venerdì 30 ottobre 2009

Dirty Harry e il disprezzo

Michel Piccoli se ne sta con le mani in tasca. Vestito di bianco guarda il mare, quasi con indifferenza. Il cobalto del mare è incorniciato da una delle enormi finestre della villa di Curzio Malaparte. Inondata dal sole. A Capri. La scena de Il disprezzo di Jean-Luc Godard sembra una tela di Hopper.
Una zoomata lenta e poi via via più veloce, ci porta ai bordi di una piscina assolata, in cima ad un palazzo. Un colpo di fucile e la bella ragazza che sta nuotando si ferma lentamente. Nel rosso cupo del suo sangue. Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo è già completo in questa scena. Don Siegel sapeva il fatto suo.
E lo sapeva anche nel riprendere il sole a picco sulla piccola banca rapinata di Chi ucciderà Charlie Varrik. Ed è lo stesso sole delle prime scene di Getaway! di Sam Peckinpah.
Il sole. Quel sole. Luminoso, senza ombre, quasi di ghiaccio.
Lo ritrovo addirittura in una scena girata al tramonto, in Detective’s Story di Jack Smight, con Paul Newman nei panni meravigliosamente hard boiled di Lew Archer.
Ma è lo stesso sole che Blake Edwards riprende nelle sue commedie: S.O.B. e Skin deep.
Un sole che crea una gabbia. Un sole che ha il potere di fermare il tempo. Un sole che non trasmette gioia. Un sole che produce una tranquilla tristezza.
Lo ricordo in tutte le scene esterne della serie Cannon, un mito dei Settanta.
È il sole che domina la villa di Willard White, in Agente 007-Una cascata di diamanti.
È il sole che ricordo in una fotografia di una rivista che persi molti anni fa. Ne ho già parlato qui.
Qualche tempo fa lessi un bellissimo saggio di Valerio Evangelisti, Alla periferia di Alphaville-Interventi sulla paraletteratura.
In quel libro ritrovai quasi tutti gli spunti che mi avevano affascinato in quella famosa rivista. Il titolo del libro rimandava ad un film di Godard (lo stesso regista de Il disprezzo). Tra i capitoli del libro ce n’era uno che illustrava il caso del serial killer che aveva ispirato Don Siegel per il suo film sul caso Scorpio.
Quando iniziai a leggere quel libro era una giornata di sole.

mercoledì 28 ottobre 2009

L'importanza del titolo

Il titolo è fondamentale. In un racconto, in un romanzo, in un film un buon titolo è tutto. A volte il titolo vive addirittura di vita propria e si stacca dall'opera che introduce.
Mi piace molto Carver, ma i suoi racconti non hanno buoni titoli. Troppo riduttivi, spiegano troppo poco, quando potrebbero dire (e dare) al lettore molto di più.
(Apro una parentesi. Per me Carver non è lo zio o il fratello maggiore di Bret Easton Ellis o di Jay McInerney, ma più semplicemente il cugino leggermente più stronzo di Bukowsky).
Pensate a un titolo come Scene di caccia in bassa Baviera, il film di Peter Fleischmann. In quel titolo c'è già tutta l'abitudine ordinaria alla violenza nei rapporti sociali, e in modo definitivo.
Oppure pensiamo all'apparentemente asettico Foto di gruppo con signora, di Heinrich Boll, che nasconde tutto ciò con cui la Germania postbellica ha tentato di venire a patti.
Anni fa mi pare premiarono come miglior titolo per un romanzo di fantascienza Camminavano come noi, di Clifford D. Simak.
In quelle tre parole è semplicemente nascosto tutto l'orrore del mondo.
Un racconto: Cattedrale, di Raymond Carver
Un romanzo: Riscatto, di Jay McInerney

Come si cambia

Questo blog oggi cambia grafica. Dallo sfondo nero si passa ad uno bianco e più essenziale. Ogni mutazione ha una ragione. Nulla avviene per caso. Notte di nebbia in pianura diventa da oggi (e lo è già da qualche tempo) non più soltanto una vetrina dell'omonimo libro, ma una vetrina dei miei pensieri e appunti su libri, storie e visioni. Un po' meno notte di nebbia in pianura e un po' più il blog di Angelo Ricci. Ma siccome i titoli sono importanti (e ne parlerò più diffusamente in un prossimo post) il blog continua ad essere "Notte di nebbia in pianura (il blog di Angelo Ricci)", quasi che dal titolo del libro si possa prendere spunto per un discorso ancora più diffuso e forse ancora più visionario.
Una cantante: Fiorella Mannoia
Una canzone: Come si cambia

