-Allora, Ramona, Roberto dice che sei troppo gelosa e che si metterà con Luna. Tu che ne dici?-
La tazzina è bollente.
-Roberto, che rispondi a Ramona?-
La lascia andare di colpo e una goccia di caffè finisce sul metallo del bancone.
-Luna? Tu che fai?-
La conduttrice bionda sta appollaiata sugli scalini dello studio. Pantaloni di pelle e tacco dodici. Sulla faccia una smorfia di attesa, mista a studiato disgusto. Lo schermo al plasma rimanda sfondi azzurrini. Appeso a due metri d’altezza.
-Secondo me si sbaglia. Lasciare andare uno con un fisico così. È proprio una scema.-
Il bruciore sui polpastrelli arriva sempre qualche secondo dopo.
-Ai miei tempi mi sarei subito fatta avanti.-
Le due donne al tavolino bevono coca cola. Hanno permanenti gialle sopra le rughe nascoste dagli occhiali. Il gonfiore alle caviglie fa calzare pantofole rosa e blu.
Il dolore alle dita scompare subito. Appena il tempo di finire il caffè e di sentire un leggero colpo sul collo.
Si gira. Le due donne sui sessanta fissano lo schermo. In fondo alla sala quattro ragazzini. Quello con la cannuccia in bocca gli fa vedere il dito medio alzato.
La ragazza alla cassa ritira l’euro con dita tatuate.
Fuori. Nel sole. Nell’afa d’asfalto della piazza. Finalmente.
L’odore delle risaie a fine luglio, quello che senti subito quando passi il Sesia arrivando da Vercelli o il Po, arrivando da Alessandria, è scomparso nel sole della piazza.
Sono anni che non ritorna più in Lomellina. Che non ritorna più a casa sua. Ed è arrivato in ritardo. Si è perso il mare delle risaie. Si è perso la chiesetta di San Paolo che sembra galleggiare sull’acqua. Come a Venezia. Avrebbe dovuto venire in aprile. Ma il lavoro è lavoro.
-E così ti faccio fare un viaggetto dalle tue parti. Non lo faccio mai per nessuno dei miei. Ma per te faccio un’eccezione. Sei il mio elemento migliore.-
L’edicola è sempre al solito posto. È chiusa. Come sempre, alle due del pomeriggio.
Il calore dell’asfalto attraversa il cuoio spesso dei mocassini inglesi. L’afa gli incolla la camicia alla pelle. Si toglie la giacca di lino e se la mette sul braccio. In Libano e in Sicilia non è mai così. Te ne stai tutto elegante nel secco del caldo. La giacca e la cravatta non te le devi togliere. Basta mettere sempre gli occhiali da sole.
E sei a posto. Sempre.
A sinistra hanno ristrutturato il vecchio palazzo. Erano le scuole o la pretura o l’ufficio di collocamento. Chi se lo ricorda più. È passato troppo tempo. Troppo.
Comincia a sudare. Chissà perché con il caldo che fa d’estate, qui gli alberi sono sempre pochi.
In Libano ce n’è un sacco. Ecco perché hanno un albero sulla bandiera. Qui, se avessimo una bandiera, dovremmo metterci una spiga di riso. E il riso vuole il sole, non gli alberi. Ecco perché.
Attraversa lentamente la piazza. In fondo a destra c’è la stradina che porta a quella bella chiesa. Non se ne ricorda più il nome.
È passato troppo tempo. Troppo.
-Ma è per questo che ti faccio fare un salto a casa tua. Perché tu lavori bene. Te l’ho già detto. Sei il mio elemento migliore. E io non voglio che i miei uomini soffrano di nostalgia.-
Adesso si gira. Si gira verso il palazzone di dieci piani tutto balconi di vetro e piastrelline, che sembra fare la guardia nell’afa della piazza.
-E che ci vuole? Un po’ di Milano non guasta. Neppure dalle tue parti. E poi e che è? Con quei palazzi ci facciamo da sempre un sacco di soldi. Mica con il tuo riso, che oggi meglio di voi lo fanno indiani e cinesi.-
Forse sarebbe meglio sedersi sul marciapiede. Come faceva da bambino.
È passato troppo tempo. Troppo.
Si alza. Si rimette la giacca. Per cercare bene le chiavi della Mercedes nera. Prima che caschino dalla tasca.
I passi risuonano nel giallo opaco del sole afoso. Il calore delle auto nel parcheggio produce un tremolio a mezz’aria. Come a Beirut. Come a Palermo.
Il singulto dell’antifurto lo strappa dai suoi pensieri.
-Mi raccomando. Fai tutto con calma. Ma che te lo dico a fare. Sei il mio elemento migliore.-
Un tuffo al cuore. Sapore metallico in gola. La valigetta!
È solo un attimo. È passato troppo tempo. Troppo. I ricordi non dovrebbero mai esistere sul lavoro. Mai.
La valigetta. È rimasta nel bar. Bene!
Sale in auto. Accende l’aria condizionata e mette in moto. La Mercedes nera lascia lentamente le strisce blu del parcheggio.
Una mano nella tasca interna della giacca. Lascia il telecomando dell’antifurto e ne prende un altro. Più piccolo.
-Con calma. Mi raccomando. I tempi. I tempi sono fondamentali. Premi il bottone bianco. Ma tu lo sai già. Sei il mio elemento migliore. Faremo un bel botto. Così qualcuno ricomincerà a portarci rispetto.-
La Mercedes nera va verso Milano. Verso il Ticino.
Ecco. Lentamente. Lo sente di nuovo. Prima piano. Poi sempre più intensamente. È l’odore del riso. Quello che senti subito quando passi il Sesia arrivando da Vercelli o il Po, arrivando da Alessandria.
La mano afferra il telecomando più piccolo e preme un bottone bianco.
Bianco. Come un chicco di riso.
Angelo Ricci
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