domenica 29 novembre 2009

Lavoro già eseguito! Martin Eden e Ferruccio Parazzoli

E allora scrivi e scrivi e scrivi e scrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi. E poi ancora scrivi e scrivi e scrivi e scrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi. E, prima ancora di scrivere e di riscrivere, hai letto e letto e letto e letto ancora e poi ancora e poi ancora e poi ancora. Perché sai che, per scrivere, devi leggere e leggere e leggere e leggere e poi ancora leggere. E allora, dopo aver letto e letto e letto e letto ancora, scrivi e scrivi e scrivi e scrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi e riscrivi. Poi magari ti capita di riuscire a trovare un editore che ti pubblica e riesci anche ad ottenere perfino qualche recensione e allora sei contento e ricominci a leggere e a leggere e a leggere e a leggere ancora, per scrivere e scrivere e scrivere e scrivere ancora.
Poi un giorno ti capita per le mani questo libretto di Ferruccio Parazzoli, con il titolo accattivante. Accattivante perché sai che parla di gente come te, di gente che legge e legge e legge e legge ancora e poi scrive e scrive e scrive e scrive ancora.
Allora scopri che ci sei quasi arrivato vicino e che ti manca giusto tanto così per la perfezione e che ti sembra di poter già urlare come Martin Eden: lavoro già eseguito!
Ma scopri anche che quel tanto così che ti manca può valere un'intera vita e che forse un'intera vita non sarà abbastanza.
E allora leggi e leggi e leggi e leggi ancora e poi scrivi e scrivi e scrivi...
Due libri.
Martin Eden, di Jack London (Einaudi).
Inventare il mondo. Teoria e pratica del racconto, di Ferruccio Parazzoli (Garzanti).

sabato 28 novembre 2009

White noise

Una scia di automobili nella notte autunnale. Movimento istintivo di un mammifero meccanico, pluricellulare. Colonna monotona di luci mobili, confusa con la voce monocorde del traffico dati. Onde radio. Voci perse nella notte. Hub d'informazioni. Interessanti. Ottime per addomesticarci e assuefarci alla follia dell'auto. Forse radiotre. Forse Fahrenheit. Argomento accattivante. La vitalità mostruosa del traffico resa accettabile dai suoni articolati della radio. Conclusioni che nascono dalla concretezza di voci che discutono della possibile impalpabilità del web. Tutto ciò che scriviamo, tutto ciò che affidiamo alla rete ha, nelle sue possibilità, anche quella della conservazione? Un flusso costante di affermazioni, un flusso costante di disperata vitalità, percorre un sentiero forse posticcio. Siamo osservatori o osservati? Le voci discutono, ma non hanno risposte. Solo domande. Nel Ciclo della Fondazione, Asimov fa cercare ai suoi personaggi il punto originario di tutti noi. La Terra però non conserva più alcuna informazione. Il nostro esserci affidati con supponenza a supporti eterei ha trasformato il nostro patrimonio di ricordi in un costante e definitivo effetto neve. Perdendo e cancellando ogni memoria di noi. Il traffico della scia luminosa delle auto ci porta via, come ci porta via il traffico dei dati e della ridondanza dei flussi.
Ogni analisi sul nostro tempo, anche la più critica, è forse una componente, magari smaliziata, di questa assuefazione. Come le droghe che assumono i personaggi di Philip Dick. Creatrici dapprima di un universo sintetico, costruito per alleviare, nell'allucinazione, il nostro dolore quotidiano. Nemico mortale poi. Senza appello. Come in Un oscuro scrutare.
La discussione in radio è finita. Rimane un suono costante. Rilassante. Forse.
Rumore bianco.
White noise.