sabato 24 ottobre 2009

Pesca alle rane

Dalle mie parti, una volta, si andava a rane. Si andava anche a caccia e a pesca, ma andare a rane era più bello. Lo potevano fare tutti, a qualsiasi ora e con poca attrezzatura. Bastava una canna da pesca, nemmeno tanto lunga. Non c'era bisogno né di mulinelli, né di ami o mosche o esche particolari. La prima cosa da fare era catturare una rana piccola, il ranino o ranén. Poi, con un bel colpo di forbice, le tagliavi la testa, legavi al filo il torso decapitato e, come un epigono di Galvani, cominciavi a farlo ballare nel calore umido e torbido dell'acqua di una risaia. E la altre rane arrivavano. Acchiappavano il ranino con istinto cannibale e le tiravi su. Per tenerle finché non arrivavi a casa, in attesa di mangiarle o fritte o in umido con la polenta, bastava metterle in un sacchetto di cellophane, come quello dei supermercati.
Un pomeriggio schiacciato dall'afa estiva, un paio di anni fa, mi trovavo a prendere un caffé nel bar-tabaccheria-trattoria-edicola di un paesino delle mie parti. Un paesino di quaranta anime (anime nel senso di Gogol e non di manga). Un paesino che ha pure una frazione, che di anime ne fa quindici.
Il proprietario era al telefono: -Per stasera, che ho gente. Mi raccomando. Sì, sì, va bene per quelle che vengono dalla Thailandia. E non troppo grosse, se no sembrano rospi e il cliente poi se ne accorge e poi non me le mangia."
Dalle mie parti, una volta, si andava a rane.
Due libri: Pesca alla trota in America, di Richard Brautigan. La filosofia della pesca alla rana, di Sandro Soleri.

lunedì 19 ottobre 2009

Ombelico noir (o post noir)

Avevo lasciato qui tempo fa alcuni appunti per sviluppare in seguito questo argomento. Nel frattempo Gian Paolo Serino apre un dibattito su satisfiction/menstyle. Ne viene fuori che siamo ormai al post-noir (o postnoir o post noir, che dir si voglia). Ma non entro nel merito delle etichette (già si è parlato a suo tempo di NIE/New Italian Epic). Carlo Lucarelli sostiene che le etichette si conquistano sul campo (come non dargli ragione?), mentre per Raul Montanari le etichette servono comunque a vivacizzare il panorama editoriale e, perché no, le vendite (come dargli torto?).
Ma riprendo da dove avevo lasciato i miei appunti.
Negli anni Settanta si è sempre detto che gli autori italiani erano negati per la letteratura di genere. Il motivo era che la presenza ingombrante (?) di Manzoni aveva trasformato la letteratura italiana in uno stone garden di suoi epigoni, con tutti gli annessi e connessi relativi alla forbice letteratura alta (con gli autori intenti a scrivere contemplando il proprio ombelico) e letteratura altra (giallo, noir, fantascienza, rigorosamente relegati in edicola).
Poi è accaduto quello che è accaduto e tutti hanno cominciato a scrivere polizieschi, gialli, noir e chi più ne ha più ne metta (Gianni Biondillo paventa ormai il giallista della porta accanto).
Ora, scrivere contemplandosi l'ombelico non è di per sé un delitto e lo stile di scrittura noir (ma quello vero, quello di Izzo, quello di Manchette, che hanno avuto anche una vita noir) permette una capacità di rappresentazione molto forte della contemporaneità (mi riferisco alla contemporaneità italiana).
Ne parlavo il 27 Settembre a Parole nel Tempo con Donato Dallavalle (Il letto di formiche-Excelsior 1881). E come gli ho anticipato allora, lancio qui la mia personalissima sfida: scriviamo pure contemplandoci l'ombelico, anzi continuiamo a farlo (per descrivere un sentimento non è necessario ricorrere ad investigatori e poliziotti), ma proviamo a farlo (e forse lo stiamo già facendo) usando gli stilemi del noir (per avere una vita noir c'è sempre tempo).
Un autore: Attilio Veraldi.
Due libri (suoi): La mazzetta e Uomo di conseguenza.

