Amori al singolare è il suo primo libro.
Teo, il tuo esordio letterario ti vede autore di un libro di racconti, cosa molto rara nel panorama editoriale italiano, specialmente riguardo alle opere prime. Qual è stato il motivo che ti ha portato a scegliere questa misura, che ti ha portato a camminare con questo passo?
È una misura che mi si è imposta spontaneamente. Non ho pensato al fatto che, mettendomi alla prova sulla misura del romanzo, avrei trovato più facilmente un editore. E forse, anche se l’avessi pensato, non sarei riuscito a scrivere queste storie in un altro modo, a ricomporle in un testo unico.
Peraltro, una volta che ho compiuto una selezione fra i racconti composti nell’arco di 4-5 anni, mi sono reso conto che il romanzo in un certo senso c’era. Vale a dire che, prese tutte assieme, quelle storie avevano una forte coesione, al punto da comporre un affresco unitario in cui il mio editore ha creduto e che (almeno a giudicare dalle recensioni di Amori al singolare) arriva anche ai lettori come una sorta di romanzo di formazione a tappe.
Una storia, un racconto, un romanzo nascono sempre coniugando una struttura e uno stile, una interiorità e una necessaria presa di distanza.
In Amori al singolare c’è un grande lavoro di struttura, di stile, una abilità nel distanziarsi dagli indispensabili motivi di ispirazione. Quanto c’è di te, nel senso dello scrittore, del narratore, in questi racconti?
È una bellissima domanda. Non saprei quantificare la ricerca stilistica che mi ha portato a trovare la voce di Amori al singolare. Quanto meno, non l’ho preventivata: ho sentito di volta in volta in che modo avrei dovuto raccontare queste storie per sentirle davvero mie. Così nella prima parte prevale un tono brillante. La voce che parla è quella di un laureando fuori sede, un provinciale inurbato ma di buone letture, alcune volte stranito e altre ferito dalla scoperta di un mondo – quello adulto – che sta arrivando ma che non lo entusiasma. Un trapasso da cui si protegge rovesciando la malinconia nel comico, come si riesce a fare a quell’età.
Nella seconda parte invece le cose diventano più serie, più amare, come purtroppo tende a fare la vita quando arriva il momento delle scelte e dei compromessi, in cui ci si può svendere oppure si possono pagare conti salatissimi.
Lì, mutando tutto, cambia anche la voce. Gocce, il racconto lungo che da solo compone la seconda parte parla di un distacco, è un requiem. Aveva bisogno di un altro tono e lo ha, per così dire rivendicato: via via che la storia mi si chiariva in mente, mi si chiariva anche il passo che avrei dovuto adottare per raccontarla con onestà. La cosa che mi soddisfa di più è il fatto che da questi racconti, apparentemente tanto ottimisti e virati (sin dal titolo) “al singolare”, e cioè a una prospettiva di forte soggettività, arrivi al lettore un’idea degli anni che essi raccontano, un sapore del tempo che abbiamo attraversato. Come narratore questo era uno degli obbiettivi a cui ambivo.
Come è nato l’incontro con effigie, l’editore che ha pubblicato Amori al singolare?
Andando con ordine, Amori al singolare è nato per merito di Matteo B. Bianchi. Conosco da tanto tempo questo scrittore generoso e pronto ad aiutare gli altri; penso che lui si sia letto quasi ogni pagina che ho scritto, lo ha fatto con enorme pazienza e ancor più pazientemente mi ha fatto capire cosa c’era di vero nella mia scrittura, cosa premeva per uscire. È stato lui a incoraggiarmi e a credere in me e a dirmi, un giorno freddissimo a Perugia, che i racconti che avevo scritto e che gli erano piaciuti erano ormai abbastanza per pensare a raccoglierli in un libro.
Il materiale di Amori al singolare ha circolato per oltre un anno e prima di approdare a Effigie, che mi ha pubblicato con un’attenzione e una cura che auguro a qualsiasi scrittore, ho ricevuto vari rifiuti per il motivo di cui tu parlavi prima, ovvero il pregiudizio di “scarsa vendibilità” che patiscono oggi le raccolte di racconti. Devo dire però che queste lettere mi hanno fatto piacere perché ogni volta, al di là del rifiuto pronunciato in nome di questa assurda dinamica, erano molto gentili, piene di apprezzamento e mi hanno sempre dato un grande stimolo ad andare avanti, convinto che prima o poi avrei trovato un editore abbastanza donchisciottesco da provarci. E così è stato!
Ho incontrato Giovanni Giovannetti, il mio editore, collaborando a “Il primo amore”: dal 2007 appartengo al collettivo che dà vita alla rivista (edita, per l’appunto, da Effigie). Mentre scrivevo i miei Amori e dopo, quando il dattiloscritto girava e mi arrivavano i rifiuti degli altri editori, mi guardavo bene dal dare i miei racconti a Giovannetti. Avevo dei grossi scrupoli, non volevo farlo sentire in dovere di darmi una risposta affermativa a prescindere, solo in nome della rivista a cui ci dedichiamo entrambi con la stessa passione. È stato un altro membro del collettivo a esortarmi affinché proponessi Amori al singolare anche a Giovannetti, cosa che ho fatto – come puoi immaginare - con mille cautele ed esortazioni a respingerlo al minimo dubbio. Dopo qualche mese Giovanni mi ha detto che mi avrebbe pubblicato e, siccome è una persona tanto appassionata quanto carica di umanità, mi ha scherzosamente riempito di rimbrotti e male parole per essermi lasciato frenare da tutte quelle cautele. Oggi spero di aver ripagato la sua fiducia.
