lunedì 10 giugno 2013
Dell'impossibilità di recensire Infinite Jest
E' possibile scrivere di Infinite Jest? E' possibile giungere a quella somma in qualche modo definitiva e necessariamente limitata e limitante che è la recensione di un libro? E' possibile affacciarsi attraverso quella sediziosa frattura spaziotemporale che DFW apre con il suo bisturi narrativo nella carne dei lettori? Da quella frattura spaziotemporale che si sovrappone allo squarcio nella pelle del lettore escono sangue, liquido cerebrospinale, vapori psicotropi, deiezioni infinite. Questa avrebbe dovuto essere una recensione classica, con la foto della copertina del libro in alto a sinistra, con nel titolo del post, e ripreso poi alla fine, il titolo del libro, l'autore, l'editore. Ma non può essere così. Non può essere così perché non è il lettore che legge Infinite Jest, è Infinite Jest che legge il lettore. E' Infinite Jest che gioca con il lettore una sadomasochistica partita in cui si fondono ruoli di dominio e di dominazione. Infinite Jest non è un romanzo, ma è realmente quella cartuccia filmica girata da James O. Incandenza che annichilisce e ingoia la mente di chi la guarda. Infinite Jest non è soltanto la summa estrema di tutti gli archetipi del postmoderno. Infinite Jest è La fin absolue du monde, non quello di Carpenter, ma quello di Hans Backovic. Si deve leggere, ma poi bisogna fuggirne. E se per caso state ascoltando la radio e vi pare di sentire la voce di Madame Psychosis, spegnete subito.
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