mercoledì 25 novembre 2009

Non c'è più la nebbia di una volta

-Io ne possiedo più di centomila pertiche. Pertiche milanesi intendo. Sopra di me c'è solo il Radice-Fossati.-
Certo. D'altra parte è una cena di lavoro. E le cene di lavoro sono fatte per dire e soprattutto per ascoltare. E ascoltare cose così.
Ascolto. Ascolto e guardo la ragazza bionda che lo accompagna. Esile. Carina. Porta i capelli raccolti con la coda di cavallo. Ma di quelle sbarazzine. Quelle che stanno sulla nuca e ballano ogni volta che lei muove appena la testa.
Maria Corti per me era un mito. Non l'ho mai conosciuta. Ma era un mito lo stesso. Per quello che faceva, per quello che insegnava, per quello che scriveva.
Anni fa lessi un suo libro. C'era una ricercatrice, forse una filologa, che andava negli USA e poi, dopo grande fatica, improvvisamente scopriva tutti i segreti della lingua inglese. La ricercatrice doveva essere di mezza età, forse un alter ego della stessa Corti. Ma io me l'ero immaginata bionda. Esile, carina, giovane e bionda. E con i capelli raccolti con la coda di cavallo.
Anche Micol Finzi-Contini me l'ero immaginata così. E poi, quando vidi Dominique Sanda nel film di De Sica, me ne innamorai subito.
La cena di lavoro è finita. Se ne va con la ragazza bionda (la figlia? l'amante?).
-Stasera si arriva a casa subito. Non c'è più il gran nebbione. Non c'è più la nebbia di una volta.-
La nebbia. Più che grigia me l'ero sempre immaginata bionda.
Non c'è più la nebbia di una volta.
Due libri.
Voci dal Nord-Est: taccuino americano, di Maria Corti (Bompiani).
Il giardino dei Finzi-Contini, di Giorgio Bassani (Mondadori).

post di servizio (verrà cancellato)

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lunedì 23 novembre 2009

Qui non siamo mica nelle Langhe

Cesare Pavese l'ho letto. Ma di rileggerlo la voglia non mi è mai venuta. D'altra parte qui non siamo mica nelle Langhe. Qui, di provincia granda, nemmeno l'ombra. Gianni Brera sì, che lui l'aveva detto e poi l'aveva anche scritto: questa provincia tuttalpiù poteva sembrare un grappolo d'uva. Ma solo perché sotto il Po fanno il vino. E il resto della provincia può semmai somigliare alla foglia.
Beppe Fenoglio l'ho letto. E l'ho anche riletto. E l'ho quasi imparato a memoria. Perché la sua provincia granda è fatta di violenza e di disperazione. Non è necessario imbracciare lo sten o fare azioni di guerriglia partigiana. La sua è una provincia sempre in guerra. Anche quando la guerra non c'è.
Il Carlén girava vestito come un barbone. Mangiava i rifiuti e di notte dormiva sulla panchina, l'unica, della piazza del paese. Non solo d'estate con l'afa, ma anche d'inverno, con la brina e la nebbia.
I ragazzi lo prendevano per il culo e lui gli bestemmiava contro. Quando litigava con qualcuno, era capace poi di incendiargli il raccolto.
Il Carlén non si è mai lavato. E' morto a ottant'anni e in banca gli hanno trovato un pacco così di milioni.
Altro che provincia granda.

domenica 22 novembre 2009

Vincitori e vinti

Una cittadina. Persa nella terra tra i tre fiumi.
Un pomeriggio di novembre. Tra Piemonte e Lombardia.
Ragazzine. Pantaloni a vita bassa e sigarette fra le dita. Parlano e ridono e camminano in quattro, fianco a fianco, sul marciapiede. Non si spostano. Una mamma con la carrozzina deve scartare sotto un portone. Per farle passare. Parlano e ridono. A voce alta.
Quattro ragazzi. Più grandi. Sui vent'anni. Anche loro sul marciapiede. Anche loro non si spostano. La mamma con la carrozzina aspetta. Aspetta sotto al portone che passino anche loro. Per non essere costretta a scendere dal marciapiede.
Sguardi duri. Vissuti. Abiti D&G. Loro come le ragazzine. Anche le ragazzine hanno sguardi duri. Vissuti. Depositari di un orizzonte misterioso. Maria de Filippi ha lavorato bene. Uomini e donne ha ormai fatto proseliti.
Un suv nero. Con i vetri oscurati. Svolta senza freccia e passa veloce sulle strisce pedonali. Una frenata. Breve. Stizzita. Riparte suonando il clacson. Sulle strisce pedonali ci sono due mamme. Una è quella di prima, l'altra indossa il chador. Guadagnano l'altro lato della strada e se ne vanno. Il suv riparte. Sgommata di rito.
Due magrebini sono seduti su una panchina. Guardano lontano e parlottano tra di loro. Di fronte alle strisce una pattuglia di vigili urbani. Anfibi neri, beretta automatica e sfollagente.
Le mamme sono lontane. Quella italiana e quella con il chador.
Una cittadina. Persa nella terra tra i tre fiumi.
Un pomeriggio di novembre. Tra Piemonte e Lombardia.

