera lascia lentamente le strisce blu del parcheggio.
Una mano nella tasca interna della giacca. Lascia il telecomando dell’antifurto e ne prende un altro. Più piccolo.
-Con calma. Mi raccomando. I tempi. I tempi sono fondamentali. Premi il bottone bianco. Ma tu lo sai già. Sei il mio elemento migliore. Faremo un bel botto. Così qualcuno ricomincerà a portarci rispetto.-
La Mercedes nera va verso Milano. Verso il Ticino.
Ecco. Lentamente. Lo sente di nuovo. Prima piano. Poi sempre più intensamente. È l’odore del riso. Quello che senti subito quando passi il Sesia arrivando da Vercelli o il Po, arrivando da Alessandria.
La mano afferra il telecomando più piccolo e preme un bottone bianco.
Bianco. Come un chicco di riso.

Angelo Ricci

venerdì 14 agosto 2009

Early days

A metà degli ‘80 sviluppai un’insana passione per le sound machines, altrimenti dette ghetto blasters. Per alcuni anni fui un compulsivo frequentatore del SIM-HI FI (il Salone Internazionale della Musica che si teneva a Milano, in Fiera). Allora le mie tendenze letterarie tentavano di scavare in quello che era l’underground e la letteratura pop americana. Se tutte le parole hanno un doppio significato (e credetemi, TUTTE le parole hanno un doppio significato) vorrà pur dire qualche cosa se gli impianti stereo delle auto si definiscono esoterici e il mondo dei trucchi e delle soluzioni dei loro appassionati è detto esoterico.

Un pomeriggio di Settembre, mentre l’aria del SIM era piena dei Talking Heads, comprai una rivista: Hi Fi esoterico. Radio, altoparlanti, bassi. rewind, i primi cd.

E nelle ultime pagine una foto. Una piscina californiana. Azzurro intenso. Dell’acqua e del cielo. Attorno, solo rocce e il marrone del bush. Nella piscina, un uomo e tre giovani e belle ragazze bionde. Tutto molto Una cascata di diamanti o S.O.B. o Harper.

E poi un torrenziale e folle articolo. Thomas Pynchon, gli snuff movies, la Commissione Warren, la teoria del complotto, i caimani nelle fogne di N.Y., Joseph Heller, i Beach Boys, gli Hell’s Angels, l’Area 51, la CIA, Charlie Manson, la Amok Press, Timothy Leary, il beach punk, l’industria hard della San Fernando Valley, Altamont, Helter Skelter, il Dakota Building, Ed Wood, Anton LaVey, Myra Breckinridge.

Ho perso quella rivista. Non l’ho mai più ritrovata.

(Ho raccontato questa storia a Tullio Avoledo che mi ha detto:”Figurati che io, una volta, ho ricevuto una mail da uno che diceva di essere l’Anticristo.”)

mercoledì 12 agosto 2009

L'Immaginazione

Sul numero 247 (Giugno 2009) de "L'Immaginazione" (lo storico bimestrale di letteratura diretto da Anna Grazia D'Oria) è stato presentato "Notte di nebbia in pianura" con la pubblicazione integrale dell'incipit del romanzo.

giovedì 23 luglio 2009

Il Paradiso degli orchi (Rivista di letteratura contemporanea) recensisce "Notte di nebbia in pianura"



