lunedì 17 giugno 2019

Premio Letterario Il Borgo Italiano. Il comunicato stampa

I vincitori del Premio Letterario il Borgo Italiano 2019

In crescita di anno in anno le adesioni al Premio Letterario il Borgo Italiano: il Premio dedicato agli autori che scrivono e ambientano le loro storie nei borghi italiani.
Sono stati novantadue gli autori e i borghi che hanno partecipato all’edizione 2019, la cui cerimonia di premiazione si terrà a Irsina (Matera) il 29 giugno 2019.
Quattro le sezioni in gara: Romanzo Inedito, Romanzo Edito, Racconto Breve Inedito e Poesia Inedita.
La Giuria che ha decretato i vincitori è composta, come nelle altre edizioni, da esperti del settore quali, Dora Albanese (giornalista Rai e scrittrice Rizzoli) Claudio Bacilieri (Direttore de “Borghi magazine” dell’Associazione I Borghi più belli d’Italia), Veronica D’Andrea (Giornalista), Elena Di Lorenzo (editor), Tiziana D’Oppido (scrittrice e traduttrice), Matteo Deiana (fotografo e docente di fotografia), Elena Giulianelli (blogger e libraria), Oreste Roberto Lanza (Giornalista), Pippo Onorati (fotografo, designer, regista, giornalista), Sergio Ragone (giornalista e scrittore), Angelo Ricci (scrittore), Francesco Santomauro (giornalista), Simona Vassetti (scrittrice), Daniela Vellani (docente e scrittrice).
Vince nella sezione Romanzo Inedito, Maria Elisa Aloisi con "Fiutando il vento" per Aci Castello (ME) e Montalbano Elicona (CT), nella la sezione Romanzo Edito, Francesca Maria Villani con "Goyescas", editore Divergenze, per Carosino (TA), nella sezione Racconto Breve Inedito, Luca Matteo Materazzo con "Skylab" per Torricella Peligna (CH) e nella la sezione Poesia Inedita, Filomena Rita Vizzaccaro con "Le Fratte" per Ausonia (FR).
È stata data grande visibilità ad ogni autore iscritto al Premio: la formula prevede che ogni autore rappresenti il proprio borgo e, per questo motivo, l’Organizzazione mette a disposizione i canali social redigendo un articolo sull’Opera e sul Borgo partecipante. L’articolo viene poi diffuso attraverso Facebook, Twitter e il blog. Novità dell’edizione in corso è stata la nascita del canale YouTube, Premio Letterario il Borgo Italiano TV, all’interno del quale gli autori hanno avuto una vetrina per diffondere una propria intervista. Il Premio si preoccupa del montaggio e della diffusione.
Come ha dichiarato il Presidente David Spezia, “Il Premio ha l’obiettivo di dare visibilità agli autori e ai loro borghi e di essere da ponte tra le realtà locali”.
Molto ancora attende il vincitore di ogni sezione da adesso in avanti: grazie alla collaborazione con Rai Radio Live e la trasmissione “Paese Mio” di Joe Violanti, gli autori e i sindaci dei borghi avranno una puntata speciale in cui si racconteranno e racconteranno il borgo che ha ispirato l’opera. La rivista “Borghi Magazine” dedicherà quattro uscite speciali ai borghi dei vincitori e il romanzo inedito vincitore vedrà la pubblicazione e distribuzione con Tralerighe Libri Editore.
Da non dimenticare, infine, gli eventi che verranno organizzati nel centro storico di Irsina, in occasione della cerimonia di premiazione il 29 giugno: presentazioni di libri, una mostra fotografica con i migliori scatti del contest Instagram sui borghi lanciato dal Premio, un dibattito su “Il buon cibo nei borghi” e, grazie all’accordo con Slow Food, una festa in cui prodotti, produttori e ristoratori a chilometro zero saranno i protagonisti.
Non solo un Premio Letterario quindi, ma un movimento culturale il cui obiettivo è “dare visibilità al piccolo, perché di piccoli borghi e di piccole storie che si fanno grandi, l’Italia è fatta” come ha dichiarato David Spezia.

martedì 14 maggio 2019

Il suono della solitudine, di Michele Marziani (edicicloeditore)