giovedì 19 novembre 2009

Quanti sorsi ci vogliono per vuotare un bicchiere di vino?

Quanti sorsi ci vogliono per vuotare un bicchiere di vino?
Il tramonto del sole trasformava lentamente in giallo il verde chiaro delle colline.
-Fa caldo. Quest'anno a vendemmiare si comincia presto e sarà un'annata ottima.-
Prese la bottiglia. Con calma. Soffiò via piano piano dal vetro scuro il sottile velo di polvere, quasi con amore. Come se avesse avuto tra le mani un neonato.
Si sedette adagio. Si tolse il panama, se lo appoggiò in grembo e allungò le gambe stanche. Le giunture, scricchiolando, gli fecero male.
-E' da troppo tempo che sono qui. Sono troppi anni ormai.-
La Napa Valley si apriva davanti ai suoi occhi stanchi.
Quanti sorsi ci vogliono per vuotare un bicchiere di vino?
Sospirò a lungo. L'aria sapeva di terra. Sapeva di estate finita e di tiepido autunno.
Prese un bicchiere di vetro spesso. Un bicchiere da osteria. Niente calici. Niente vetri sottili da enologo. Gli enologi lui li pagava. E li pagava bene. Da sempre.
-Ma il pinot nero e il cabernet vengono così buoni per la vite, per la terra, per il sole. Mica per le chiacchiere dei tecnici.-
Tolse il tappo con pochi gesti familiari e ne annusò il sughero. Lentamente. Con passione. Come se stesse apprezzando il profumo di una donna.
Riempì il bicchiere fino all'orlo, lo appoggiò con calma sul tavolo e si sistemò per bene sulla sedia.
La luce del tramonto attraversava il rosso del vino, accendendolo come una notte d'agosto.
Quanti sorsi ci vogliono per vuotare un bicchiere di vino?
Alzò il braccio con solennità e mostrò il frutto della sua terra al sole del tardo pomeriggio. Poi portò il bicchiere alle labbra e cominciò lentamente ad assaporare.
Il primo sorso lo dedicò a suo padre.
Ellis Island. Un bastimento sudicio per il vomito del mal di mare.
Un uomo orgoglioso, di poche parole, che teneva per mano un bambino pieno di paura.
Quasi settant'anni prima.
Il secondo sorso lo dedicò a sua madre.
Una donna piena di amore, piegata dalla fatica, che aveva lasciato le lacrime al suo paese, in Piemonte.
Il terzo sorso lo dedicò ai suoi figli.
Il maschio, ingegnere al Caltech. La femmina, medico a San Francisco.
Il quarto sorso lo dedicò a sua moglie.
Il suo profumo era come quello del vino. E adesso, era accanto alle viti che riposava. E presto, molto presto, anche lui sarebbe andato a riposare accanto a lei. E un giorno, proprio accanto all'ombra delle viti, si sarebbero risvegliati insieme.
Si alzò adagio, con fatica. Si rimise in testa il panama, prese il bastone e cominciò a camminare piano.
La corona delle colline in lontananza lo accoglieva come una madre.
Al limitare della sua casa scorreva un piccolo torrente che, qualche chilometro dopo, finiva nel Napa River.
Arrivò con fatica fin lì. Alzò il bicchiere e lentamente iniziò a vuotarlo, versando il rosso vivo del vino rimasto, nell'azzurro tranquillo dell'acqua.
Da lì, accompagnato dalla corrente, sarebbe arrivato fino all'Oceano Pacifico. E dall'Oceano Pacifico, piano piano, sarebbe arrivato fino alle coste dell'Italia.
Così la sua terra, la terra di suo padre e di sua madre, avrebbe finalmente saputo dov'era finito quel bambino pieno di paura.