In un grande ritratto, in un ritratto del Lotto o di Rembradt, quello che capita al pittore è di descrivere un carattere e, quindi, di percepire un destino.
Sciascia, al riguardo, scomodava la categoria dell’entelechia: in un ritratto l’oggetto è sempre morto, cioè racchiude tutta la vita dell’oggetto in questione così come viene chiusa, resa perfetta dalla morte. È la morte a gettare le fondamenta del nostro esistere, mettendogli un limite; e, infatti, su questo Freud proprio non si ingannava: al postutto l’uomo una libertà ce l’ha: quella di desiderare e creare intimamente la propria morte: sarebbe a dire la propria vita.
E questo libro, questa bellissima Notte di nebbia in pianura di Angelo Ricci, sceglie di aggirarsi nei meandri insondabili della morte, quelli senza fine (e a noi vivi è questa mancanza di limite che spaventa della morte) fermando, in una sola immagine, un solo attimo, letale: lo scontro di due automobili.
Il breve romanzo è una lenta e cadenzata marcia per giungere a ricomporre le membra disiecta dei suoi diversi personaggi, delle loro personali storie, dei loro destini fino al fermo immagine finale di questo scontro.
Il destino di un enorme obeso sospeso in una notte insonne, visitato dai fantasmi delle sue donne, la mamma, la maestra, il medico somigliante alla maestra che gli annuncia la morte della mamma; il destino di due piccoli delinquenti subnormali e quello dei poliziotti contro cui andranno a sbattere mentre traducono una detenuta; il destino di questa, incriminata per terrorismo di matrice islamica e, quindi, il destino di Ibrahim l’uomo che ama e che l’ha coinvolta nei suoi traffici; il destino del poliziotto che la deve indagare; il destino di un gruppo di amici non più giovani e non più ricchi che brigano qualche malaffare; e delle loro donne slovene. E anche il destino di un avvocato che non esercita più: ora tele-vende oggetti d’arte.
Ricci, con un tecnica che ricorda il Bolaño di 2666, giostra questo materiale umano avvicinandosi ad esso, allontanandosene, distaccandosene con un imperscrutabile maestria.
I vari personaggi compaiono sulla scena improvvisi e assoluti, e ci attraggono in maniera morbosa nella loro realtà fatta di pochi segni verbali, poche parole ripetute con ossessione, parole di mentecatti, di menti imprigionate in un destino chiuso e cieco. Parole che servono a fare rumore: per coprire il vuoto che ci aspetta.
Ed è per coprire quel vuoto, che queste vite sono vuote. È per non morire che questi personaggi, come i più, non vivono.
Ed è qui l’inestimabile pregio di questo lavoro che non si limita a fare la cronaca, il resoconto pulito in bella copia e bella lingua dei fatti, il compiaciuto superborghese di come vivono i poveracci di nuova o vecchia data. Niente racconto sul trionfo della banalità, e sulla desolata assenza di motivazioni: Notte di nebbia in pianura racconta il vuoto, il nulla dal punto di vista del nulla.
Un punto di vista non mistico, ma emotivo, un nada nostra che sei nei cieli che passa qui direttamente dalle labbra di Hemingway, e che dà al libro una irresistibile cadenza incantatoria, da grande opera sinfonica: magica e delicata e orribile: la storia del vuoto.
Come a dire che è da questa infinita tristezza di scoprirsi uomini che si può trovare il coraggio di essere uomini.


Pier Paolo Di Mino

mercoledì 22 luglio 2009

venerdì 19 giugno 2009

Claudio Morandini recensisce "Notte di nebbia in pianura" su ombrelarve.blogspot.com

In "Notte di nebbia in pianura" (Manni, 2008) Angelo Ricci ritaglia pezzi di vite dolenti, avviticchiate, e dissemina i frammenti lungo un romanzo intriso di disperata solitudine. I personaggi spesso rimuginano in monologhi carichi d'ira o di rimpianto o di delusione o di frustrazione, i loro pensieri si fanno ripetitivi, ossessivi, i loro gesti si asciugano di senso. Le vicende che li vedono coinvolti si sfiorano senza combaciare mai davvero, nell'abile puzzle costruito e disseminato lungo questo mondo piatto, nebbioso e notturno-tutti restano soli, al massimo si osservano da lontano, senza capire, o si parlano, senza intendersi. Nei brevi capitoli, lo sfarfallio tra i velocissimi flashback, spesso ridotti a una sola frase, o a due, e il presente, in cui il tempo sembra aver rallentato fin quasi a fermarsi e le distanze si sono sfumate in un'assenza di orizzonti, più che a certi montaggi cinematografici sembra rimandare allo scratching su vecchi dischi malridotti.
L'autore osserva con un senso di umanità trattenuta le vite sbrindellate dei suoi personaggi, scava nella loro memoria e ne rivela il girare a vuoto attorno a vecchie speranze di possibili felicità. Da lettore mi sono riconosciuto nello sguardo di Ricci di fronte alla deriva sociale e culturale dell'Italia di questi anni-nel suo sguardo che sa essere disincantato, ma anche preoccupato, offeso, talvolta impietosito.
Claudio Morandini
IPERBOLI, ELLISSI-PAGINE DI CLAUDIO MORANDINI, E ALTRO

venerdì 12 giugno 2009

Giorgio Luzzi (comitato editoriale de L'Indice) commenta "Notte di nebbia in pianura" alla Fiera del Libro di Torino

Ecco il testo della presentazione a cura di Giorgio Luzzi (Comitato Editoriale de L'Indice) di "Notte di nebbia in pianura" tenuta sabato 16 Maggio 2009 alla Fiera Internazionale del Libro di Torino.

