"Un paesino che non si capiva bene se era nord della Lombardia o sud della Svizzera”. È questo lo scenario che fa da sfondo a un cambiamento e a una educazione. Che fa da sfondo al cambiamento di un paese che non ha più la voglia di essere un paese contadino, ma che non ha nemmeno la voglia di non esserlo più. Un cambiamento che gli piove dall’alto. Non voluto. Subìto. Che fa da sfondo ad una educazione. Alla educazione di una generazione di adolescenti, troppo giovani per la guerra, ma non abbastanza per non vederla ogni giorno rievocata dalle ferite dei padri. Non abbastanza per non avere la voglia di combatterne comunque una. Una guerra confusa, ribelle, a volte anche ridente. Una guerra che alla fine troverà anche il proprio nemico. E lo troverà in quel cambiamento imposto e subìto. In quel cambiamento che ha fatto anche morire il grande castagno che “era bellissimo”. Una guerra sempre condotta tra la voglia di divertirsi comunque e il dovere di alzarsi presto la mattina, perché “potevi fare tutto quello che volevi l’importante era che al mattino ti alzavi e andavi a lavorare.” Una guerra che continua per tutta la giovinezza. Una guerra comunque persa. Una guerra che porterà l’io narrante alla fine ad approdare a Milano. In quella Milano da dove era partito tutto. Da dove erano partiti i “beat” e le moto e i giornalini e la musica e le chitarre e i mangianastri. Ma da dove era partito assieme a questi anche quel cambiamento non voluto e subìto. La guerra ridente e dolcemente ribelle dell’adolescente è finita. Ne comincia un’altra. Senza ragazze, senza moto, senza chitarre. Ne comincia un’altra. È la guerra che ogni essere umano dovrebbe combattere. Per non perdersi.
Un libro.
La gamba del Felice, di Sergio Bianchi (Sellerio).
Nessun commento:
Posta un commento