Come un frutto nasce dalla terra, così questo romanzo nasce tra Piemonte e Liguria. Una simbiosi di luoghi, di colline, di colori e di sapori. Orengo ben conosce il fatto che la Liguria definisce il Piemonte che, a sua volta, ne introduce l'attesa. In bilico tra favola e narrazione, sulla lama di un presente forse artefatto che, senza speranza, cerca di celare le sue manchevolezze e di obliare il tradimento del passato, veniamo irretiti da sensazioni che dimorano nel profondo delle nostre anime. Tutto è forse soltanto un pretesto per nascondere a noi stessi che il tempo è destinato a mutare. Inesorabilmente. E, probabilmente, anche la ricerca della tradizione altro non è se non l'artificioso imbellettamento di una realtà fatta di plastica e di capannoni. La ripetizione costante della terminologia enologica diviene lentamente una sorta di mantra per mezzo del quale, più che una rappresentazione del presente, si cerca di esorcizzare il tradimento di un luogo. Tradimento tanto più terribile tanto più perpetrato dagli stessi suoi abitanti. Non ci sono in questa storia semplici nostalgie o facili sentimentalismi. C'è invece una grande rassegnazione. Una rassegnazione consapevole e lucida, una sorta di tranquilla disperazione. Queste Langhe non sono certamente più terra di "malora", ma, forse, non hanno nemmeno più un'identità. Ci salverà probabilmente il profumo di viole e di liquirizia che si nasconde in quel vino che nasce dalle radici profonde della vita.
Come nascosto è il delicato e forte omaggio che Orengo rende al grande Fenoglio, celato il quel "finally" apparentemente fuori posto e strambo, ma tuttavia così commovente.
Un libro.
Di viole e di liquirizia, di Nico Orengo (Einaudi).
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