Scrivo queste note da un estremo luogo di esilio intellettivo in cui mi sono volontariamente rifugiato. Un luogo situato il più lontano possibile da tutto quello che riguarda la letteratura, i libri e la parola scritta di questa contemporaneità. Un luogo che si trova oltre i confini angusti e malati di un presente letterario che probabilmente è già morto senza nemmeno averne avuto coscienza, preda di una spirale quantistica che ha fatto sì che si autoingerisse, si autometabolizzasse e si autoespellesse, originando un desolato orizzonte degli eventi dove non esistono più né un adesso, né un prima, né un dopo.
Scariche elettromagnetiche isolate e inintelliggibili; ecco gli unici residui persi nel nulla a testimoniare l'agghiacciante concerto delle voci di scrittori, di agenti letterari, di editori, di librai, di lettori che si sono estinti in una psicotica voracità di sovrapposizione babelica che ha partorito soltanto un assordante silenzio. Il silenzio che nasce dalla totale depauperazione dell'ossigeno vitale.
Tra i pochi frammenti degni della parola scritta, e, per fortuna, non ancora inesorabilmente perduti, osservo questo libro di Michele Marziani. E lo osservo curiosamente, lentamente. Me ne avvicino con circospetta volontà di comprensione perché intravedo, dalla galattica distanza in cui mi trovo ora, che non è un romanzo, non è un'autobiografia, non è un saggio, bensì qualcosa di prezioso, di raro.
Da qui posso vedere soprattutto i bagliori ancora agonizzanti del presente letterario che si è già estinto, sicuramente un paradosso spaziotemporale, ma mi sia concessa una capriola semanticamente banale: i libri di Michele Marziani sono belli, belli nella misura in cui un libro è bello quando è capace di trasmetterti la sensazione di sentirti vivo mentre lo stai leggendo, è capace di suggerirti la percezione di essere parte di qualcosa di più grande e che va oltre lo spazio angusto della riga stampata e che quel qualcosa, tu che lo stai leggendo, lo stai condividendo nel modo più profondo con chi l'ha scritto.
Gabriele Frasca ha sempre sostenuto che la letteratura altro non era se non una delle tante forme di scambio di informazioni tra organismi pluricellulari, allo stesso modo in cui un aminoacido è un mezzo di scambio di informazioni fra cellule.
Nel desolato orizzonte degli eventi, oltre il quale si è autocannibalizzato il presente letterario, non vi è nemmeno più traccia di una particella elementare. Tuttavia segnali di uno scambio di informazioni esistono ancora e sono frutto di pochissimi messaggeri fra i quali c'è Michele Marziani. 
Se nella assenza di ossigeno i suoni non si trasmettono, al contrario, forte e potente come una quasar nata appena dopo il Tempo di Planck, questo suo suono della solitudine si avverte distintamente. È il suono di un  messaggero che non si è dato per sconfitto, che ha continuato a inviare segnali nella ricerca di esseri senzienti, e che si è trasfigurato completamente nel messaggio che ha inviato sino alla ostensione più estrema e, al contempo, più sinceramente tersa di se stesso.
Michele Marziani non si nasconde dietro facili schemi collaudati, non utilizza trucchi da mestierante della letteratura. Michele Marziani è Michele Marziani. E Il suono della solitudine è un gran bel libro, forse il più bello che, prima di fuggire per salvarmi dal collasso del presente letterario, abbia mai letto. Forse un futuro può ancora esistere.
Il suono della solitudine, di Michele Marziani (edicicloeditore).

sabato 6 aprile 2019

La fin inévitable

Dopo 15 anni di militanza letteraria posso solo dire a diversi editori, agenti letterari, scrittori, recensori e librai che per me, come Armand D'Hubert nel finale de I duellanti dice a Gabriel Féraud, siete come morti che camminano e che con voi non voglio avere più niente a che fare finché campo.
Piuttosto che con voi preferisco avere a che fare con i tossici, i criminali, i ladri, i rapinatori, le puttane, gli stupratori e gli assassini che, tutti i giorni, difendo nella mia vera professione di avvocato penalista.

