Frammenti di ricordi che vanno a costruire una narrazione che oltrepassa i tempi dei sentimenti e della sofferenza. Riflessioni di un io narrante, dalla scrittura tesa ed essenziale, che combatte per condividere con il presente quello che è stato e quello che più non potrà essere, nella speranza di un armistizio interiore che è forse la determinazione ultima delle creature senzienti.
Diario minimo e al contempo immenso di un dolore che riproduce se stesso nella contemplazione di parole che forse non si è giunti in tempo a pronunciare. Cronografia dell’intersecazione ineludibile dei legami di vite paterne e filiali, spesso intese da un osservatore esterno come immagini dalla apparente e semplice sembianza, e che invece sempre hanno la capacità di essere messaggere di complesse composizioni e insondabili posture dell’anima.
Marco Valenti crea la materia della vita e della morte con la sapiente levità di uno scultore alle prese con essenze materiche che presentano la capacità di trasfigurarsi in infiniti momenti che l'Autore stesso vuole, come obbligo morale, fissare. Ed è questa opera di solidificazione dell’insolidificabile, sfida estrema e vasta, che l’Autore accetta senza timore e che lentamente assembla con l’uso basilare della parola scritta, una parola che è strumento di razionalizzazione e di comprensione, nel senso non tanto del conoscere quanto del prendere con sé.
Al termine di questo breve e intenso romanzo, in cui si sentono forti gli echi e gli stilemi e gli influssi importanti di una certa e imprescindibile letteratura italiana, purtroppo ormai da pochi perseguiti e portati ad esempio (e che Valenti ben sa come metabolizzare), ci rendiamo conto di aver raggiunto quel non comune attimo in cui ci sentiamo parte di quel tutto dove l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo possono finalmente e vicendevolmente riflettersi.
Un libro.
RIP, di Marco Valenti (Antonio Tombolini Editore).
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