Flaubert e Matrix

Flaubert esortava a leggere non per divertimento, perché così fanno i bambini, né a leggere per imparare, perché così fanno i superbi, ma a leggere per vivere.
Ho letto per metà della mia vita come un bambino e poi come un superbo. Ma per imparare a scrivere devi, per forza di cose, leggere per imparare. Per imparare lo stile; per imparare il ritmo; per imparare, perché no, i trucchi del mestiere.
Nel tempo ho scoperto, quasi con orrore, che questo processo presenta i segni dell'irreversibilità. Dal momento in cui inizi a leggere per imparare a scrivere non sei più in grado di leggere per divertirti. Tantomeno per vivere.
In Matrix il personaggio di Cypher (il traditore; c'è sempre un traditore; forse anch'io lo sono) passa il tempo ad osservare la matrice non nella sua forma di rappresentazione, seppur artefatta, della vita, ma nella sua struttura originaria di incessante produzione di codice binario. E lo fa perché ormai è abituato e sa che ogni rappresentazione della matrice non riuscirebbe comunque a strapparlo dalla sua disillusa stanchezza.
Forse siamo tutti nella matrice.
Un film: Matrix.
Un libro: Auto da fé, di Elias Canetti.

sabato 17 ottobre 2009

Una pianura di Pupi

Eraldo Baldini dice di scrivere storie ambientate nella provincia perché gli piace avere a disposizione una dimensione, come quella rurale, dalla memoria lunga.
E la pianura che sta alle spalle di Eraldo Baldini (letteralmente alle spalle, perché lui abita vicino a Ravenna, tra la pianura e il mare) ha veramente una memoria lunga. Una memoria che scorre lungo tutto il fluire del Po, attraversando quel luogo letterario immenso (nel bene e nel male) che è la Pianura Padana.
La pianura la racconti (o meglio, "si fa raccontare") in tanti modi. Ma quello che più le si addice è un modo, oserei dire, quasi cialtronesco.
Sarà per l'afa d'estate o per la nebbia d'inverno, non so, nella pianura l'orrore e la cialtronaggine si mischiano e si raccontano a vicenda. Il bauscia, lo sborone, il cumenda e il cacciaballe vanno a braccetto con spettri e zombies.
Tre film. La Mazurka del Barone, della Santa e del Fico Fiorone. La casa delle finestre che ridono. Tutti defunti...tranne i morti.
(E forse un quarto. Zeder).
Tutti di Pupi Avati.

giovedì 15 ottobre 2009

Il fascino perverso del collaborazionista

Sono le nostre ossessioni a comandarci quando scriviamo. La violenza, la sopraffazione, la banalità dell'orrore quotidiano che regola le relazioni di tutti noi. Questi sono gli elementi coi quali devo scendre a patti nella scrittura. Mi interessa la figura del collaborazionista, mi interessa la figura del poliziotto. Ma non è così semplice. Il collaborazionista a volte non sceglie quel ruolo, ma è la violenza a sceglierlo. E il poliziotto usa una violenza per combatterne un'altra e, alla fine, ne rimane prigioniero.
I personaggi, prima di entrare in una storia, devono cominciare a parlarmi. Devono cominciare a farmi capire cosa vogliono dire e cosa vogliono fare. Alcuni cominciano ora a manifestarsi. L'inizio di una nuova storia. Forse.
Il nostro immaginario non è più solo di parole. E' anche di azioni filmiche che si sono sedimentate nella nostra memoria.
Due film: Cognome e nome: Lacombe Lucien, di Louis Malle e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri.
Immagini, parole, storie. Forse.

martedì 13 ottobre 2009

Il nemico

Hemingway aveva ragione a raccomandare agli scrittori di scrivere solo di ciò che conoscono. Per forza devi scrivere solo di questo. Perché quando scrivi non fai altro che girovagare tra i relitti dei tuoi ricordi, cercando di capire che ognuno di noi vive del proprio passato e nel giudizio degli altri.
La mia terra. Una volta la amavo. Oggi la sopporto. Certo che ne scrivo. Non posso fare altro. E' una coazione a ripetere che trascina ogni storia che invento, finché, in qualche modo, brandelli di quella storia si attaccano alla mia terra.
E allora, ne scrivo.
Mi piace il freddo. Mi piace l'inverno. Mi piacciono la nebbia, la neve, la pioggia.
Ma niente mi da il senso di un'angoscia tranquilla (seppure ineluttabile) come immaginare un primo pomeriggio pesante di afa, in un giorno estivo. Con il pulsare del gracidio delle rane che accompagna il battito del cuore. Con il sudore caldo e appiccicoso che cerca un armistizio nel fresco opaco di una chiesetta di campagna.
La bicicletta appoggiata all'erba alta di un fosso. Il silenzio spettrale spaccato dall'abbaiare di un cane alla catena, magari a un paio di chilometri da lì.
Soltanto allora capisci di essere solo.
Soltanto allora capisci che potrebbe esserci qualcun altro.
Soltanto allora capisci che quell'altro potrebbe essere un nemico.