martedì 17 novembre 2009

Il mare a quadretti

Jo Galliard era un marinaio. Anzi, Jo Galliard era un capitano. Un capitano di una nave mercantile. Jo Galliard era anche il titolo di una serie di telefilm. E il capitano era interpretato da Bernard Fresson. Ma Bernard Fresson era anche l'ispettore Henry Barthelemy, ne Il braccio violento della legge 2, di John Frankenheimer. E Il braccio violento della legge 2 era ambientato a Marsiglia. E Marsiglia è un porto del Mediterraneo. E anche Montecarlo è sul Mediterraneo. E il direttore del Museo Oceanografico di Montecarlo era Jacques Cousteau. E Jacques Cousteau aveva una nave. E questa nave si chiamava Calypso. E a volte, sulla Calypso, c'era anche un piccolo idrovolante, che si chiamava Catalina. E Jacques Cousteau, con la Calyspo e il Catalina, era il protagonista di una serie di documentari. E questa serie si intitolava L'uomo e il mare. Questa era la televisione di quando ero piccolo.
Dalle mie parti il mare non c'è. Ci sono tre fiumi. E le risaie. Ma quello è un altro mare. E' un mare a quadretti. Ed è un mare che si vede solo ad aprile e a maggio.
Però Ivano Fossati ha scritto: "Fin da Pavia si pensa al mare/fin da Alessandria si sente il mare."
Ivano Fossati ha ragione.

lunedì 16 novembre 2009

Casual blogger

Siamo tutti schiavi ormai, nel bene e nel male, dei quindici minuti di notorietà che Andy Warhol teorizzava, pioniere dell'autoaffermazione nel e del nulla. Il blog si è estroflesso nei social networks (o SN, come dicono i geeks o presunti tali). E i social networks si sono atomizzati nelle piattaforme di microblobbing. Piattaforma. Nome definitivo che promette solidità marmoree nel pulviscolo atmosferico della parola. Qualcuno, da qualche parte nella rete, dice che chi entra in questo gioco virtuale (e molto phildickiano) della alimentazione forzata della espressività online, è convinto, per il solo fatto di starci, di essere protagonista di chissà quale scena. Trovo tutto comunque molto affascinante.
Come, d'altra parte, è affascinante quella definizione che sta scritta sulla home di posterous (ultima conquista della ridondanza del nostro egotismo): CASUAL BLOGGER. Mi ci ritrovo completamente. Non so perché ma il termine casual mi riporta alla fine degli anni Settanta, a Fiorucci, a "chi mi ama mi segua" stampato sulle deliziose natiche di una provocante fanciulla, fasciate da un paio di jeans (Wampum? Jesus? o Fiorucci, ancora lui?). Nel pieno di un solipsistico delirio duepuntozero mi posto questa roba nel cuore della notte e la posto via mail, proprio tramite posterous e da posterous finirà nel mio tumblr e poi la riprenderò, con qualche aggiustamento, nel mio blog, cosa che faccio ora, in una negazione totale e consapevole dello spazio tempo. Così, tanto per provare. Così, alla casual blogger. Postare via mail. E' un po' come un matrimonio per procura o per telefono, come vige in alcuni paesi di diritto islamico (o almeno così vuole, forse, un'ennesima leggenda metropolitana). Postare via mail. Tributo estremo alla logorrea infinita che nella notte cerca un argine. Tempo fa, su tumblr, qualcuno dichiarava di osservare "l'umanità insonne della dashboard". Ecco, tutto questo nei Settanta (e non me ne voglia Simone Sarasso) non succedeva. Forse non possiamo nemmeno più permetterci il lusso di dire "chi mi ama mi segua", nemmeno se sta scritto sul grazioso sedere di una bella ragazza che comunque, altezzosamente incurante, ci volterebbe pur sempre le spalle.
Un libro.
Quelli di Philip K. Dick (tutti).
Un film.
Un poliziottesco anni Settanta (uno qualsiasi).