domenica 23 dicembre 2018

Questo blog compie 10 anni

Era il 21 dicembre del 2008 quando scrivevo il primo post su questo blog. Sono passati dieci anni. Dieci anni di recensioni, di notizie letterarie, di interviste. Dieci anni di collaborazioni editoriali, di libri e racconti scritti e pubblicati, di presentazioni letterarie, di partecipazioni a festival letterari come relatore. L'autore che iniziò questo blog dieci anni fa ora è come morto. Tutto quello che ero dieci anni fa non c'è più, per mia fortuna.
Mi sono preso la libertà impagabile di evadere, di scappare a gambe levate dal mondo tragicomico dei libri, degli scrittori, dell'editoria, dei lettori. Ho inteso appropriarmi di un ventennio sabbatico che mi depurerà completamente dalle tossine malsane accumulate in dieci anni di frequentazioni letterarie psicotiche e venefiche e amen se questo ventennio supererà la mia rimanente aspettativa di vita. Ho avuto la (s)ventura di essere compagno di strada di editori illusi e boriosi, di agenti letterari arroganti e incapaci, di pseudo postulanti e orecchianti del mondo universitario delle lettere, di scrittori dagli ego smisurati come bolle ripiene di strame puteolente, (entrambe queste due categorie protagoniste di un provincialismo emetico), di librai saccenti del tutto inconsapevoli di annichilire la loro funzione, di lettori inutili e nevrotici come recensori nevrastenici di TripAdvisor e tanto mi basta per non guardarmi indietro e per, invece, guardare a un futuro libero da cotanta tristezza e immondizia mentale e soprattutto libero dai libri, dalla lettura, dalla scrittura e dalla parola scritta.
Non salvo nessuno, se non forse un paio di scrittori autentici e genuini e due libraie che fanno onore alla loro missione, ed è inutile che ne faccia i nomi perché immagino che possano riconoscersi in questa breve attestazione di stima.
Signori non è stato per niente bello e per questo vi saluto tutti e a mai più rivederci.

martedì 6 novembre 2018

Il Settimanale Pavese, Gianni Brera e l'intervista

La freepress Il Settimanale Pavese sta raccogliendo testimonianze relative al centenario della nascita di Gianni Brera. Riprendendo un mio articolo pubblicato su Il Colophon, la rivista di letteratura di Antonio Tombolini Editore, ne nasce una intervista al sottoscritto in cui, con il direttore Bruno Gandini, parliamo del grande giornalista sportivo, di calcio, di ciclismo, di Luigi Veronelli e di libri.




lunedì 6 agosto 2018

Il ventesimo numero de Il Colophon


Tutto nell'universo nasce, vive e muore. Anche Il Colophon, la rivista di letteratura di Antonio Tombolini Editore che, arrivato al suo ventesimo numero (più di tre anni di lavoro) termina qui. Solo le parole del direttore Michele Marziani nel suo editoriale sono in grado di rendere la forza e la commozione di chi, come me, per più di tre anni ha scritto in ogni numero di questa rivista che è stata citata come esempio di letteratura moderna e innovativa. Come in ognuno dei numeri di questi tre anni ovviamente anche in questo ci scrivo anch'io. Il tema di questo numero era Rimini, inteso in senso letterariamente amplissimo, come luogo narrativo nonché come luogo segnato dalle ombre di Pier Vittorio Tondelli, Federico Fellini e tanti altri. Alla luce del fantasma di Pier Vittorio Tondelli intervisto lo scrittore Piersandro Pallavicini, che fu ai tempi vicino al rinascimento marchigiano della letteratura anni'80, Massimo Canalini che di Tondelli fu amico e mentore e recensisco il tondelliano Un Weekend postmoderno. Il tutto con le meravigliose illustrazioni di Marta D'Asaro. Il Colophon è finito ma non sono finite le idee e le narrazioni che per tre anni ci hanno segnato in modo indelebile.
Come scrive MIchele Marziani nell'editoriale (che non dimenticherò mai per forza e commozione): È vero che ogni rivista che chiude è una voce che si spegne, ma è altrettanto vero che tutti quelli che hanno scritto sulla rivista in questi anni hanno parlate originali, cristalline, possenti, scanzonate, capaci di farsi sentire ovunque. Le voci non muoiono. Trovano altre terre e altre case. Ci rivedremo da qualche parte per raccontarci quanto sono stati belli questi anni letterari passati insieme.

mercoledì 13 giugno 2018

Il diciannovesimo numero de Il Colophon



Si trova online da pochissimi giorni il nuovo numero de Il Colophon, la rivista di letteratura di Antonio Tombolini Editore. Questa volta il tema è E l'Asia par che dorma... e il direttore Michele Marziani lo illustra nell'editoriale. Come sempre ci sono anch'io e scrivo un pezzo su Bisanzio, ultima frontiera e recensisco Le rane, dello scrittore cinese premio Nobel per la letteratura Mo Yan e Il proiezionista, del giapponese Abe Kazushige, una delle voci più interessanti del romanzo giapponese contemporaneo. Come sempre le illustrazioni sono di Marta D'Asaro.
Buona lettura!

