giovedì 29 luglio 2010

Banda randagia, di Vincenzo Pardini (Fandango Libri)

Ci sono abissi nelle nostre anime, dai quali ci si può ritrarre solo con raccapriccio. Ci sono lati oscuri nelle nostre menti, che noi stessi rifiutiamo di vedere. E' necessario che qualcuno ci prenda per mano e, con il potere della parola, ci ponga di fronte a tutto quel bagaglio di orrore che alberga nella pieghe della nostra vita quotidiana. Come Virgilio con Dante, così Vincenzo Pardini ci guida in un viaggio inquietante. Ed è un viaggio che, da inquietante, diviene lentamente metafora della nostra vita. C'è un messaggio chiaro in questi racconti, tra queste parole. Tutto si tiene, tutto ha una storia, tutto ci costruisce e ci identifica. Anche gli aspetti dell'orrore bestiale che si nasconde in ognuno di noi. Già Fenoglio ci aveva svezzati, nel suo rendere il mondo contadino con le sue violenze e i suoi orrori, senza indulgere in una falsa e stucchevole agiografia. Così Pardini ci riconsegna un mondo che, foriero di incubi, è tuttavia il nostro. E la constatazione che quello è proprio il nostro mondo, rende ancor più orribili e inquietanti i conti che siamo costretti a fare con noi stessi. Banda randagia è una sorta di baedeker dei nostri tempi. Non ci si sconvolga per quello che Pardini racconta. No. Non ci si sconvolga per niente. Quei paesaggi desolati, decomposti e raccapriccianti, quelle personalità in lento, ma inesorabile, disfacimento, quella carnalità sensuale al servizio soltanto di una soddisfazione egoista, quei desideri di morte che albergano nelle pieghe della mente sono semplicemente i nostri. E sono i nostri in quanto soltanto noi possiamo essere, in ogni istante delle nostre vite, vittime e carnefici, senza nemmeno, forse, rendercene conto. Vincenzo Pardini ci ha guardato e ci ha guardato nel profondo. E di noi restituisce un ritratto. Un ritratto terribile. Terribile nella sua veridicità. Ed è un ritratto delle vite e dei paesaggi incancreniti e fatiscenti sullo sfondo dei quali queste vite si trascinano. Ritratto molto simile ad una ricostruzione che sembra quasi mutuare dalla fantascienza (genere che, paradossalmente, si presta egregiamente ad esprimere le contraddizioni della contemporaneità e che si trasfigura in una vera e propria epifania dei suoi elementi psicotici) i suoi caratteri. A quanti di noi non è mai capitato di sentirsi, nel peregrinare quotidiano tra le follie della nostra società malata, come un viandante che si trova in una landa abitata da alieni? Come un Ian Solo abbandonato in una bettola sperduta della galassia, frequentata da esseri mostruosi? La nostra vita è molto lontana dai toni comunque spensierati della Guida galattica per autostoppisti, di Douglas Adams. Leggendo Banda randagia viene in mente una veritiera frase di James Ballard: "Gli alieni siamo noi". Ma se la fantascienza può venire in soccorso nella comprensione della realtà, se il noir può essere una riserva in cui confinare i nostri deliri, se l'horror può surrogare il nostro bisogno di catarsi, non ci sono strumenti e ausili sufficienti per delimitare il divenire di Banda randagia. Un divenire che ci porta senza sosta a confrontarci con la realtà. Ma è una realtà che sembra perennemente vista attraverso la rifrazione di una lente distorta. Racconto dopo racconto, storia dopo storia tentiamo disperatamente di allontanare quella lente dai nostri occhi. Finché scopriamo, con orrore, ma anche con rassegnazione, che quella lente distorta non esiste. Quella realtà è proprio la nostra realtà. La stiamo vedendo (e vivendo) attraverso i nostri stessi occhi. Non c'è nessuna lente distorta. Questo è il problema.
Un libro.
Banda randagia, di Vincenzo Pardini (Fandango Libri).

mercoledì 28 luglio 2010

Il comandante Heriberto Cienfuegos va alla guerra (Roberto Santachiara intervistato da Loredana Lipperini)

Ci sono momenti nei quali fare il punto della situazione diviene una necessità imperativa. Roberto Santachiara (che il collettivo Wu Ming, dei quali è agente letterario, fa a volte apparire nei suoi racconti con il nom de plume di comandante Heriberto Cienfuegos) rilascia a Loredana Lipperini una delle sue rarissime interviste.
Ci sono momenti nei quali anche fare un passo indietro diviene una necessità altrettanto imperativa. Quando le vendite dell'iPad spopolarono nella nostra beneamata penisola, ci fu chi nel web scrisse (giustamente) che gli italiani facevano la fila per un oggetto destinato alla lettura di ebook, neanche fossero un popolo di accaniti lettori, mentre sappiamo tutti quanto la lettura non si trovi propriamente in cima agli interessi nazionali. Non voglio entrare nel merito delle affermazioni di Roberto Santachiara. Non voglio entrare nel merito di una discussione che da mesi sul web prepara all'avvento dell'ebook, visto come una necessità imprescindibile. Non voglio rispondere a chi pronuncia la famosa battuta del libro che contribuirebbe a distruggere foreste (perché invece la rottamazione di un iPad o un Kindle, con plastica e componenti vari, dovrebbe essere un toccasana ecologico, mi sfugge completamente). Ma come suol dirsi, il difetto sta nel manico. Invitando tutti a leggere l'intervista di Loredana Lipperini, riporto questa risposta di Roberto Santachiara che, a mio modesto avviso, non solo non necessita di commenti, ma svela il punctum dolens di tutta la questione:


Diffida degli ebook?
“No. Ma bisogna ancora capire molte cose, soprattutto per quel che riguarda l’Italia. Siamo un paese di pochi lettori, e quei pochi sono lettori forti che hanno come caratteristica la passione per l’oggetto libro. Ammetto di non saper prevedere il futuro. Ma per quanto riguarda il presente abbiamo un problema, e grave, di diffusione della lettura”.

Credo che la vera questione stia tutta qui. E, ça va sans dire, buona lettura!

martedì 27 luglio 2010

Questuanti digitali

Negli anni Sessanta fecero una domanda a Roland Barthes: "Perché si scrive?". Barthes non si limitò a dare una risposta, ma compilò un vero e proprio decalogo. Quel decalogo l’ho letto tutto, ma un punto mi è rimasto impresso: il punto quattro. E di quel punto mi sono rimasti impressi due elementi.
Ecco, secondo Barthes si scrive: “Per essere amati, per essere constatati.” L'attività dello scrivere, quindi, viene esercitata come un mezzo che utilizziamo per dare un senso al nostro bisogno di essere presi in considerazione dal nostro prossimo. Tutto ciò, tuttavia, prendendo ad esempio un'azione, per così dire, organizzata come quella che porta alla creazione di un'opera strutturata come può essere un racconto o un romanzo.
Ma è il web 2.0 che democratizza ed estende quasi parossisticamente la produzione della scrittura. Produzione nella quale possiamo includere sia l'attività classica dello scrittore che mantiene un suo spazio sul web, sia quella di chiunque apre un suo spazio con lo strumento del blog o con quello proposto dai vari social network. Ma il fine ultimo, registrato da Barthes nel suo decalogo, non cambia. Ognuno di noi scrive sul web con le modalità più varie: l'articolo, il racconto, la citazione, l'haiku, la frase più o meno breve o la battuta di spirito. Ma lo facciamo sempre ricercando l'approvazione degli altri o, per lo meno, la loro constatazione. Constatazione che ha trovato nel commento, nel like, nel retweet le sue più formidabili armi. E quindi ognuno di noi sul web, ogni giorno, si esprime ed esprimendosi ricerca l'approvazione altrui (l'amore e la constatazione barthesiane). Ogni giorno facciamo la nostra questua. Siamo diventati tutti dei questuanti digitali.

lunedì 26 luglio 2010

Shake!