domenica 11 ottobre 2009

Malaparte Borges

Penso spesso a Borges. Leggo spesso Borges. Cito spesso Borges. L'ho fatto anche qui.
Si insinua nei miei ricordi la Biblioteca di Babele, pubblicata da Franco Maria Ricci e poi passata agli Oscar Mondadori e ormai introvabile. Summa degli incontri tra la parola e il grande argentino. Ho davanti agli occhi L'antologia della letteratura fantastica, con Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo.
Borges!
Un suo racconto. Descrive il dialogo fra un uomo (Borges? Un'altro uomo? Un suo doppio? Un altro Borges? Un doppelganger di Borges stesso?) e un personaggio di idee filonaziste. L'io narrante scopre, tra le pieghe del discorso propagandistico e affascinato di costui, una sottile ombra di terrore. Quasi che il male, da lui seguito con così tanta enfasi, alla fine e nonostante tutto, lo sconvolga.
Non ricordo che racconto sia, né in quale opera di Borges si nasconda. Io stesso ho seguito per vent'anni un racconto, prima di scoprirne l'autore. Ne ho già parlato qui. Lascio ad altri il sottile gioco della scoperta. Borges mi approverebbe.

Ero prevenuto nei confronti di Curzio Malaparte. Un atteggiamento di vita troppo blasé, troppo guascone. Ma i libri sono sempre migliori di chi li scrive.
Leggo Kaputt. E ritrovo un uomo che si confronta coraggiosamente con il male. Che si confronta coraggiosamente con la banalità del male.
E ne esce nauseato.

sabato 10 ottobre 2009

Parole sui tempi di Parole nel Tempo

Ha ancora un senso parlare di libri? Ha ancora un senso incontrare un autore? Mantova parla di libri o parla di autori?
Ermanno Cavazzoni, tempo fa, in un'intervista disse che lui non andava mai né ai premi letterari né alle presentazioni perché, in fin dei conti, lì non si parla mai di libri, ma si aspetta semmai un qualche miracolo dagli scrittori, neanche fossero madonne pellegrine.
Mantova cannibalizza ormai gli altri appuntamenti? A Mantova ci sono troppi autori stranieri? A Mantova (e anche in qualche altro posto) si va a vedere in massa Nadine Gordimer e Luis Sepùlveda ma poi, se ne leggono i libri?
Credo che Mantova sia un faro al quale tutti dobbiamo guardare, non dimenticando però che un solo faro può abbagliare, mentre tante luci rischiarano il buio.
A Belgioioso un coraggioso gruppo di scrittori ha parlato dei propri libri. Con passione. Con gioia. Oserei dire con amore.
Senza passaggi televisivi alle spalle. Senza comparsate mediatiche. Senza operazioni a tavolino, create ad arte da uffici stampa.
Si è parlato solo e soltanto di libri. Senza miracoli né madonne pellegrine. E se ne è parlato con coraggio e passione. Con il coraggio e la passione di chi sa che il libro è più importante dell'autore.
Gloria Ghioni parla dell'ultima edizione di Parole nel Tempo su CriticaLetteraria. Credo che sia un'analisi sulla quale si possa cominciare a riflettere.

mercoledì 7 ottobre 2009

Visioni

L'ho già detto in un post precedente. Mi piacciono le zone di confine. Mi piacciono le città di confine. Credo che noi influenziamo i luoghi e che i luoghi, a loro volta, influenzino noi. Nel bene e nel male.
Ne nasce una sorta di rapporto biunivoco dove le anime dei paesaggi diventano lentamente paesaggi di anime.
Ne sorgono visioni che si perdono (o forse si uniscono) nella circolarità del tempo e che si contaminano nella e della molteplicità dei mezzi che si utilizzano per descriverle.
La parola, la musica, il cinema si fondono in questi paesaggi nello stesso istante in cui li descrivono, relativizzando la stessa dimensione temporale.
"I sogni nel cassetto", film di Renato Castellani. L'ho rivisto per l'ennesima volta. Pur nella lontananza del tempo, questo film degli anni '50 rende eterno un luogo. La mia città universitaria degli anni '80 (la stessa che fa da sfondo al film) era ancora uguale.
Trent'anni dopo.