giovedì 23 luglio 2009

Il Paradiso degli orchi (Rivista di letteratura contemporanea) recensisce "Notte di nebbia in pianura"



In un grande ritratto, in un ritratto del Lotto o di Rembradt, quello che capita al pittore è di descrivere un carattere e, quindi, di percepire un destino.
Sciascia, al riguardo, scomodava la categoria dell’entelechia: in un ritratto l’oggetto è sempre morto, cioè racchiude tutta la vita dell’oggetto in questione così come viene chiusa, resa perfetta dalla morte. È la morte a gettare le fondamenta del nostro esistere, mettendogli un limite; e, infatti, su questo Freud proprio non si ingannava: al postutto l’uomo una libertà ce l’ha: quella di desiderare e creare intimamente la propria morte: sarebbe a dire la propria vita.
E questo libro, questa bellissima Notte di nebbia in pianura di Angelo Ricci, sceglie di aggirarsi nei meandri insondabili della morte, quelli senza fine (e a noi vivi è questa mancanza di limite che spaventa della morte) fermando, in una sola immagine, un solo attimo, letale: lo scontro di due automobili.
Il breve romanzo è una lenta e cadenzata marcia per giungere a ricomporre le membra disiecta dei suoi diversi personaggi, delle loro personali storie, dei loro destini fino al fermo immagine finale di questo scontro.
Il destino di un enorme obeso sospeso in una notte insonne, visitato dai fantasmi delle sue donne, la mamma, la maestra, il medico somigliante alla maestra che gli annuncia la morte della mamma; il destino di due piccoli delinquenti subnormali e quello dei poliziotti contro cui andranno a sbattere mentre traducono una detenuta; il destino di questa, incriminata per terrorismo di matrice islamica e, quindi, il destino di Ibrahim l’uomo che ama e che l’ha coinvolta nei suoi traffici; il destino del poliziotto che la deve indagare; il destino di un gruppo di amici non più giovani e non più ricchi che brigano qualche malaffare; e delle loro donne slovene. E anche il destino di un avvocato che non esercita più: ora tele-vende oggetti d’arte.
Ricci, con un tecnica che ricorda il Bolaño di 2666, giostra questo materiale umano avvicinandosi ad esso, allontanandosene, distaccandosene con un imperscrutabile maestria.
I vari personaggi compaiono sulla scena improvvisi e assoluti, e ci attraggono in maniera morbosa nella loro realtà fatta di pochi segni verbali, poche parole ripetute con ossessione, parole di mentecatti, di menti imprigionate in un destino chiuso e cieco. Parole che servono a fare rumore: per coprire il vuoto che ci aspetta.
Ed è per coprire quel vuoto, che queste vite sono vuote. È per non morire che questi personaggi, come i più, non vivono.
Ed è qui l’inestimabile pregio di questo lavoro che non si limita a fare la cronaca, il resoconto pulito in bella copia e bella lingua dei fatti, il compiaciuto superborghese di come vivono i poveracci di nuova o vecchia data. Niente racconto sul trionfo della banalità, e sulla desolata assenza di motivazioni: Notte di nebbia in pianura racconta il vuoto, il nulla dal punto di vista del nulla.
Un punto di vista non mistico, ma emotivo, un nada nostra che sei nei cieli che passa qui direttamente dalle labbra di Hemingway, e che dà al libro una irresistibile cadenza incantatoria, da grande opera sinfonica: magica e delicata e orribile: la storia del vuoto.
Come a dire che è da questa infinita tristezza di scoprirsi uomini che si può trovare il coraggio di essere uomini.


Pier Paolo Di Mino

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