domenica 15 novembre 2009

Romagna mia

Io in Romagna ci sono stato. Una volta, qualche anno fa. Non mi ricordo neanche più il perché. Ma non era estate. Era inverno, subito dopo l'Epifania. Nevicava perfino un po'.
Mi ricordo una città. Di plastica. Forse era Riccione. Ma non so. Non sono più sicuro.
Il mare era senza colore e girava poca gente. Le nubi erano di un rossiccio smorto e la sabbia della spiaggia sembrava grigia. Tutta la città sembrava grigia.
Tutti i colori, delle facce, delle case, dei pensieri, erano quelli lì.
Mi viene in mente un teppistello. Con la faccia del bambino, ma del bambino che tortura i gatti e poi, senza emozione, spiega agli amici il perché. E lo trova anche, il perché. E gli amici lo stanno ad ascoltare. Perché chi comanda è lui.
Mi vengono in mente pomeriggi senza il giallo del sole, nella sala fredda ed enorme di un ristorante semideserto e senz'anima, costruito lì, sulle fondamenta, come per caso. Ma per un caso sbagliato.
Mi viene in mente la faccia sfatta di chi si riunisce e si diverte per forza, ma poi non è nemmeno capace di odiare. E sa solo piangere. Per la rabbia del suo fallimento irreversibile.
Mi viene in mente un nome: Molecola.
Mi viene in mente un avvocato fallito. C'è sempre un avvocato fallito. Anch'io, quando scrivo, metto sempre, da qualche parte, il personaggio di un avvocato fallito. Chissà perché.
Un libro.
Snack Bar Budapest, di Marco Lodoli e Silvia Bre (Einaudi).
Un film.
Abissinia, di Francesco Ranieri Martinotti.

venerdì 13 novembre 2009

Piero Scaruffi, il musico e il freak

Sì, lo ammetto. Ho letto una storia della musica rock. Anzi più di una. Leggere di musica produce un sottile piacere. La parola scritta, il mezzo stesso della parola, trasfigura l'elemento dell'espressività musicale, creando una vera e propria illusione alternativa che, a poco a poco, diviene altro. Una casa editrice specializzata in testi sulla musica e sulla sua storia, chiamò anni fa una sua collana Vessazioni. Ecco, credo che il segreto stia tutto qui. Vessata dalla parola, la musica addirittura migliora.
Piero Scaruffi non è un critico musicale. Non è un giornalista che cerca la rockstar del momento. Piero Scaruffi è un navigante dell'underground. Non nel senso dell'ambiente anticonformista (spesso venato di conformismo e guidato delle sapienti mani del business discografico) che si fa bello di questa definizione. Scaruffi è un navigante e un esploratore del suo e del nostro underground. Di quello delle nostre anime.
Spietato con i mostri sacri. La sua quasi stroncatura dei Fab Four ha qualcosa di letterariamente immaginifico. La sua valutazione degli Stones e dei Ramones è la stessa che farebbe un mercante di cavalli ad una fiera quando, con disincantata esperienza, si attarda a guardare la dentatura degli animali per capirne quanto di artefatto ci sia in loro.
Un amore profondo (e un altrettanto profondo odio) lo lega a Zappa che alternativamente idolatra o distrugge.
Una passione infinita per il particolare maniacale. La rivalutazione di strumenti atavici delle origini della musica americana, come la washboard. La sua predilezione per esperienze inquetanti e singolari, come quella dei Residents. Il suo attardarsi nell'esaminare, con l'occhio scientifico dell'anatomopatologo, fenomeni produttori di stupefazione, come i Throbbing Gristle e la loro cantante Cosey Fanni Tutti, autentica icona di ispirazione warholiana, in bilico tra musica e porno. Il suo porsi con sufficienza di fronte ai Sex Pistols del tenutario di boutique Malcolm McLaren e dei suoi sodali Johnny "Rotten" Lyndon e Sid Beverly detto Vicious, lo renderebbe ad honorem coautore, con Julien Temple, de La grande truffa del Rock'n'Roll.
Il suo soffermarsi su fenomeni come i Tragic Mulatto o Jello Biafra gli fa alla fine affermare, quasi inconsapevolmente, che tutto comunque è in qualche modo debitore del punk. Come affascinante è la sua altrettanto inconsapevole e quasi paterna pietas per Lydia Lunch, poetessa, cantante, nichilista che lui definisce, con tenerezza priva di ogni acrimonia, "lamentosa".
Piero Scaruffi ha scritto e scrive di musica. A noi il compito di leggerlo sempre.
Due libri.
Storia del rock, di Piero Scaruffi (Arcana Editrice).
Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano, di Ernesto Assante e Gino Castaldo (Einaudi).