Commentare il titolo, riferibile al cupo Nacht und Nebel dei nazisti e preannunciante il clima di violenza, repressione, miseria e deriva che c’è in tutto il libro. Ma il titolo, che è in ogni caso sempre indicativo rispetto al contenuto di ogni libro (lo ha dimostrato tra gli altri Genette), rinvia anche all’ambiente di provincia nel quale la vicenda – o per meglio dire la serie di vicende – si svolge: ed è quella “bassa” particolare che è la Lomellina, né Lombardia né Piemonte, con capoluogo Vigevano, peraltro cittadina molto dotata dal punto di vista architettonico e scenografico. Luoghi appunto di nebbie e di risaie, di monotonia e di uniformità morfologica e ambientale: la provincia italiana del Nord appunto, invasa a propria volta da un falso quanto appariscente benessere o meglio da un processo di modernizzazione gonfiato e corrotto. Insomma quel pezzo di norditalia fatto di nebbia e di risaie diventa un concentrato dei nuovi modelli di produzione e consumo di beni e di servizi; ma naturalmente l’espressione, burocraticamente intesa, è profondamente ironica, solo che si inizi ad analizzare quali veramente sono le attività attorno alle quali i personaggi agiscono. È infatti il degrado economico e morale a dominare il campo umano dei personaggi di questo romanzo. In sintesi: immigrazione, droga, nuove ricchezze volgari e inadeguate socialmente, derive sociali, solitudini, corruzione, anomalie da disadattamento, sradicamento e improvvisazione professionale, attività di copertura di una sostanza illecita, incultura, violenza. C’è proprio tutto questo, un po’ di tutto questo.
Dirò subito che la tenuta strutturale e narrativa di Angelo Ricci è letteralmente magistrale, e cercherò di dimostrarlo. Per dimostrarlo occorre soffermarsi sulla struttura del libro, a partire dal fatto che in un certo senso la definizione, tradizionale e canonica, di romanzo andrebbe almeno in parte revocata per dare spazio all’analisi di quelle forme nuove del narrare che stanno cercando vie meno usurate rispetto alle tecniche del romanzo tradizionale. Nel lavoro di Ricci, appunto, la marchesa non esce alle cinque… Semmai la struttura del libro è felicemente corale, con qualche possibilità di prestarsi a tratti verghiani: domina una situazione e uno scenario sociale, non un eroe (positivo o negativo che sia) protagonista. Qui sta il punto e l’originalità netta e autorevole del libro. Ma ciò che determina il plafond di coralità è l’impostazione mimetica dei linguaggi, distribuiti su personaggi diversissimi tra loro. In questo caso la funzione di regia dell’autore interviene a coordinare una polifonia di linguaggi, non a unificarli nel linguaggio unico del supervisore ferreo che è l’autore. Ricci non parla, lascia parlare, registra, raccoglie, unifica. Certo questo procedimento non è nuovo in quell’ambito sterminato che è l’esperienza narrativa contemporanea (ma anche non) con le sue esigenze incessanti di rinnovamento e di sperimentazione. Prima ho citato Verga, ma occorrerà revocarlo quando si affronti il problema del linguaggio prestato ai personaggi. Verga non si spingeva a tanto. Erano altri tempi, appunto. Qui invece ci sono tanti linguaggi espressi quanti sono i personaggi, al punto che il pensiero di quel soggetto onnisciente che è il narratore si riduce a ben poco, sostituito invece dalla funzione di coordinamento. Si tratta appunto di una serie di affreschi linguisticamente mimetici, che si adeguano alle diverse identità sociali e culturali (quasi sempre peraltro subculturali) dei personaggi: l’autore li raccoglie e li coordina, sia in sede di discorso diretto ma anche in sede di discorso indiretto, quando potrebbe decollare al livello intellettuale dell’autore e invece rimane aggrappato appunto al livello subculturale dei suoi miseri e disgraziati “eroi”.
Vediamoli, questi eroi. Però prima occorre spendere qualche attenzione nel cercare di capire come interagiscano tra loro. Nella tradizione del romanzo si vuole che prima o poi i personaggi interagiscano. E qui? Qui ciò accade solo in parte, e solo nell’ultima pagina, dove c’è un frammento di coordinamento ultimativo tra i carabinieri, i due balordi alcolizzati e impasticcati e la infelice Sandri Anna di professione detenuta: la catastrofe delle ultime righe del libro riguarda loro, ma in realtà riguarda anche il gruppetto di biscazzieri e avventurieri dalle ricchezze ambigue i quali apprendono dalla radio la notizia di quell’incidente disastroso tra due auto. Ma è solo una battuta, un inciso pronunciato da uno di loro all’interno del gruppetto (gruppetto integrato dalla presenza di due bellissime quanto infelici entraineuses immigrate dal mondo slavo, simboli dello sradicamento più dolente e irrevocabile). Però, appunto, dalla catastrofe propriamente detta rimangono fuori altri personaggi, così che il romanzo si conclude lasciando in sospeso gli esiti delle vite di questi ultimi. Vite sospese quanto peraltro nettamente delineate in una tragica immutabilità. Prima di affermare che nessuno, davvero nessuno, si salva, vediamo di chi sono e come siano fatte queste vite sospese e in quali modi, proprio dal punto di vista tecnico, esse vengono tenute insieme e spinte avanti assieme a quelle degli altri. Si noti che sostanzialmente i personaggi non interagiscono, siano gruppi chiusi o singoli soggetti umani, vivono ciascuno la propria vicenda. Che cosa dunque li unifica? Direi il tempo e il luogo, come dire l’ambiente. Sono figure umane in certo modo allegoriche, sintomatiche di tipologie del presente. Su ciascuna dominano pesantemente le “leggi” sfrenate e caotiche dell’economia, della dipendenza sociale dai bisogni e dei modi di costituzione di questi bisogni, il cui ambito è fortemente dilatato secondo i criteri di una situazione senza regole che domina i modelli di comportamento e di consumo. L’umano è degradato dalla propria funzione di consumo e dalla assunzione, spesso acritica e disperata, di modelli facilmente imposti da un sistema sregolato, imploso, feroce eppure inestirpabile. Dunque i personaggi non formano una comunità,
nel senso che agiscono separati, a nuclei non vicendevolmente interattivi se non, ma solo in parte, nella catastrofe finale. Vi è piuttosto una struttura a spirale, o per meglio dire a scacchiera, che consiste nel portare avanti vicende separate ma parallele, farle crescere alternandone le vicende con senso di equità.


