C’è un passato nella memoria del lettore. Un passato che ne
ha testimoniato il presente. Un passato fatto dei suoni delle frasi, del ritmo degli
stilemi.
Come uno stemma araldico, segnatura definitiva di ciò che il
lettore è stato, è e sarà, figure e visi, ghigni e posture di personaggi e
autori vanno a costruire un bestiario metafisicamente medievale che come un
santino o, meglio, un ex voto vive nelle segrete tasche di chi ha avuto
commercio con le storie che vivono nei libri.
C’è una storia che è (deve essere, forse) tutte le storie. C’è
una storia che racconta e si racconta con le parole di altre storie.
C’è (ci deve essere, forse) un libro che è tutti i libri. Un
libro fatto di libri. Un libro che racconta il mostruoso piacere del perdersi
nella lettura, del perdersi in quella contraffazione più reale della realtà che
è la narrazione.
Memorie, echi, risonanze. Vestigia di Poe, Stevenson,
Dickens, Mary Shelley. Simulacri divini e tragici che si trasfigurano in una
chimera feroce e, al contempo, domesticamente assisa sul corpo stupito di un
lettore onnivoro e divorato dall’eterna impossibilità della lettura.
Tutto è destinato inevitabilmente a passare sotto il
giogo di quel mutamento che forse è morte, sconfinata entropia che tutto
ingurgita e che è visione assoluta dell’universo.
Un libro.
Di bestia in bestia,
di Michele Mari (Einaudi).
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