Leonardo Colombati dà alle stampe per i tipi della casa editrice di Segrate questo nuovo tassello, monumentale comunque, che altro cammino percorre nella sua personale predilezione, condivisibile assai, per quel romanzo universo che è luogo mitico, meta narrativa (e metanarrativo, of course), obiettivo narrante che rimanda a epifanie letterarie sudamericane, mitteleuropee, postmoderne anzi che no.
1960 prende le mosse dalle capitoline olimpiadi che hanno lasciato in eredità all’italico immaginario le imprese atletiche di Livio Berruti e quelle ziqqurat e mastabe architettoniche che ancora oggi sono rimembranza edilizia di quel principiare di decennio che si pone come frontiera immaginifica tra le tribolazioni postbelliche, il boom economico e i successivi travagli politici dei Settanta.
Pretesto geniale quel 1960, data simbolo che l’Autore utilizza come lasciapassare per la genesi di una storia che è palesemente foto di gruppo (con signora e faccendieri) di quella “capitale corrotta, nazione infetta” che la lenzuolata tipografica d’epoca de L’Espresso pose a imperitura memoria e ricordo di una nazione malnata e mai compiuta. Colombati è bravissimo nel tessere una trama che tutto unisce e dimostra, tutto svela e storicizza attraverso lo strumento di una narrazione che crea un libro che è forse “il” libro definitivo che, come un Vangelo Sinottico, fa combaciare lembi di cupe e oscure macchinazioni che altro non sono se non l’ossatura malefica di una comunità nazionale che mai ha saputo riconoscersi come portatrice di un destino condiviso e che, anzi, da questo destino imperfetto si è fatta manipolare e forse oggetto di questa manipolazione lo è ancora.
Golpismi tragicomici, istituzioni macchiettistiche, che comunque grondano del sangue di una dilettantesca avventatezza dal sapore borbonico, scenari sullo sfondo dei quali si agitano intellettualismi letterari e cinematografici da camarille dal provincialismo estremo e definitivo che “malgrado voi” (cantava Venditti in Bomba o non bomba), ancora oggi presiedono alla enunciazione di ciò che è culturalmente agréable.
Solo un grande scrittore avrebbe avuto il coraggio di raccontare quel “non agit sed agitur” che da sempre definisce ogni produzione peninsulare, dalla politica all’economia alla cultura o culturame che sia, alla contaminazione dei poteri che da sempre negano quella separazione declamata da Montesquieu .
I personaggi di Vogliamo i colonnelli ben si adattano a comparire in questo romanzo universo assieme al principe Annibale di Roviano e all’ammiraglio Attila Canarinis (gli inarrivabili Eduardo e Totò, con il sottofondo del gemito reiterato di una canzonetta nascente da un qualche musicarello, mentre grand commis di stato danzano una ignobile allegoria del potere). Se tutto forse ha narrativamente avuto inizio con La salamandra di Morris West e si è poi estrinsecato nel Todo Modo di Sciascia, passando ça va sans dire per i pedalini oscuri del dirigente dell’Ufficio Politico di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, è con 1960 che questo archetipo quasi junghiano della contaminazione politica giunge a compimento.
Leonardo Colombati è il nostro risolutivo Thomas Pynchon e, se fossero ancora tra noi, da 1960 Elio Petri ne trarrebbe sicuramente un film in cui il tenente colonnello Agostino Savio non potrebbe che essere incarnato da Marcello Mastroianni.
Un libro.
1960, di Leonardo Colombati (Mondadori).
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