Nei momenti bui si legge di più. Si scrive anche di più. Forse. Oppure è un'impressione. Ma le impressioni sono importanti. Niente di ciò che è vale tanto come ciò che sembra. E nello scrivere te ne freghi bellamente di ciò che è, perché il tuo compito è solo quello di far sembrare vero quello che è vero.
Mi sono sempre piaciuti i libri della Longanesi. Almeno quelli di una volta. Squadrati, con la copertina liscia e la carta bianca e ruvida.
Nel 1982 mi metto a leggerne uno. E' appena uscito. In copertina una foto strana: Stalin che fa cippirimerlo con la manina. L'immagine è sfocata, a denunciare la polvere del tempo; a dare, forse, quella patina da combat film, che fa tanto anni Quaranta e ricorda anche quei filmini, girati da Eva Braun, dove Hitler fa il buffone a Berchtesgaden.
Diego Gabutti, il cippirimerlo con la manina, è lui a farlo. Un'avventura di Amadeo Bordiga porta come sottotitolo: Il romanzo della rivoluzione come fantasmagoria.
Il dibattito sul post noir? Lucarelli che afferma che le nostre guerre coloniali sono il nostro far west? Dimentichiamoci tutto. Diego Gabutti aveva già capito come girava il mondo, letterario e non. E lo aveva capito quasi trent'anni fa. E aveva capito come descriverlo.
Umberto Eco, ne Il nome della rosa, gioca sulla presunta ossessione della Chiesa per il ridicolo e per l'umorismo. Per Gabutti invece il mondo è abitato da inconsapevoli burattini di un vaudeville politico-ideologico. E lo dice (e lo scrive) come un Henry Miller rinsavito o un Raymond Chandler ubriaco.
Prego per voi affinché ne possiate trovare una copia. Su una bancarella o in un remainder, poco importa. Quando lo leggerete, capirete quanto di ridicolo (e di spaventosamente terribile) c'è dietro la storia (quella con la esse maiuscola).
Un libro.
Un'avventura di Amadeo Bordiga, di Diego Gabutti (Longanesi).
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