lunedì 28 maggio 2018

La seconda uscita della collana I Ricci di Antonio Tombolini Editore

L'edizione integrale della Vita e avventure di Robinson Crusoe è la seconda uscita della collana I Ricci di Antonio Tombolini Editore, serie editoriale che curo e dirigo personalmente sia nella scelta dei testi che nella composizione delle prefazioni. Dopo Voltaire è quindi Daniel Defoe a divenire protagonista di questa collana che non vuole essere solo una banale raccolta di classici ma anche una bussola che possa riuscire nell'intento di orientare il lettore nelle tempeste letterarie e non. Se il Candido di Voltaire ha una sua necessità, in qualche modo urgente, nell'odierna polverizzazione politica, sociale, economica e finanche antropologica, il Robinson Crusoe di Defoe nasconde tra le righe le primigenie apparizioni del sistema anglosassone di egemonia culturale e finanziaria che permea in profondo la vita attuale della collettività degli umani.
La copertina è come sempre opera di Marta D'Asaro. Ogni testo esce contemporaneamente in versione cartacea e digitale. Qualunque informazione la trovate qui.
In attesa della prossima uscita non mi resta che augurare buona lettura ai lettori che si avventureranno alla scoperta dei testi di questa collana.



lunedì 21 maggio 2018

Lo sfaccendato, di Yusuf Atılgan (Calabuig)

Un sottile confine divide la serenità dall'angoscia nei personaggi che vivono nei romanzi di Yusuf Atılgan. Una no man's land che invade il vissuto esteriore e quello interiore, generando una configurazione borderline in cui è sempre più difficile e complesso scorgere il perimetro di un'ibridazione che metabolizza il reale e lo trasfigura in un inquietante teatro della mente che sembra possedere le parole, le posture, i pensieri.
Per le strade e le piazze di una Istanbul, che spesso diviene opacamente onirica (luogo dai confini quasi irreali tanto sono incuneati nella mente di chi li percorre), cammina, pensa, incede, indifferente a tutto e a tutti, ma anche al contempo estremamente permeabile a ogni influsso sia delle anime che delle pietre, lo sfaccendato, personaggio che Yusuf Atılgan definisce solo con la lettera maiuscola C. Non sappiamo se così ne indica l'iniziale del nome o del cognome, ma in tal modo comunque lo incardina nell'universo dei K. che si muovono nella densa surrealità mitteleuropea che si declina ora nella città simbolo del ponte che unisce, o divide, Europa e Asia.
Come già è accaduto prima nella galassia delle narrazioni, altri personaggi sono stati in modo agghiacciante schiavi di un continuo camminare senza sosta tra le vie di una città, fino al raggiungimento del limite della sopravvivenza fisica e psichica (pensiamo ai racconti di E.A.Poe), ma C. cammina attraverso Istambul sostenuto economicamente da una rendita finanziaria misteriosa, di cui non ci viene chiarita la fonte se non attraverso i cadenzati incontri con un avvocato che amministra beni mobili e immobili lasciati a C. da successioni ereditarie altrettanto misteriose.
C. si lascia attraversare dagli incontri, dai ricordi, dagli amori, dalle incomprensioni umane, che forse per primo ricerca, per poi rimanere interrogativamente attonito, all'inseguimento di un principio senza fine o di una fine senza principio. Baristi zelanti, tassisti feroci, passanti frettolosi, artisti bohémien, donne e ragazze che seminano, con consapevole e indolente indifferenza, la bellezza erotica che nasce dalle irresistibili curve dei loro corpi, amici abbandonati senza ragione, conoscenti intrappolati in discussioni senza tempo, questo è l'universo umano che C. esplora senza sosta e, tuttavia, con la distaccata serenità che nasce dalla consapevolezza di essere il punto in cui lo scorrere del tempo trova quella inconoscibile e inafferrabile misura quantistica che lo fa giungere alla sua stessa autonegazione.
Lo sfaccendato è soprattutto il romanzo dello scorrere del tempo, della relatività delle distanze consce e soprattutto inconsce, distanze che, in primo luogo, definiscono quello spazio tempo in cui l'eterno mascolino si perde completamente nel tentativo di afferrare l'eterno femminino che rappresenta quella parte di cui ha necessità estrema e che, comunque, mai riuscirà a comprendere.
Lo sfaccendato, di Yusuf Atılgan (Calabuig).