NOTE DI LETTURA A MARGINE DI PAGINA:

Personaggio Sticazzi, turpiloquio delirante, esasperato
Il figlio unico obeso, presto orfano, figura di desolazione: altra figura tipologicamente segnata tra norma e trasgressione, ma qui portatrice di una forte condizione allegorica, quella della patologia e della abnormità consumate nella mitezza e nella incapacità di agire, in questo senso è la figura più struggente e indifesa del romanzo
Bravissimo l’autore nella sospensione, cioè nel trattenere lo snodo della vicenda, delle singole vicende: c’è un fascino in questo non rivelare all’inizio chi siano i personaggi, di chi si parli, di che cosa si parli; è un rilascio di informazioni dosato ed esperto
Ottimi i dialoghi in senso tecnico: spesso è una pluralità di voci che si intrecciano, con un effetto di straniamento e di enigma che è autenticamente funzionale e non un vezzo sovrapposto
Incredibile (lo Sticazzi) degrado culturale e morale, gergo demenziale e rivoltante, di una elementarietà compulsiva basata sullo stereotipo
Interessante l’uso di simmetrie cronologiche alternate: elementi della situazione in atto alternati a elementi del vissuto mnemonico (giocati spesso nell’alternarsi di discorso diretto e indiretto)
Vivido, evidente impegno sociale! (a proposito della detenuta Sandri Anna e della sua vicenda sentimentale e famigliare e dell’ingiustizia che sta subendo da parte degli apparati inquisitori)
Trionfo della banalità e del luogo comune: l’ambiente delle televendite
L’ambiente di Sticazzi: piccoli spacciatori collaboratori dei carabinieri
L’orfano obeso e il funerale della madre: pagina di composto pathos
Ripetizione ossessiva di parole-rito: “meno male che almeno sei alto” (è l’eco della madre che risuona ancora)
La detenuta che ha vissuto con l’islamico accusato di terrorismo: Sandri Anna appunto, già vittima prima di una violenza morale col figlio non riconosciuto dal padre appartenente a famiglia malavitosa; tipico soggetto femminile sofferente sul quale si scaricano, come in un paradigma sociale ormai invalso, contraddizioni e violenze
I carabinieri corrotti
Nuove forme di ricchezza e corruzione: precarie, fuorilegge, spregiudicate; ritratto di una Italia malata, in rovina, con basi profondamente compromesse, priva di eticità, di regole, di senso della comunità; è una efficace rappresentazione della condizione odierna di costume
Certi flash-back sembrano fare riferimento al modello cinematografico
Lo Sticazzi e il suo linguaggio animalesco e compulsivo
Verso la fine i fili cominciano ad annodarsi anche se la soluzione dell’intreccio è soltanto indiretta e parziale, non è in altre parole l’obiettivo dell’autore se non in quella breve parvenza di catastrofe semiotica che però non è una catarsi, è anch’essa provvisoria, come di vicenda interrotta, di romanzo troncato; perciò se da un lato esiste una ciclicità, dall’altro vige la tecnica della incompiutezza; e l’impasto è davvero interessante proprio dal punto di vista della cultura del romanzo.