giovedì 12 novembre 2009

Essere Roberto Saviano

Certo, è difficile essere Roberto Saviano. E' difficile confrontarsi con Roberto Saviano, con quello che rappresenta, con ciò che attira e con ciò che respinge.
E' difficile pensare a Roberto Saviano. E' difficile parlare di Roberto Saviano.
Perché è necessario parlare del Roberto Saviano che scrive. Del Roberto Saviano che, come tutti noi, usa la parola e attinge dall'esperienza della condivisione della e nella letteratura.
E' necessario andare oltre gli schematismi. E' necessario andare oltre la definizione, peraltro lusinghiera, ma pur sempre tecnicistica, che di lui viene fatta da Wu Ming in New Italian Epic (Einaudi Stile Libero).
Certamente è affascinante e condivisibile definirlo "oggetto letterario non identificato". E lo è, forse inevitabilmente.
Certo, si può non essere completamente d'accordo con la sua citazione di Ken Saro-Wiwa, relativamente al fatto che lo scrittore deve avere un ruolo attivo e non aspettare il tempo in cui si realizzino le sue fantasie.
Ma credo si debba andare oltre.
Questa sera l'ho seguito su raitre. E l'ho ascoltato. Al di là di tutto. Al di là del mio essere d'accordo o meno con lui. Al di là delle definizioni letterarie e delle citazioni.
E l'ho ascoltato parlare di coloro i quali si sono immolati, anche loro malgrado, anche senza avere per nulla la vocazione al martirio, per l'amore della parola. Della parola e della letteratura. L'ho ascoltato parlare di coloro i quali hanno usato la parola come unica arma a loro disposizione.
Non voglio tirare in ballo definizioni come democrazia o libertà. Voglio solo dire che ho ascoltato Roberto Saviano.
In lui ho visto un poeta. E i poeti dicono la verità. Al di là di tutto e di tutti.
Grazie Roberto.

mercoledì 11 novembre 2009

Narrare il territorio

In Francia è definito il roman du terroir e come non sentire l'affascinante assonanza con il termine terroir, che nel mondo del vino sta a definire quell'insieme di fattori (la terra, l'ambiente, il vitigno, ecc. ecc.) che ne plasmano l'anima.
Ne avevo brevemente accennato in un'altra sede e ora ne approfitto per approfondire.
Il roman du terroir rappresenta una forma di espressione narrativa, nata nel mondo francofono, che prende le mosse dal territorio. Ma ha un senso narrare il territorio? E soprattutto ha un senso essere narratori del territorio?
Narrare il territorio, raccontare il territorio non può e non deve essere una rappresentazione solo agiografica, simile ad una guida turistica. Narrare il territorio, essere narratori del territorio ha un senso se l'intendimento è quello di partire dalle proprie radici per raccontarne i sentimenti (di amore, ma anche perché no, di odio) che da quelle radici inevitabilmente sgorgano.
Narrare il territorio, raccontare il territorio non può e non deve essere una diafana descrizione di baluardi indifendibili, apparentemente fermi, in un divenire storico da sempre in movimento.
Narrare il territorio, raccontare il territorio ha un senso solo se questa narrazione si libera da un malinteso senso dell'immobilismo memorialistico, per aprirsi alle contaminazioni: letterarie, di stile, di narrazione, di vita.
Solo così il narratore del territorio saprà sentire (e far sentire) il sapore, l'odore, l'aroma di quella zona di confine che è poi il territorio dell'uomo.
Un premio letterario: Tracce di Territorio.
Un libro: Narratori delle pianure di Gianni Celati (Feltrinelli).
Un dvd: Mondovino di Jonathan Nossiter (Feltrinelli).