domenica 20 maggio 2018

Di che cosa dovrei scrivere

A volte mi domando se un'unità carbonio come me, che ha pubblicato qualche libro per grazia ricevuta di un editore coraggioso, dovrebbe continuare a scrivere. Non ho avuto un'infanzia infelice, ne ho avuta una normalissima. Mia madre non faceva la puttana e mio padre non era uno spacciatore. Ho avuto un'adolescenza come tutti, credo, non me ne ricordo più. Sono stato soltanto un figlio che ha pianto con dolore la morte dei suoi genitori e che ha sofferto come un cane di fronte alle malattie dei suoi cari. Sono stato, nel ricordo a volte onirico, un figlio come non ne vorrei mai uno come me. Ho commesso, forse come tutti, errori di cui pago ancora le penali e con gli interessi. Ho avuto compagni di elementari e medie che si sono persi nel nulla del nulla della mia terra e, quando andai al liceo di una cittadina senza storia, mi parve di essere arrivato, tanto giungevo dal niente territoriale, a Oxford. Ho frequentato l'università nel silenzio e nella solitudine e ho superato abilitazioni professionali tragicomiche nella loro follia. Vivo, mio malgrado forse, dove sono nato, un paese, una cascina quasi, che perde almeno un centinaio di anime a biennio sino a superare, in discesa, la quota simbolica dei mille abitanti. Sto a trenta chilometri da tutto, dalla Voghera iriense alla Vigevano senz'anima alla Pavia deforme. Se pronuncio il nome della terra in cui sono incardinato, la Lomellina, nessuno sa cosa significhi, tanto meno le pagine culturali della provincialissima gazzetta La Provincia Pavese, che, a ogni mia mail di indefessa richiesta di attenzione letteraria, adduce gentili affermazioni di ritardi improbabili, di antivirus eliminatori di ogni mia missiva digitale, di affermazioni che le mie cose verranno pubblicate dopo Natale, Pasqua, Ferragosto, mentre costantemente leggo sulle sue pagine la presenza di continui personaggi scrittoriali e provinciali che hanno la precedenza giornalistica su chi, come me, forse non esiste. Di cosa dovrei scrivere? De Lillo ha, alle sue spalle, la scena narrativa di New York e di un'America che è patrimonio narrativo condiviso dall'immaginario collettivo, Giuseppe Genna scrive di una Milano angosciosa e agghiacciante che è paradigma della mutazione genetica dell'Italia come, tuttavia, non può essere la mia terra, comunista filosovietica fin dal dal 1946 prima e leghista dal 1992 poi, una terra di risaie in cui si semina ormai, da parte di coltivatori diretti eredi dei più tronfi latifondisti anteguerra, non il Carnaroli bensì  il riso della multinazionale chimica Basf. William T. Vollmann decritta il passato degli States e il futuro dell'Europa, anche lui però proveniendo da plaghe territoriali che, pur se referenti a luoghi misconosciuti del Midwest, fanno gola ai pescecani delle agenzie letterarie statunitensi. Antonio Moresco urla il suo orrore da una Milano che, comunque, ha una sua dignità narrativa resettata da agenzie letterarie ambrosiano internazionali e altri ancora narrano di contrattempi temporali alla Roberto Arlt, supportati dall'ubiquo Vanni Santoni e da interviste al Farheneit della immarcescibile Lipperini, senza contare la comunità di scrittori dagli ideogrammi mandarini che si rifanno a una scena bolognese che non esiste più. Di cosa dovrei scrivere allora e, soprattutto, perché dovrei scriverne quando le poche allitterazioni della mia terra sono patrimonio di editori genovesi che non si rendono conto che, ciò che pubblicano, altro non è se non la stentorea ridefinizione di saggi già pubblicati dall'alessandrino e monferrino Gianpaolo Pansa? Partecipo, obbedendo come un Garibaldi steampunk, a operazioni narrative di guerrilla marketing promosse dal mio editore, scrivo indefessamente saggi e recensioni sulla sua rivista di letteratura, compongo recensioni di romanzi che case editrici di rilevanza forse non più intravista mi inviano e, ogni volta, mi chiedo il perché di tanta narrazione estesa e sacrificale quando, osservando da vicino il Punto Omega della mia scrittura, mi rendo conto che a suo supporto non c'è nemmeno stata una qualsivoglia guerra d'indipendenza gaelica svolta tra le plaghe barbariche di qualche isola nordica narrata da un amanuense rinchiuso in un'abbazia posta ai confini della galassia.