Sublimi e deliziose imposture, destrutturazioni del romanzo
moderno e postmoderno, tecnica del cut- up portata alle sue letterarie (e
perciò definitive nel senso dello stilema borgesiano) estreme conseguenze.
Vogliamo sempre sapere tutto di Burroughs, seminatore incessante di
affascinanti posture narrative, affastellatore instancabile di definizioni che
(ri)vivono incessanti nella leggenda della cultura pop, nella leggenda della
cultura underground, angosciosamente vitali come i riflessi dissezionati degli esseri
psichici (o psicotici) che popolano la base spaziale di Solaris.
Mimesis
dà alle stampe questa sceneggiatura, questa zona letteraria temporaneamente
autonoma, paradigma hakimbeyano totalizzante. E così come l’espressione Heavy
Metal fu mutuata e lanciata nell’universo fonico proprio da produzioni
burroughsiane, così Ridley Scott si innamora del titolo (Blade Runner) di
questa manifestazione letteraria del grande beatnik (definizione comunque
riduttiva per Burroughs) e ne enuclea il titolo applicandolo con copia incolla
geniale (autorizzato, ça va sans dire, dall’Autore delle passate e tragiche esperienze
tangerine) a quella che fu la consacrazione filmica di Philip Dick.
Caleidoscopio
assoluto di allucinatorie espressività, grembo gravido di tutto ciò che nasce
dalle correnti sotterranee della letteratura, congegno assoluto di enunciazioni
nascenti dal subliminale e acido universo delle teorie del complotto alla
Cointelpro, questa sceneggiatura-romanzo-racconto breve si staglia come una
struttura reichiana che tutto comprende.
Molto
prima dei postmoderni, molto prima di Leary, molto prima di contenitori
clandestini come la Amok Press.
Seduto
in una stanza disadorna al numero 9 di rue Gît-le-Coeur,
Burroughs ci guarda con la stranita consapevolezza di chi ha conosciuto l’inconoscibile.
Un
libro.
Blade Runner, un film. La sceneggiatura
inedita di un grande scrittore di fantascienza, di William Burroughs (a
cura di Riccardo Gramantieri), (Mimesis Edizioni).
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