martedì 10 novembre 2009

Il libro e la nemesi

Borges! Ancora Borges! Il grande aedo argentino, anzi, il grande Omero argentino. Ai due cantori è vicino un destino comune, che li unisce in un'inquietante nemesi.
Un libro che parla di libri. Un libro che parla di Borges. Borges stesso avrebbe approvato.
Alberto Manguel, nel suo Con Borges ci racconta come per il grande argentino:"...il nocciolo della realtà stava nei libri, scrivere libri, parlare di libri. In maniera viscerale, era consapevole di continuare un dialogo iniziato migliaia di anni fa e che credeva non sarebbe mai finito."
Borges che, ormai cieco, sente il libro con il tatto. Il tatto, un senso materiale, quasi bestiale, soccorre il poeta ormai privo dell'uso del senso divino della vista.
Racconta Manguel l'arrivo del postino che porta un grande pacco. Il pacco contiene un'edizione di lusso del racconto borgesiano Il congresso del mondo. Edizione curata da Franco Maria Ricci, "un volume enorme, rilegato in seta nera e racchiuso in un astuccio pure di seta nera, con impressioni in oro stampato su carta a mano azzurra di Fabriano; le illustrazioni (pitture tantriche ) erano incollate a mano e ogni esemplare numerato."
Borges se lo fa descrivere, apprezza il libro con la mano, con la ricerca tattile che lo soccorre nella perdita (orribile per uno scrittore) della vista.
Poi, definitivo, dice: "Ma non sembra un libro, è una scatola di cioccolatini".
Leonardo Sciascia si accomuna a Borges con uno scrivere tagliente e sottile.
Come una lama.
In A ciascuno il suo, il professor Laurana, nella sua ricerca di una soluzione, di una risposta a ciò che di terribile la sua terra nasconde, si reca in visita dal vecchio professor Roscio, il cui figlio è scomparso in un agguato mafioso.
Così Sciascia: "Il vecchio professor Roscio, la cui fama di oculista ancora durava nella Sicilia occidentale e anzi già volgeva nel mito, da circa vent'anni aveva lasciato la cattedra e la professione. Più che novantanne, per ironia della sorte o perché meglio si inverasse nel mito di uomo che aveva sfidato la natura ridando ai ciechi la vista e dalla natura nella vista era stato colpito, era afflitto da una quasi totale cecità..."
Anche Sciascia rimane affascinato da questa nemesi della natura che forse ha punito Borges per la sua costruzione di una biblioteca di Babele, così simile, nell'orgoglio umano, alla torre di Babele che sfida Dio.
La vita reale del poeta argentino si confonde con la narrazione dello scrittore siciliano, in una confusione e contaminazione di tempi e di storie, di realtà e di irrealtà.
Due libri.
Con Borges, di Alberto Manguel, Adelphi.
A ciascuno il suo, di Leonardo Sciascia, Einaudi (un tempo), Adelphi (oggi).