Chi di noi (di noi intendendo quelli che hanno sempre avuto e hanno tuttora la follia di passare da un classico a un comics, da un noir a un testo sull'alfabeto aramaico), insomma chi di noi, viaggiatori senza meta e senza bussola che percorrono gli scaffali di ogni libreria, non ha mai avuto a che fare con i libri della Shake Edizioni? Dalla body art estrema, a Burroughs, alla storia degli Hell's Angels negli anni ci siamo imbattuti spesso in queste opere che hanno saturato spesso la nostra fame di underground.
Mi comunicano la notizia della ristampa di questi tre classici, che divulgo con grande piacere


Pantere Nere
Storia e mito del Black Panther party

"Accetto di essere considerato un fuorilegge, perché per cambiare le leggi devi metterti al di fuori della legge. Se fai così e la gente è con te, allora diventerai un eroe; se non lo è, allora diventerai un criminale. Accetto di essere considerato un deviante. Ho deviato dal rimanere docile. Questo governo ha distrutto il movimento, ha distrutto il fervore rivoluzionario della comunità... Ma sto aspettando che sorgano nuovi movimenti. I movimenti rivoluzionari arrivano a ondate e, se mi guardo intorno, vedo movimenti crescere dentro la comunità. Ora sono nel loro stadio infantile, ma io credo nella capacità del tempo di rimarginare tutte le ferite." (Huey P.Newton)
Organizzazione politica o gang criminale? Terroristi o militanti politici di base? Paradossalmente è possibile leggere la storia delle Pantere Nere in un modo o nell'altro, modificando la prospettiva con cui si guarda alle fonti: i rapporti di polizia o la letteratura del Black Panther Party, i giornali conservatori o la controinformazione. Nate nel 1966, l'anno del "black power", le Pantere Nere divennero in pochi anni la più famosa organizzazione rivoluzionaria degli afroamericani negli Usa. Passando da una microformazione di Oakland, in California, a un'organizzazione con diramazioni internazionali, le Pantere furono consacrate come avanguardia dal movimento di opposizione bianco e considerate una minaccia da estirpare a qualunque costo dalle istituzioni. Tutto in loro sembrava eccessivo: armati, troppo giovani, troppo arroganti, troppo determinati, troppo "visibili". Le Pantere hanno catturato l'immaginazione delle diverse generazioni ribelli di tutto il mondo, dagli anni Sessanta fino ai rapper dei nostri giorni. Il Black Panter Party è stato cancellato dalla repressione na non rimosso dalla coscienza critica degli afroamericani. E il vuoto che essi hanno cercato di riempire senza fortuna rimane tuttora aperto.
Contiene documenti originali delle Pantere nere, stralci dai documenti segreti dell'Fbi, una cronologia completa, una bibliografia esaustiva e centinaia di fotografie.

Il libro sull'organizzazione politica che più ha acceso l'immaginazione di varie generazioni di giovani rivoluzionari e ribelli: il Partito delle Pantere nere.
                                                                                                                                                                              
L’AUTORE:
Paolo Bertella Farnetti, americanista e ricercatore universitario, lavora al dipartimento di Economia politica dell'università di Modena dove attualmente insegna Storia dei partiti e dei movimenti politici. Ha scritto e collaborato con "Primo Maggio" e "il manifesto".

King Suckerman
Il capolavoro del grande giallista Pelecanos, autore di riferimento di Quentin Tarantino.

“Per tutti gli appassionati di thriller, Pelecanos è un autore da non perdere.” Michael Connelly

King Suckerman è un libro hardboiled, un vero e proprio inno al cinema blaxploitation, alla musica funky e soul, al basket e in generale alla cultura pop urbana degli anni settanta, oltre che un’indagine psicologica sul senso dell’onore, sul coraggio e l’amicizia.
Dietro le movenze del noir metropolitano teso e violento ritroviamo un’analisi spietata e senza compromessi sulle tensioni e le contraddizioni razziali che percorrono le strade della capitale americana. Perché Pelecanos ha fatto per Washington ciò che Raymond Chandler ha fatto per Los Angeles e Chester Himes per Harlem. E proprio la descrizione realistica e impietosa della vita nelle periferie della capitale americana (tanto da essere, Pelecanos, “lo Zola di Washington”) è il nucleo essenziale di King Suckerman.
King Suckerman (i cui diritti cinematografici sono stati acquistati dal rapper Sean Combs, "Puff Daddy") fa parte del cosiddetto “Washington D.C. Quartet”, assieme a Una dolce eternità, una serie di romanzi che ha imposto George Pelecanos come uno dei più importanti autori di noir dell’America di oggi.
                                                                                                                                                                              
L’AUTORE:
George P. Pelecanos, figlio di immigrati greci, è nato a Washington D.C. nel 1957. Ha pubblicato quindici gialli ambientati nell’area di Washington che gli sono valsi il premio Raymond Chandler in Italia, il Grand Prix Du Roman Noir in Francia e il premio della Maltese Falcon Society in Giappone. Scrive per New York Times, Washington Post, GQ e numerose altre pubblicazioni. Ha inoltre diretto la Circle Films, una società indipendente di Washington nota per aver prodotto i primi tre film dei fratelli Coen e per aver fatto conoscere al pubblico statunitense il regista John Woo. Recentemente si è dedicato alla sceneggiatura televisiva, con la serie The Wire e la miniserie The Pacific, prodotta da Tom Hanks e Steven Spielberg. Già noto al pubblico italiano per Una dolce eternità (Il Giallo Mondadori, 2000), Vendetta (Piemme, 2001), Angeli neri (Piemme, 2002), Strade di sangue (Piemme, 2004), Il circo delle anime (Piemme, 2005), Fuoco nero (Piemme, 2006), Il giardiniere notturno (Piemme 2007), Il guardiano del buio (Piemme, 2009).

Kraftwerk 
Io ero un robot
Mito assoluto della musica elettronica, fin dagli anni settanta i Kraftwerk riscuotono un incredibile successo commerciale, come testimoniano hit quali The Robot o Trans Europe Express.
Questo gruppo tedesco ha compiuto una vera e propria rivoluzione musicale, diventando un punto di riferimento fondamentale della scena elettronica mondiale.

Primo libro in Italia sui Kraftwerk, amatissimi da un vasto pubblico e imitati da generazioni di musicisti, I Was a Robot di Wolfgang Flür, storico membro del gruppo, ricostruisce dall’interno le vicende, musicali ma anche private, dei Kraftwerk e viene oggi riproposto da Shake.
Un testo avvincente, arricchito da un ampio repertorio di immagini, indispensabile per comprendere una delle esperienze fondamentali della musica contemporanea.
                                                                                                                                                                              
L’AUTORE:
Wolfgang Flür, membro dei Kraftwerk fin dalle origini, è uscito dal gruppo nel 1997, dando vita all’esperienza Yamo. Dopo essere stato pubblicato in Germania, I Was a Robot è stato tradotto con successo in diversi paesi.

venerdì 23 luglio 2010

Notizie dalla post-realtà-Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero, a cura di Vito Santoro (Quodlibet)

E' sempre encomiabile il tentativo (difficile se non impossibile) di procedere ad una compilazione tassonomica della produzione letteraria contemporanea. Tante, troppe sono le variabili. Quodlibet ci prova con questo saggio, appena uscito in libreria. Riporto il testo del comunicato stampa, con la consapevolezza della difficoltà di fermare un presente che, come tutte le contemporaneità, subirà il severo giudizio del futuro.