Tu eserciti anche l’attività di recensore. Penso che possiamo trovarci d’accordo sul fatto che classificare la produzione letteraria in determinate categorie può essere considerato, a volte, controproducente; tuttavia, intravedi qualche elemento che possa accomunare la narrativa italiana contemporanea, in particolare la narrativa degli esordienti?
No. Non c’è un modo meno reciso per dirlo. Certo che ci sono generi, grandi famiglie, temi che vanno per la maggiore e così via, ma sono convinto che tutte queste categorie siano qualcosa di sovraimposto dalle stesse logiche (il mercato, la riconoscibilità, la vendibilità) cui si accennava prima e che con la letteratura non hanno niente a che fare. E infatti ogni tanto arriva una voce non identificata e non assimilabile che sbaraglia tutte queste posizioni ben definite e si impone semplicemente per la sua autenticità. Basterebbe citare l’esempio di Saviano, ma il suo non è l’unico caso. In che tipologia rientrano libri brevi ma folgoranti come quelli di Emanuele Tonon? Oppure l’afflato e l’ardimento de Il demone a Beslan, composto da Andrea Tarabbia, un narratore poco più che trentenne? Da lettore, prima ancora che da recensore, spero sempre che a muovere le critiche non siano schemi e schemini pretracciati sulla base di gabbie ideologiche e categoriali, ma l’autentica curiosità e la passione di chi si aspetta ancora qualcosa dal sogno che chiamiamo letteratura.
Chi, secondo te, svolge oggi la miglior funzione di scouting, di ricerca di nuovi autori: la cosiddetta grande editoria o quella media e piccola?
Non mi sento di dare risposte apodittiche perché non mi considero un esperto. Per quel che posso vedere, c’è la tendenza a demandare alle cosiddette medio-piccole il lavoro di scouting: Tonon pubblica con ISBN, Tarabbia ha esordito con Transeuropa e, tanto per citare un altro debutto notevolissimo di quest’anno, Viola di Grado ha pubblicato Settanta acrilico trenta lana con E/O. Già quindici anni fa d'altronde uno dei nostri massimi narratori, Antonio Moresco, ha potuto esordire grazie a Bollati Boringhieri dopo una lista di rifiuti impressionante. Però anche questa non è una regola assoluta. Saviano, ad esempio, ha trovato spazio nelle Strade Blu di Mondadori. Non mi pare una cosa da poco.
Le riviste letterarie online e i blog letterari hanno da tempo sostituito le classiche riviste letterarie cartacee. Che ne pensi del loro ruolo?
Forse non sono la persona giusta per questa domanda. Faccio parte della redazione di una rivista che sta in rete e nello stesso tempo si ostina a pubblicare su carta e a trovare (faticosamente) un posto in libreria. Non credo quindi che la rete abbia sostituito la carta, anche se in diversi ambiti la può supportare. Non lo credo nemmeno per i libri. La rete è un mondo affascinante in continua, rapidissima evoluzione. Le colonnine dei commenti ai blog che cinque o tre anni fa si snodavano per schermate e schermate, oggi sembrano desolantemente vuote. Gran parte di quel “dibattito” sembra essersi spostato su facebook dove si è trasformato, si è asciugato, riducendosi a commenti molto più sintetici (spesso non più di 4-5 righe). Twitter poi si impone proprio per la brevità dei post. Tra tre anni non è difficile prevedere che ci sarà qualcos’altro. La letteratura esisteva prima di tutto questo e sono convinto (magari con un pizzico di donchisciottismo) che oltrepasserà anche questo snodo.
Pensi che il fatto di doversi confrontare con il digitale, con nuovi strumenti di lettura come gli e-reader possa provocare mutazioni nello stile, nella scrittura?
Onestamente, fatico a immaginarlo. Però, per anagrafe e abitudini (ho con l’e-reader un rapporto meno che episodico) temo davvero di non essere il lettore più adeguato per questa domanda.
Credi che l’ebook possa essere un’opportunità per gli autori e gli editori?
Per ora direi che se l’e-book ha generato delle opportunità, lo ha fatto più per gli editori (penso alla guerra che i colossi americani stanno combattendo per la letteratura in rete) e forse meno per gli autori. So che ci sono scrittori, anche italiani, che producono libri direttamente in formato elettronico ma non mi sembra che per il momento questi testi arrivino davvero ai lettori. Mi danno più l’impressione di tentativi pioneristici, anche se certamente molto meritori.
Un’ultima domanda. Che consigli hai per chi ha il fatidico libro nel cassetto?
Crederci!
1 commento:
interessante. una scelta particolare, quella di esordire con i racconti, che spero venga premiata.
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