giovedì 5 novembre 2009

Io, se lo incontrassi, Tullio Pironti lo ringrazierei

Tutti noi abbiamo avuto un inizio. Tutto quello che abbiamo fatto ha avuto un inizio.
Forse non c'entra nulla con quello che voglio dire, ma personalmente non sopporto i gruppi elitari. Non sopporto i gruppi chiusi che se la cantano e che se la suonano. E Dio solo sa quanti ce ne siano, specialmente fra chi bazzica libri, scrittori, editori ed il variegato e rutilante mondo dell'editoria. Non parlo solo dell' istituzione, parlo anche di chi fa dell'anticonformismo una bandiera al punto da creare un bel conformismo dell'anticonformismo.
Tempo fa, quando giravo ancora con i miei manoscritti sotto il braccio, un editore che passa per anticonformista, attento alle tematiche dei ggiòvani, attento a promuovere tutto ciò che di tondelliano gli passava sotto il naso, mi disse "la tua scrittura è efficace, ma i tuoi scritti non hanno superato l'esame del mio desk di giovani".
Ora, è passato un sacco di tempo, ma io sto ancora qui a chiedermi che cosa diavolo sia un desk di giovani.
Comunque, dicevo, tutti abbiamo avuto un inizio. Anche questo che ho raccontato forse è stato un inizio.
Ma per me la vita e la parola scritta spesso si confondono e quindi il mio inizio vero è più legato a questa contaminazione di vita e di parola scritta.
Non so perché ma un giorno (all'inizio, forse, di questa contaminazione) scoprii un certo tipo di letteratura americana. E scoprii Don DeLillo.
Mi piace DeLillo. Mi piace il suo voyeurismo controllato. Mi piacciono la sua scrittura, il suo stile, il suo starsene da parte mentre con la parola scardina ogni consuetudine.
Io DeLillo l'ho scoperto grazie a Tullio Pironti, che fu il primo a pubblicarlo e a farlo conoscere in Italia.
Tullio Pironti è un editore che ha sempre cantato fuori dal coro. Per questo mi piace.
Io Tullio Pironti non l'ho mai conosciuto, ma se lo incontrassi, lo ringrazierei.
Un libro: Libri e cazzotti di Tullio Pironti (Tullio Pironti Editore).
Un autore: Don DeLillo (i suoi libri, ovviamente, tutti).

martedì 3 novembre 2009

Davanti il Monterosa, a sinistra il Monferrato

Nel sole gelido delle giornate invernali senza nebbia, dalla pianura si vede il Monterosa. Ma non si vede tutto. Si vede solo la cima. Grande. Piena di neve. Immensa.
Sembra di poterla toccare con la mano e invece è lontanissima. E si rimane soli, nella pianura, a guardarla come un miraggio.
Tutti nella pianura hanno, prima o poi, visto il Monterosa. E, quando lo vedi, sei contento.
Nel biennio 1943/45 la Repubblica di Salò costituì una divisione alpina. Doveva combattere contro gli Alleati, ma finì a combattere i partigiani. Si chiamava divisione Monterosa.
Leggo Laura Bosio, Le stagioni dell'acqua: "Ogni tanto arrivavano dei disertori, fascisti allo sbando, e la sera facevano lunghe chiacchierate nelle stalle, l'unico posto caldo, con i partigiani e i figli dei contadini che erano stati obbligati ad arruolarsi nella Monterosa (la montagna dei loro orizzonti era diventata una divisione militare)..."
Il Monterosa sta davanti alla pianura. Il Monferrato è a sinistra.
Mi piace leggere quello che scrive Carlin Petrini, il fondatore di Slow Food. Sono sempre d'accordo con quello che scrive e con quello che dice. Lui è di Bra, nelle Langhe.
Un giorno scrive un libro, Slow Food Revolution: "Quattro notti e quattro giorni di festa pagana, un Canté i'euv memorabile, con 67 esibizioni e 117 musicisti impegnati, migliaia di persone coinvolte, teatri e piazze strapiene."
Enzo Bianchi è il il fondatore e il priore della Comunità Monastica di Bose. Lui sì che è del Monferrato.
Anche lui scrive libri. Fra gli altri, Il pane di ieri: "Ma ho memoria anche di un altro "rito" della mia giovinezza...che mi incuteva tristezza e apprensione:...alcuni passavano in gruppo per le strade e le cascine a canté i'euv, a "cantar le uova". L'amico Carlin Petrini recentemente ha voluto ricordare e rinnovare quest'usanza, dipingendola come un bel momento di festa condivisa, ma io ne conservo un ricordo molto triste:...quelli che cantavano le uova erano sovente ubriachi,...e a volte incutevano paura per i metodi spicci...Sì, non per tutti sono buone le stesse cose..."
Davanti il Monterosa, a sinistra il Monferrato. Per ognuno di noi qualche paesaggio, qualche orizzonte pieno di gioia è alla fine diventato una divisione militare.
Tre libri: Le stagioni dell'acqua (Longanesi) di Laura Bosio, Slow Food Revolution (Rizzoli) di Carlo Petrini, Il pane di ieri (Einaudi) di Enzo Bianchi.