I sei saggi raccolti in questo volume intendono disegnare uno spaccato delle tendenze narrative più significative degli anni Zero. Anni caratterizzati dall’indubbio primato del romanzo realista tradizionale, visto dagli scrittori come lo strumento più efficace per narrare il proprio tempo e forse anche per recuperare una funzione civile ormai smarrita. Tuttavia quello attuale è un contesto in cui la realtà, anche a causa della onnipervasiva presenza dei mass media, si è trasformata – per dirla con Walter Siti – in una «post-realtà», cioè in una realtà intermedia in cui la rappresentazione ha sostituito le cose, riducendo la vita a simulacro. Per questa ragione il racconto dell’oggi non può che coincidere con il racconto di un io, innalzato al ruolo di testimone e/o interprete di fatti veri o fittiziamente veri. Oppure esso viene filtrato attraverso la riscoperta di un passato riattualizzato in una chiave tendenzialmente “politica”: da qui la scelta del romanzo cosiddetto neostorico, fondato su una rivisitazione problematica del nesso passato-presente.
Lungo questi binari si muove la ricerca di autori, come, solo per citarne alcuni, Franco Cordelli, Giuseppe Genna, Raffaele Nigro, Antonio Scurati, Ugo Riccarelli, Elena Ferrante, Giosuè Calaciura, Gaetano Savatteri, i quali si sono rivelati capaci di riaffermare, anche a costo di uno spietato e crudele 
autodafé, le ragioni della letteratura, sottraendola a quella dimensione dientertainment ed infotainment di massa, cui l’ha relegata l’industria culturale.

Sommario: Vito Santoro, 
Privato è pubblico. (Dis)avventure dell’Io nella narrativa italiana degli anni Zero – Domenico Mezzina, Memoria, epica, inesperienza. Il romanzo storico negli anni Zero – Antonella Agostino, La «frantumaglia» dell’identità femminile. Il romance di Elena Ferrante – Francesca Giglio, Il Duca di Mantova di Franco Cordelli. Realtà finzionale vs finzione di realtà – Marco Marsigliano, «Morire sognando». Ugo Riccarelli e la forza analgesica della parola – Vito Santoro, «Scrivere di cose» in Sicilia: la narrativa di Giosuè Calaciura e di Gaetano Savatteri.

giovedì 22 luglio 2010

Massimo Roccaforte presenta NdA Press

NdA (Nuova distribuzione Associati) nasce a Milano nell'estate del 1999 su iniziativa di Massimo Roccaforte. La prima distribuzione "specializzata" in editoria di qualità, l'unica realtà organizzata sul territorio nazionale dedicata principalmente a librai indipendenti, centri sociali, associazioni e gruppi di base. Nel 2000 NdA ha trasferito la sua sede centrale a Rimini. Nel 2002 ha lanciato il progetto Interno 4, ovvero piccole/medie librerie specializzate nei centri storici delle città italiane, nella certezza che un'offerta chiara e selezionata, gestita con "entusiasmo e intelligenza", possa essere un buon investimento politico-culturale e, perché no, commerciale. Da subito le librerie Interno 4, pur sviluppando una loro reciproca ma diversa identità, hanno occupato uno spazio di tutto rilievo nelle attività politico-culturali delle rispettive città, perché ai libri hanno affiancato una grossa attività culturale che spazia su tutti i campi della creazione artistica in genere. 
Dal 2003 NdA è casa editrice con il marchio NdA Press,   
Dal 2007 NdA è anche distributore nazionale per tutto il mercato editoriale,
con la distribuzione in esclusiva di alcuni editori nelle maggiori librerie
nazionali.
Dal 2007 NdA promuove la nascita della label discografica Interno 4 Records.
Fanno parte del gruppo NdA anche i marchi editoriali ShaKe Edizioni, XL Edizioni e La Biblioteca del Cigno, quest'ultimo gestito in collaborazione con Legambiente.
Presentazione di NdA Press e delle sue collane. Interviene Massimo Roccaforte.
Venerdì 23 luglio 2010 - ore 18,30 
Libreria Popolare di via Tadino 
Via Tadino, 18
Milano

mercoledì 21 luglio 2010

Leggere fa male


Nella cornice di Bocca di Magra che negli anni cinquanta diventò luogo di ritrovo estivo di intellettuali e scrittori come Giovanni Pintori, Giulio Einaudi, Marguerite Duras, Franco Fortini, Elio Vittorini, Vittorio Sereni ed Italo Calvino, Alessandro Zannoni ripropone l’appuntamento con la letteratura indipendente anche grazie all’ingresso nell’organizzazione di Pietro Torrigiani che ospiterà autori e relatori al Castello di Fosdinovo, seguendo la linea dell’ospitalità all’arte e agli artisti che contraddistingue la sua associazione culturale (www.castelloinmovimento.it).
La grande novità degli incontri di quest’anno è il connubio Rete/Scrittori: saranno infatti i responsabili dei blog letterari italiani più seguiti a presentare gli autori, garantendo quindi un’importante visibilità, almeno in rete, ad una manifestazione che gioca tutto sulla qualità dei romanzi di autori outsider invece che su scrittori di facile richiamo.
Tre serate, dal 21 al 23 luglio, da trascorrere al porticciolo alla foce del fiume Magra, con gli autori e i loro libri, focaccia e vino e la musica blues di Andrea Giannoni e Gas Gastardelli nell’intervallo tra un autore e l’altro, e, per chi vuole, una cena a prezzo speciale con i protagonisti delle serate.
Nell’intervallo della serata di giovedì 22 luglio ci sarà uno shooting fotografico per tutti i partecipanti alla rassegna, pubblico e autori, ad opera di Daniele Barraco, fotografo emergente di livello nazionale.
Questo il programma:

Mercoledì 21
Rosario Palazzolo Concetto al buio/PerdisaPop presentato da Massimo Maugeri www.blog.letteratitudine.kataweb.it
Luigi Romolo Carrino Pozzoromolo/Meridiano Zero presentato da Giampaolo Serino www.satisfiction.menstyle.it 

Giovedì 22 
Luigi Bernardi in “Assolo sull’editoria” dibatterà con Francesco Forlani www.nazioneindiana.com 
Sacha Naspini I cariolanti/Elliot presentato da Luigi Bernardi

Venerdì 23
Enrico Pandiani Les italiens/Instarlibri presentato da Enzo Carcella www.corpifreddi.it 
Barbara Baraldi Lullaby/Castelvecchi presentata da Alessandra Buccheri www.angolonero.blogosfere.it 

martedì 20 luglio 2010

intervistato da whohub.com

Sono stato contattato su twitter per un'intervista.
D'accordo, le domande sono uguali per tutti, però credo che quello che conta siano le risposte. Ma whohub.com è interessante per altri motivi. Chiunque può iscriversi e, trovando il campo dei propri interessi, trovare le relative domande alle quali rispondere. E' la socializzazione del quarto d'ora warholiano. E' la carta dell'impero borghesiana. E' il "volevo una missione, ho avuto una missione" del capitano Willard, in Apocalypse now. Tutti, prima o poi, saremo intervistati. Affascinante.
Questo è il link dell'intervista: http://www.whohub.com/angelo1
Naturalmente ringrazio whohub.com e invito tutti a visitare questo interessante sito.


Come hai iniziato a scrivere? Chi ti leggeva all'inizio?
A 14 anni lessi "Il clandestino", di Mario Tobino. Ne rimasi talmente affascinato che dissi a me stesso: "Voglio fare lo scrittore". Poi presi un quaderno e lo riempii con un bellissimo romanzo. Era il riassunto (fatto anche male) de "Il clandestino", di Mario Tobino. Per fortuna non mi leggeva nessuno!
Qual è il tuo genere preferito? Alcuni link dove possiamo vedere o leggere qualcosa di una tua opera recente?
Non ho un genere preferito. Sono un lettore onnivoro e uno scrittore sincretico. Mi piace leggere e raccontare storie di confine, di ibridazione, di inquietudine. Un link? Eccolo:http://www.mannieditori.it/index_x.asp?contenuto=dettaglio (...)
Com'è il tuo processo creativo? Che cosa succede prima di sederti a scrivere?
Tutto! Prima di sedermi a scrivere la storia deve già essere tutta completa nella mia testa. La scrittura successiva è solo un'opera di aggiustamento.
Che tipo di lettura ti attiva la voglia di scrivere?
I classici. Quelli del romanzo "borghese" dell'Otto-Novecento. Le idee, la struttura sono tutte lì. Ed è leggendoli che, appunto, mi si attiva la voglia di scrivere.
A tuo parere, quali sono gli ingredienti basilari di una storia?
Un dialogo credibile e serrato è l'ingrediente basilare di una storia. Di ogni storia.
In che panni ti senti meglio: prima persona o terza?
Dipende dalla storia e dai personaggi. Mi piace moltissimo, comunque, far convivere nella stessa storia sia la prima che la terza persona.
Che scrittori famosi ammiri di più?
Dostoevskij, Maupassant, Hemingway, Fenoglio, DeLillo, Gordimer, Dürrenmatt, Böll, ma l'elenco potrebbe essere (ed è) molto più lungo.
Cosa rende un personaggio credibile? Come crei i tuoi?
Tre cose: il dialogo, il dialogo, il dialogo. E i miei li creo appunto facendoli dialogare.
Sei altrettanto bravo raccontando storie oralmente?
Non lo so. Sono tuttavia un pessimo raccontatore di barzellette.
Nel più profondo delle tue motivazioni, per chi scrivi?
Per chi mi legge.
Si può scrivere come terapia personale? I conflitti interni sono una forza creativa?
Un deciso sì a tutte e due le domande.
Ti serve il feed-back dei lettori?
Direi di sì. Come ad ogni scrittore, d'altra parte.
Ti presenti a concorsi? Hai ricevuto premi?
Forse una o due volte. Mai entrato nemmeno tra i finalisti.
Mostri i tuoi bozzetti a qualcuno di fiducia per avere la sua opinione?
Mai!!!
Credi ti aver già trovato la "tua voce" o è qualcosa che cercherai eternamente?
Dopo tanti anni l'ho trovata. Ma, come tutte le cose, è in perenne mutazione.
Ti imponi una disciplina per organizzare orari, mete, ecc? Quale?
Nessuna disciplina. Scrivo quando posso, quando voglio, quando mi gira.
Di cosa ti circondi nel tuo studio di lavoro per favorire la tua concentrazione?
Non scrivo in nessuno studio. Mi annoierebbe a morte.
Scrivi allo schermo, stampi con frequenza, correggi nel foglio….? Com'è il tuo processo?
Scrivo con un pc. Non stampo mai se non alla fine. Correggo ogni tanto. Più che altro vado avanti, poi mi fermo, poi vado ancora avanti, poi mi fermo ancora, ecc. ecc.
Che pagine on-line frequenti per condividere esperienze o informazioni?
Quelle classiche che fanno riferimento alla letteratura e allo scrivere, blog di altri autori, blog collettivi, cose così. Ma non troppo però.
Com'è stata la tua esperienza con case editrici?
Credo buona, con tutti gli alti e i bassi che immagino siano comuni a tutti gli scrittori.
In che progetto stai lavorando ora?
Sono estremamente scaramantico! Ne parlerò quando vedrà la luce.
Cosa mi consigli di fare con tutti quei testi che continuo a scrivere da anni e che però non ho mai mostrato a nessuno?
Di cominciare a mostrarli. Non c'è altra soluzione.

sabato 17 luglio 2010

28 fumetti inediti contro il riscaldamento globale


In questi giorni di caldo afoso e insopportabile e di anticiclone africano, credo sia necessario dare una risposta con la forza della cultura. Riporto una iniziativa che mi è stata appena segnalata. Si tratta di Global Warming (NdA Press), 28 fumetti inediti contro il riscaldamento globale.
Ottavo appuntamento con l'annuale antologia del fumetto indipendente italiano curata da Claudio Calia e Emiliano Rabuiti nell'ambito del progetto Sherwood Comix, costola "a fumetti" dello Sherwood Festival, il più grande evento musicale del Veneto organizzato dalla più longeva radio libera italiana, Radio Sherwood. Questa volta l'antologia è arricchita dall'entrata in redazione del collettivo che cura la rivista bolognese autoprodotta Burp! Deliri Grafico Intestinali.
Una antologia a fumetti dal taglio ambientalista, dopo il vertice di Copenhagen che si è concluso in un nulla di fatto e vista la sempre più alta centralità del tema in un paese che vorrebbe tornare al nucleare e privatizza l'acqua mentre il mondo guarda e investe sulle energie alternative.
Ma "Global Warming" non è solo questo: crisi economica, guerre, paranoia securitaria, razzismo e respingimenti, sono tutti elementi di un riscaldamento della tensione globale sulla superficie del pianeta su cui gli autori di questo volume hanno voluto esprimere con le loro storie e i loro disegni un contributo a fumetti.

28 fumetti inediti di: Andrea Antonazzo, Mauro Balloni, Armin Barducci, Ap, Daria Gatti, Sara Bartoletti, Thomas Bires, Brochendors, SocioComix, Toni Bruno, Valerio Camposeo, Andrea Medda, Manuel De Carli, Tommaso Di Lauro, Cisco Sardano, Paolo Di Orazio, Massimo Semerano, Jacopo Frej, Nicola Gobbi, Otto Gabos, Laca, Alessandro Lise, Alberto Talami, Francesco Matteuzzi, Niccolò Storai, Christian Mirra, Stefano Misesti, Giorgio Rebuffi, Davide Reviati, Gianluca Romano, Emanuele Rosso, Giulia Sagramola, Cristina Spanò, Joe Tondelli, Ryan Lovelock, Luca Vanzella, Luca Genovese, Luana Vergari, Teodora Gales, ZeroCalcare.
Da acquistare subito! Prima che sia troppo tardi!

La twitterizzazione dei pensieri e lo Slow Reading

I nostri cammini sulle vie del web duepuntozero sono destinati, a volte, a fare incontri casuali che poi si rivelano fondamentali. Succede di imbattersi nell'account twitter di Nessun Dorma. E di trovare un suo link che rimanda ad un post del blog di Giorgio Dell'Arti. Il titolo ha tutti i crismi della provocazione: Ribellarsi a twitter e leggere con lentezza.
Sarà che il fondatore e l'anima del movimento Vivere con lentezza mi pare sia originario della città in riva al Ticino. Sarà che la città in riva al Ticino è quella dove mi sono laureato. Sarà che, tutto sommato, a me la lentezza piace. Sarà che da sempre sono un seguace di Carlìn Petrini e di Slow Food. Insomma lo Slow Reading mi trova anche d'accordo. Massì, basta con libri di cento o centocinquanta pagine. Riscopriamo la lettura di pesanti tomi e leggiamoli lentamente.
Ma come tutte le connessioni, anche questa non è priva di fascino. Un post contro la twitterizzazione trova su twitter il luogo d'elezione per essere diffuso.
E allora io mi terrei twitter e mi terrei anche lo Slow Reading e continuerò a leggere sia libri di cento pagine che tomi che di pagine ne hanno mille. E farei una bandiera di quella citazione con la quale il post di Dell'Arti si conclude: "Alcuni libri vanno assaggiati, altri inghiottiti, pochi masticati e digeriti".
Buona lettura (lenta) e buona digestione (possibilmente veloce).

giovedì 15 luglio 2010

Intervista a Vincenzo Pardini

Quando parli con Vincenzo Pardini, ti rendi subito conto che hai di fronte un uomo che ha compiuto un lungo e profondo viaggio nella vita in compagnia della parola. E questo viaggio, difficile e a volte pericoloso, lo ha percorso e lo percorre unendo coraggio, poesia e razionalità. Tra le sue moltissime opere cito Il falco d'oro, Il racconto della luna, Jodo Cartamigli (tutte e tre con Mondadori). Con Tra uomini e lupi (peQuod) ha vinto il Premio Viareggio-Répaci. Per il cinema ha scritto il soggetto Metronotte, interpretato da Diego Abatantuono. E' appena uscita la raccolta di racconti Banda Randagia (Fandango).
Ha vinto, con il coautore Marino Magliani, la VI edizione del Premio Letterario Tracce di Territorio, con l'opera Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo (Transeuropa).


Vincenzo, ci siamo parlati alcune volte e, da quei colloqui, mi è parso di capire che sei un grande osservatore della realtà. Realtà che osservi con forte angoscia. Un’angoscia però propositiva, polemica, quasi da ribelle. La parola, il racconto, il romanzo, insomma il narrare, sono per te armi da difesa o da attacco? Difesa da questa realtà o di attacco contro di essa?
Sono entrambe le cose, come nella vita. Ci si difende e si attacca a seconda delle circostanze. Ci sono situazioni che mi angosciano molto. Come quando si ha a che fare con le leggi, con le regole. Le trovo sempre ambigue, mai dirette. Un po’delle trappole. Racconti e romanzi che scrivo ricalcano anche questa realtà, che ho conosciuto nella mia lunga esperienza di guardia notturna preposta ai servizi di notte, e di collaboratore pubblicista di giornali.

La tua scrittura non è certamente una scrittura tranquilla. Si capisce che non cerchi la tranquillità, ma il confronto. Il confronto anche aspro, con i tuoi personaggi, con il loro mondo, con le loro vicende. Mi pare che tu sia alla costante ricerca di un senso epico, un senso epico nascosto fra le pieghe del quotidiano. C’è un epopea del quotidiano? Esiste un eroismo nella banalità di tutti i giorni?
Sì, esiste un eroismo quotidiano. A cominciare da quello della sopportazione degli imbecilli, sempre più numerosi e agguerriti in ogni settore. Perfino quando facciamo la fila alle poste o in altro luogo, c’è sempre il furbo di turno, o quando viaggiamo sulla strada, coi cretini che non rispettano il codice, spesso per esibizionismo. Allora penso alla giornata di Diomede. Solo, i troiani attaccavano le navi, Achille e gli altri disertavano e lui ne organizza la difesa, in maniera ragionata, silenziosa, artigianale. Diomede è un eroe che dobbiamo rivalutare. Vive nel nostro quotidiano.

Quando scrivi hai il coraggio di non tralasciare nulla. I tuoi personaggi sono descritti nella loro totalità. Una totalità fatta di spirito, ma fatta anche (e soprattutto) di carne. Anche le atmosfere che si respirano nelle tue storie sono piene di carnalità, di concretezza. I corpi dei tuoi personaggi si “sentono”. Si “sentono” i loro affanni, le loro gioie, le loro meschinità. Questa carnalità la intendi come un peso, una condanna o una liberazione?
La carnalità è sempre una condanna: è il carcere dello spirito. Gli antichi dicevano che lo spirito, una volta libero dalla carne, diviene molto più acuto e intelligente. Può vedere le cose, credo, col dovuto distacco. Racconto i personaggi raccogliendoli tra la folla, tra le persone. Dagli atteggiamenti, dalle parole colgo, o credo di cogliere, le loro sfumature interiori. Quando scrissi Il racconto della Luna andai a “caccia” di immagini di donna un’estate intera. La composi nella mente pezzo per pezzo, come fanno i pittori. Ci avevo lavorato così tanto che me la sognavo, la vedevo, la baciavo. Non mi è più accaduto. Ho amato un fantasma alla follia.

Ti sei trovato d’accordo con me nel dire che oggi si vive tutti come se fossimo colpiti da una nevrosi di guerra in tempo di pace. Che può fare lo scrittore?
La deve raccontare,  perchè raccontandola la rivela, la esorcizza, togliendole la carica negativa che ha. Si vive in un’epoca di grande tentazione in tutti i sensi. Paolo VI, un papa intellettuale, che pesava molto le parole, negli anni Settanta disse una cosa che si è poi rivelata profetica, ma nessuno o pochi, nemmeno tra prelati, se ne sono accorti: il pericolo dell’umanità viene da Satana. Di recente, padre Gabriele Amorth, ha detto che Satana ha la residenza in Vaticano, e che lo sa anche l’attuale  Papa. Si può e si deve esorcizzare il male convivendoci e ricorrendo alla preghiera quotidiana, un dialogo con L’Invisibile.

Veniamo a Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo. Un libro particolare, dalla struttura complessa e originale. Come è nato?
E’ nato perché Marino Magliani, scrittore molto attento e sensibile che sa fare anche il critico, mi chiese un testo sulla mia terra, su richiesta di Giulio Milani di Transeuropa, un giovane editore alla ricerca di cose nuove. Allora mi sono ricordato della mia  terra di origine, dei suoi abitanti, di me che la frequentavo e la osservavo sin da adolescente con dentro un senso di smarrimento. Quel momdo stava cambiando, sarebbe venuta la strada carrozzabile, i veterinari sostituivano i tori da monta con l’inseminazione artificiale. Ho voluto che quel mondo non scomparisse del tutto, ne ho raccolto le punte estreme, le ho mescolate dentro un cappello, le ho estratte e raccontante.

Da ciò che scrivi si comprende che la tua terra ha, per te, un’importanza fondamentale. Che rapporto hai con le tue radici, come uomo e come narratore?
Non saprei dirlo che rapporto ho con la mia terra. E’ molto cambiata. Scomparse le mulattiere, cadenti le vecchie case e capanne. Cadente anche la mia casa, il tetto avallato, i muri scrostati, le tavole dei pavimenti tarlate. Ci vado via via, accendo il fuoco, stiamo insieme. Mi sembra che qualcuno mi parli, dica cose. I fantasmi non tradiscono mai. Bisogna non averne paura. Se ne offenderebbero.

Vincenzo, nel ringraziarti, ti faccio un’ultima domanda che credo sia importante per chiunque scriva. Quali sono i libri, gli scrittori che ti hanno influenzato o coi quali senti una comunanza di intenti, di idee, di stile?
Ne ho letti molti. Piccolo, quando andavo alle elementari, avevo dentro una strana mania: avrei voluto impossessarmi di quanto vedevo: un raggio di sole, il volto di una persona, il suono di una campana. Ma non sapevo come fare. Ne soffrivo. Finchè la maestra non mi lesse Pinocchio di Collodi e Il piccolo alpino di Salvatore Gotta. Mi sentii un altro. Capii la forza della parola che cattura l’immagine, il sentimento. Ma ci volle del tempo perché potessi impossessarmi dello strumento, che fu quasi pronto dopo i sedici anni. Nel frattempo avevo letto Moravia, Landolfi, Pasolini, Siciliano, Parise, Ottieni, Pavese, Fenoglio, Pratolini, Bilenchi, Fucini, Prezzolini, Malaparte, Tobino, Pea. Insomma, mi aggiravo nel Novecento. Ragazzo, lessi Salgari, Dumas e altri. Ma li leggevo non solo per le loro storie, ma per capire il meccanismo, la tecnica della narrazione e migliorarmi. Tutti mi hanno dato qualcosa. Ma non li ho mai derubati. La forza dei racconti e dei romanzi l’avevo dentro, ma era come un torrente senza alveo. Dovevo farglielo. E la parole erano strumenti, come il picco e la pala. La ruspa non mi interessava. Ero e sono rimasto artigiano. E ho fatto mia una regola che mi suggerirono Felice Del Beccaro, Cesare Garboli ed Enzo Siciliano: di rimanere scrittore, di non venire un letterato.


mercoledì 14 luglio 2010

StroOokk (Uno spettro si aggira per la rete)

Sarà perché il comandante Heriberto Cienfuegos sta dalle mie parti. Può darsi. I luoghi sono importanti e creano comunanze inconsce e inconoscibili alle stesse persone che li abitano. Heriberto Cienfuegos è il nom de plume che il collettivo Wu Ming usa quando riferisce di Roberto Santachiara, il loro agente letterario.
Creatori di movimenti e narrazioni, abilissimi nella gestione della (apparente) dicotomia digitale/cartaceo, infusori di storie e traslatori di tempi storici, partecipano giorni fa e danno vita ad un dibattito che nasce dal blog di Loredana Lipperini.
Come nella miglior tradizione orale (o nelle migliori leggende metropolitane), dove la palla di neve si trasforma in valanga o dove un battito d'ali di farfalla in Europa provoca un tifone in Malesia, ne nasce un corpo a corpo che comincia a vivere di vita propria.
"Ho visto cose che voi umani...", ça va sans dire. E siccome anch'io "...ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser..." vi rendo partecipi di questo dibattito/oggetto narrativo.
Il tutto si trova ed è scaricabile da Carmilla on line. Buona visione, direbbe Enrico Ghezzi. Io mi limito a dirvi, good Dangerous Visions, e semmai andiamo a rileggerci tutti Harlan Ellison.

lunedì 12 luglio 2010

Intervista a Claudio Morandini

Claudio Morandini è nato nel 1960 ad Aosta, dove vive e insegna. In passato ha scritto cicli di commedie per la radio e monologhi per il teatro. Prima di “Rapsodia su un solo tema – Colloqui con Rafail Dvoinikov” (Manni, 2010) ha pubblicato i romanzi “Nora e le ombre” e “Le larve”. Il suo racconto “Le dita fredde” è stato incluso nell’antologia bilingue “Santi – Lives of Modern Saints” edita a Baltimora (Black Arrow Press, 2007). “Fosca – Una novella valdostana” si trova nell’antologia “Nero Piemonte e Valle d’Aosta – Geografie del mistero” appena pubblicato da Perrone. Altri racconti sono apparsi su varie riviste.

Claudio, affrontiamo subito il tuo Rapsodia su un solo tema. È un romanzo che si stacca nettamente da molta letteratura contemporanea. Quanto c’è di passione letteraria e quanto, permettimi, di provocazione?
Non avevo l’intenzione di provocare, ti assicuro, e nemmeno di contrappormi polemicamente alle mode correnti. Volevo soprattutto condividere una passione personale (per la musica, in particolare per il mondo musicale del Novecento) che negli anni si è nutrita di ascolti e letture, raccontandola attraverso le vicende di alcuni personaggi. Volevo misurarmi con il racconto della musica. Poi, certo, volevo prendere alcune distanze: da certe atmosfere dei romanzi precedenti, da alcuni cliché con cui anch’io avevo giocato e che oggi dilagano.
Ho corso (consapevolmente) qualche rischio, in questo: la musica colta del Novecento non attrae folle isteriche di fan; la struttura del romanzo, che fin dalla copertina finge di essere un saggio, o almeno una raccolta di pagine anche saggistiche, invita il lettore a stare al gioco in un modo che oggi non è più praticato;
nel mondo interiore e nelle vicende dei personaggi si entra un po’ alla volta, e ci vuole un po’ di pazienza, lo so. Ma (e questo è un grosso ma) credo di avere lasciato al romanzo una certa leggerezza, di averlo colorato di ironia sorridente; e assicuro di non avere calcato troppo la mano con la componente analitica della musica.
Ripeto, la mia non era un’operazione snobistica, o élitaria, e sono felice che un editore come Manni lo abbia capito e abbia voluto credere in Rapsodia.

Mi pare che tu sia riuscito, con grande maestria, a creare un vero a proprio mondo parallelo. Tuttavia, non è per nulla un mondo algido e artefatto, bensì un mondo che ci lancia come un atto di accusa. E questo atto di accusa è che l’umanità non apprezza l’Arte, il Bello, ma anzi fa di tutto per eliminarli o ammaestrarli. Secondo te, l’amore, la passione, direi anche la dedizione per l’arte possono essere ancore di salvezza o sono solo illusioni?
Dedizione per l’arte, dici bene. Nel mio romanzo la composizione della musica viene raccontata proprio così, come un esercizio paziente, un lavorare costante sul proprio stile, un confronto continuo con la tradizione alla ricerca di una propria voce nuova. In un’arte concepita così, come lavoro umile ma consapevole (da artigiano, da orafo), vedo una possibile salvezza al degrado e l’imbarbarimento dei nostri tempi. Forse Rapsodia su un solo tema vuole suggerire anche questo: esiste un mondo di bellezze, di suoni, di parole e di colori che pochi conoscono, ma che appunto esiste, e può restituire gratificazioni ed emozioni in abbondanza, può insegnare una tensione alla libertà oltre che un’attenzione alle regole (a quelle che noi stessi ci siamo dati), e ci aiuta a scavare dentro di noi e dà voce a ciò che siamo e non sappiamo di essere.
Il libro racconta dei condizionamenti che la musica può subire da diverse forme di potere. Ma racconta soprattutto di come la musica (e l’arte in genere) possa sfuggire a questi condizionamenti, possa depistare i censori, persuadere i committenti (senza committenza, o senza un pubblico, l’arte muore), forzare le direttive, o almeno, accettato qualche compromesso, possa rimanere fedele a se stessa.  
Quanto all’oggi, all’Italia di oggi intendo, assisto con preoccupazione all’indifferenza generalizzata, alla diffusa sordità all’arte, frutto di un lavoro pluridecennale di diseducazione. Alla grandezza perturbante e non ingabbiabile dell’arte i grandi mezzi di informazione hanno sostituito prodottini edulcorati, rassicuranti, divertenti, di facile consumo, kitsch, magari dotati di un carattere subdolamente celebrativo. Rapsodia racconta anche di questa forzatura, anche se riferendosi a periodi e contesti diversi.
Al potere, paradossalmente, sembra più pericoloso il lavoro paziente dell’artista che esercita un suo magistero che unisce libertà e disciplina, e insegna a dominare il caos attraverso l’esercizio del controllo – piuttosto che il gesto dell’artista invasato, del vate ispirato, che si può sempre far passare per un innocuo picchiatello.

Una storia, quella che narri in Rapsodia su un solo tema, che non è ambientata in Italia. È una scelta programmatica o semplicemente funzionale alla struttura del romanzo?
Nei precedenti romanzi ero rimasto in Italia, un Italia di pianura, non geograficamente o topograficamente definita, di cui si riconoscevano dei tratti nei paesaggi, nei cognomi, che so, in certi aspetti (preferisco alludere che nominare).
Nel caso di Rapsodia, invece, la scelta rispondeva a una sorta di criterio geometrico: il giovane compositore statunitense, da una parte; dall’altra, il vecchio compositore russo; insomma due generazioni, due mondi, con due percorsi storici diversi, intenti a guardarsi e a cercare di capirsi. In effetti avrei potuto trovare esempi di artisti piegati dalla censura e dall’autoritarismo ovunque nel mondo; ma per varie ragioni ho rinunciato ad altre ambientazioni e ho trovato esemplare, paradigmatico il confronto Prescott-Dvoinikov. Se per esempio avessi provato a immaginare un Dvoinikov italiano (sul modello, che so, di Alfredo Casella) non mi sarebbe venuto altrettanto bene. Sarebbe mancato il dramma potente di chi prima ha vissuto la stagione eccitante della rivoluzione anche artistica del suo paese, poi la lunga e cupa fase del ripiegamento e dell’oppressione; e il tutto avrebbe finito per avere un colore da commedia, se non da farsa, che non mi interessava.

Dentro a questo romanzo c’è molto. Ma anche dietro a questo romanzo c’è molto. Non è certo un libro improvvisato. Come è stata la tua preparazione operativa e organizzativa, per arrivare alla sua stesura definitiva? Quali sono state le fonti, letterarie e non, che hai utilizzato o che ti hanno ispirato?
Le fonti sono tante, e in questi mesi mi sto divertendo a enumerarle nel mio blog, come ho fatto per i romanzi precedenti. In fondo ogni cosa che scriviamo si nutre di ciò che abbiamo letto, oltre che di ciò che abbiamo vissuto. I libri ci aiutano a trovare le parole giuste, il tono giusto – e anche il giusto distacco.
Il modello iniziale sono state le Conversazioni di Robert Craft con Igor Stravinsky: da quell’antica lettura (nell’edizione Einaudi del 1977) ho preso l’idea della forma dialogica, del confronto tra vecchio e giovane. Ma in generale il modello di Stravinsky (la sua filosofia della musica, i suoi scritti, l’imprevedibilità delle sue svolte stilistiche) ha dato un contributo fortissimo, anche se il vecchio Dvoinikov non gli assomiglia per nulla, quanto a carattere e percorso di vita. Poi Luciano Berio: musica, scritti, e il ricordo (poi rinfrescato grazie alle repliche notturne) del suo ciclo di trasmissioni C’è musica e musica. Poi La musica Moderna, una collana di LP della Fabbri dei tardi anni sessanta che mi ha permesso di entrare in confidenza con molti autori. Poi, che so, i vecchi film di Ken Russell, che anni fa mi erano sembrati l’unico modo per raccontare la vita dei musicisti senza impantanarsi nell’agiografia. Le vecchie foto sgranate dei tre volumi dell’enciclopedia De Agostini sulla Rivoluzione russa, curata negli anni sessanta da Enzo Biagi. E ancora: la puntata dei Muppet’s con Liberace, i balletti di Khachaturian, le lettere di Shostakovich (e la sua musica, d’accordo), le conversazioni con un amico compositore come Alessio Elia… E poi la mia piccola storia di pianista distratto e mancato, i miei amori (e le mie idiosincrasie) di amateur della musica…
Dai modelli più illustri di letteratura dedicata alla musica, invece, sono stato alla larga, per non scimmiottarli e correre il rischio di schiantarmi. Il Mann del Doctor Faustus, Proust… letture antiche, sedimentatesi da qualche parte nella memoria, che non ho voluto rinfrescare per sentirmi più libero.

Claudio, tu abiti ad Aosta. Com’è l’Italia letteraria vista da lassù? Come senti, da scrittore, il rapporto con la tua terra?
In Valle d’Aosta conosco diverse persone piene di talento, curiose e ansiose di misurarsi ad un livello più ampio, al di là dei confini regionali.  Ma la cultura ufficiale che si respira qui, a parte le dovute eccezioni, è per lo più autoreferenziale, giocata sull’esaltazione di un localismo che a me pare di maniera.
A supplire in parte a questo isolamento c’è quella rete di contatti che si crea e si alimenta negli anni attraverso le amicizie, internet, i colleghi di penna…
La domanda che mi fanno spesso da queste parti è: come mai non scrivi mai di Aosta, o della Valle d’Aosta? Perché non ci sono le montagne in ciò che scrivi? Qualcuno me lo rimprovera pure, come se si dovesse per forza scrivere del posto in cui si è nati. Ed è vero, ambiento le mie storie in pianura, o in giro per il mondo, e forse già questo è un modo di parlare, non parlandone, di Aosta e del mio rapporto con essa.
Però, in fondo, la cittadina dal provincialismo bacchettone e opprimente che ho raccontato in Nora e le ombre era una specie di Aosta scivolata in mezzo alla pianura padana. E il racconto Fosca, che compare in Nero Piemonte e Valle d’Aosta, butta all’aria con una certa perfidia tutta una serie di luoghi comuni arcadici delle mie parti…

Quali sono gli autori e/o i libri ai quali sei più legato, che ti hanno influenzato di più, coi quali senti una comunanza di idee o di stili o, semplicemente, che più ti piacciono?
I miei autori di sempre: Palazzeschi, Landolfi, Tozzi. Ma in Rapsodia non si sentono. Manganelli, Savinio, corretti con Calvino. Pavese, Fenoglio, la Romano. Poi piccoli culti personali, come Arturo Loria. Tra i viventi, Mari, la Matteucci, Carla Vasio.
Dei recentissimi, mi piace la lucida crudeltà di Stéphanie Hochet. Ma gli amici scrittori che ammiro e a cui mi sento legato da una sintonia profonda sono tanti, e non posso enumerarli qui tutti.
Quanto agli autori tra le cui pagine ho cercato una “russità” che mi aiutasse a trovare il tono giusto nelle parti più legate al mondo di Dvoinikov, citerei Bulgakov.
Tra gli americani mi hanno sempre affascinato Updike per il realismo dello sguardo e Vonnegut per il montaggio. E Seinfeld (le sue sit-com, soprattutto le prime stagioni, hanno nutrito l’immaginario del mio Prescott).

domenica 11 luglio 2010

Umberto Eco e la smagnetizzazione del supporto

Ancora oggi, sintonizzato su radiotre. Sabato pomeridiano di strade afose e auto inabitabili. Ancora una volta, nel rumore bianco della radio, lentamente affiora la voce di Umberto Eco. Ancora una volta si affronta con urgenza lo stesso problema. La ridondanza di informazioni sulla rete rende impossibile trovare un punto fermo di analisi condivisibile. Eccesso di informazioni equivale a nessuna informazione. Inoltre i supporti digitali tendono inevitabilmente a divenire obsoleti. O, peggio, tendono a perdere i loro contenuti, a causa di infortuni tecnici come la smagnetizzazione. Ancora una volta l'incubo di Asimov. La perdita della memoria di sé e quindi la perdita del sé. Nel Ciclo della Fondazione l'umanità perde la memoria della propria origine dal pianeta Terra, proprio a causa della obsolescenza dei supporti sui quali è conservata la propria storia. Ciclopiche colonne ripiene di informazioni digitali, altro non sanno che rimandare, agli esploratori, che un'infinita trasmissione di effetto neve, cioè di una eterna assenza di segnale. Sempre Eco: "La carta dura cinquecento anni, il papiro addirittura duemila. Sono elementi che almeno ci fanno capire qualcosa sulla reale durata della trasmissione del nostro sapere. Chi lo sa quanto resisterà un cd o una chiavetta usb prima di smagnetizzarsi e di perdere definitivamente tutti i dati?"
Non aggiungo altro. Non c'è niente da aggiungere.

sabato 10 luglio 2010

La traslazione dei tempi (Wu Ming e la rivoluzione francese)

Succede, nella ridondanza a volte senza senso del rumore bianco del web, di incontrare metafore che nascono dall'esigenza di dare un significato ai tempi. Capita di imbattersi in coincidenze che, apparentemente fortuite, altro non sono se non l'esigenza condivisa di dare un senso a ciò che viviamo.
La storia immobile e la storia eroica. Dicotomia sempre presente e tuttavia risolta in chi crede, a ragione, che l'una, in realtà, non possa fare a meno dell'altra. E la classicità accademica, apparentemente statica, trova nuovi e interessanti sviluppi nel movimento continuo del web.
Succede di imbattersi nell'account Twitter dei Wu Ming. E succede di discutere con loro di oscurità sempre presenti nella nostra storia contemporanea. E succede di condividere il fondamento ultimo che i tempi (i nostri tempi) possano, e anzi debbano, trovare un loro significante in quel divenire vichiano che ci fa comprendere come il nostro fine ultimo sia quello di essere condannati ad una coazione a ripetere di eterni errori. Eterni errori che forse non sono altro che una caratteristica, anzi la caratteristica fondante, dell'umanità.
Wu Ming spiega. Spiega il presente con il passato. Perché quest'ultimo è il luogo d'elezione di quella coazione che riproduce nel presente la sua orribile eternità. Perché è la traslazione dei tempi a riportarci dal passato al presente e viceversa.
Nasce quindi l'esigenza di una nuova espressione narrativa, di un nuovo romanzo. Rivoluzione francese, forse. Da seguire qui, gli ulteriori sviluppi di questi indizi.

mercoledì 7 luglio 2010

Rapsodia su un solo tema, di Claudio Morandini (Manni)

Possono un romanzo, una storia, rappresentare un universo? Leggendo questo romanzo la risposta non può che essere una sola: sì. Può un romanziere essere un costruttore di vite, di eventi, di mondi? Anche in questo caso la risposta non può che essere la stessa: sì. Come Borges, Claudio Morandini non si limita a raccontare, non si ferma a descrivere. Claudio Morandini costruisce un vero e proprio mondo, un vero e proprio universo che prende vita dalla parola. Il linguaggio sorvegliato, i differenti piani di lettura, la stessa alternanza degli strumenti espressivi (il diario, il verbale di interrogatorio, il dialogo) hanno la funzione di dilatare il tempo, in una autentica lezione di tecnica del romanzo. C'è molto dentro a questo libro, ma c'è molto anche dietro a questo libro. Non voglio assumere concetti altrui, ma mi pare che a Rapsodia su un solo tema bene si attagli la definizione di oggetto narrativo. Questo non è solo un romanzo. E' uno strumento di comprensione e di rappresentazione di un ben più ampio discorso. Un discorso sulla libertà dell'arte, sulla libertà dell'uomo, un discorso forse anche sulla sopraffazione. Su quella sopraffazione che è sempre presente nelle nostre vite e che solo l'arte può sconfiggere. La libertà dell'arte. Ecco il fine ultimo di questa storia. Una libertà che può essere la via di salvezza per ogni essere umano che abbia la volontà di seguirla. Una libertà e una salvezza che nemmeno la morte può riuscire a sconfiggere. 
Konrad Lorenz, ne Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, osservava, negli anni Settanta, come vi fosse una fortissima similitudine tra gli striscioni della propaganda di regime nei paesi del blocco sovietico e i cartelloni pubblicitari e le insegne luminose dei paesi capitalisti. Le due cose, a prescindere dalle differenze ideologiche, erano elementi comuni di un medesimo indottrinamento.
Claudio Morandini ha fatto sua questa lezione. E la rappresenta magistralmente, attraverso un fortissimo filtro narrativo. 
Questo è un libro che spiazza. Che spiazza noi, lettori e scrittori, abituati ad una narrativa che, a volte, si appiattisce su se stessa e che cerca soltanto di creare una serie di effetti pirotecnici, per affascinare i lettori. Dimenticandosi poi completamente dei contenuti.
Rapsodia su un solo tema è uno dei rari romanzi italiani che potrebbe benissimo essere tradotto per i lettori di qualsiasi paese europeo. Credo si debba ringraziare Claudio Morandini per averlo scritto e Manni per averlo pubblicato.
Un libro.
Rapsodia su un solo tema, di Claudio Morandini (Manni).

lunedì 5 luglio 2010

Un mio racconto pubblicato da websitehorror

Un mio racconto è stato pubblicato da websitehorror, il sito curato da Marco Candida.
Insomma, se volete sapere qualcosa di insolito sul sapore del ferro, cliccate qui.
E buona lettura.

sabato 3 luglio 2010

Viandante, se giungi a Cremona...(La Libreria Ponchielli)

Viandante, se giungi a Cremona, non importa se per un motivo gioioso o triste, ti perderai tranquillamente nelle vie del centro; sarai preso dalle botteghe dei mastri liutai, che stanno a mezza via tra la passione e la tecnica; camminerai per le strade che respirano ancora il medioevo; guarderai la gente passare; ammirerai il duomo e il battistero; farai tutto quello che una città che ha ancora un'anima, ti costringe (a fin di bene, naturalmente) a fare.
E poi, viandante, se giungi a Cremona, troverai una vetrinetta. Una vetrinetta con a fianco una porticina. E, varcata questa porticina, non troverai chilometri di freddi scaffali; non troverai commessi indaffarati; non troverai banconi per confondere lettura e happy hour; non troverai nulla di tutto questo. Troverai invece un paio di stanzette piccole, circondate da scaffali strapieni; troverai una gentile libraia che parla di libri perché sono i libri che parlano con lei; troverai una cosa curiosa; troverai che non devi cercare i libri, perché in quelle due stanzette piccole, saranno i libri a trovare te.
Libreria Ponchielli, Piazza S.A.M. Zaccaria 10, Cremona.