Dalle mie parti, una volta, si andava a rane. Si andava anche a caccia e a pesca, ma andare a rane era più bello. Lo potevano fare tutti, a qualsiasi ora e con poca attrezzatura. Bastava una canna da pesca, nemmeno tanto lunga. Non c'era bisogno né di mulinelli, né di ami o mosche o esche particolari. La prima cosa da fare era catturare una rana piccola, il ranino o ranén. Poi, con un bel colpo di forbice, le tagliavi la testa, legavi al filo il torso decapitato e, come un epigono di Galvani, cominciavi a farlo ballare nel calore umido e torbido dell'acqua di una risaia. E la altre rane arrivavano. Acchiappavano il ranino con istinto cannibale e le tiravi su. Per tenerle finché non arrivavi a casa, in attesa di mangiarle o fritte o in umido con la polenta, bastava metterle in un sacchetto di cellophane, come quello dei supermercati.
Un pomeriggio schiacciato dall'afa estiva, un paio di anni fa, mi trovavo a prendere un caffé nel bar-tabaccheria-trattoria-edicola di un paesino delle mie parti. Un paesino di quaranta anime (anime nel senso di Gogol e non di manga). Un paesino che ha pure una frazione, che di anime ne fa quindici.
Il proprietario era al telefono: -Per stasera, che ho gente. Mi raccomando. Sì, sì, va bene per quelle che vengono dalla Thailandia. E non troppo grosse, se no sembrano rospi e il cliente poi se ne accorge e poi non me le mangia."
Dalle mie parti, una volta, si andava a rane.
Due libri: Pesca alla trota in America, di Richard Brautigan. La filosofia della pesca alla rana, di Sandro Soleri.
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