lunedì 28 aprile 2014

L'Armata dei Sonnambuli, di Wu Ming (Einaudi)

Traslazioni di epoche, di storie e di Storia, di protagonisti che da carnefici divengono vittime e di vittime che divengono carnefici in un roteare di personaggi che trasfigurano se stessi come si trasfigurano gli stessi tempi, come ha da accadere e accade in quei labirinti del divenire storico dove solo alcuni sanno decifrare la struttura che alberga sottotraccia. Scene da una rivoluzione, momento topico di quello squassante avvenimento che fu rito di passaggio, negazione e mutazione totale, diluvio universale che dai Lumi arrivò a Madama Ghigliottina e che appare come scena primaria dell’amplesso di un Settecento morente con i prodromi di un Ottocento per quindici anni bonapartista e poi soprattutto allucinazione spettrale di antichi regimi redivivi e sante alleanze, rischiarate appena dai toni sanguinari di un dipinto alla Francisco Goya (come quei riferimenti che nel Come va a finire di questa narrazione rimandano a quell’altra sollevazione del 1830, raccontata da Hugo con quel suo Perché Borbone, benché Borbone, significante di francesi involuzioni e di perenni e lafayettiane presenze).
Dissezionato qui (in questa Armata dei Sonnambuli che è cuneo narrativo che al contempo sradica e racconta) come corpo vulnerato e vulnerante e tuttavia fremente di rivelazioni anatomopatologiche, il tempo della Rivoluzione Francese viene illuminato attraverso l’azione e l'intersecazione dei piani narrativi che giungono a isolare l’istante in cui il corso vichiano raggiunge lo zenit per poi iniziare la sua parabola verso l’inevitabile ricorso e cioè quell’istante termidoriano in cui l’amplesso della Storia giunge a partorire l’inevitabile climax di un avvenimento che vive quasi come ecosistema autonomo e che governa così le vite di tutti coloro i quali, a tutti i livelli, lo vengono ad abitare in quello stesso frangente. E quel climax è la mutazione quasi antropologica che gli avvenimenti della Rivoluzione Francese subiscono in un avvilupparsi di contrazioni politiche che fanno di quel momento il paradigma universale del percorso e della evoluzione di tante rivoluzioni. Modello, dimostrazione scientifica che mirabilmente gli Autori sanno raccontare come in romanzo di cappa e spada rivisitato da un graphic novel del terzo millennio. E, ancora una volta, come in ogni romanzo dei Wu Ming, la realtà, storica e quotidiana intese come reciproco riverbero di cause ed effetti, non è mai come appare. Così come nei libri precedenti del collettivo (quella mirabile pentarchia narrativa che ha la sua genesi in Q), il punto di vista si sposta, svisa sugli avvenimenti, venendo a porre all’attenzione dei lettori luoghi nascosti del divenire storico, luoghi dai quali si dipanano nuovi e insperati (e utilissimi per il lettore) avamposti della Storia che spesso sono quelli che la Storia ufficiale ha ignorato o non compreso appieno o, peggio, celato. Ancora una volta la finzione diviene strumento imprescindibile per la comprensione della realtà. E quel teatro dei folli, quel Marat Sade che prende vita tra i cortili di Bicêtre con i ricoverati che assumono i ruoli dei politici della rivoluzione, diventa esso stesso Assemblea e Convenzione, in un inquietante rapporto fra realtà parallele in cui il magnetismo alla Mesmer può quasi quanto un ideale (e le teorie del complotto nacquero proprio in quel momento storico, tanto era incomprensibile quella mutazione totalizzante che cambiava addirittura nome ai mesi e ai giorni) e in cui quel Te lo si conta noi, com'è che andò diviene lasciapassare ineludibile per la comprensione di quella narrazione spesso misterica che è la storia degli umani.
Un libro. 
L’Armata dei Sonnambuli, di Wu Ming (Einaudi).

Nessun commento: