Definire Marino Magliani uno scrittore del territorio è sicuramente riduttivo. Certo, lui stesso dice di avere quasi sempre scritto della sua terra, la Liguria. Ma le implicazioni della sua narrazione sono così profonde da trasfigurare il palcoscenico delle sue storie in un vero e proprio luogo dell'anima. Ha pubblicato, fra gli altri, per Sironi, Longanesi, Eumeswil. Il suo ultimo romanzo è Colonia Alpina Ferranti Aporti Nava, pubblicato per i tipi di Senzapatria Editore. Con Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo (Transeuropa), scritto con Vincenzo Pardini, ha vinto la VI edizione del Premio Letterario Nazionale Tracce di Territorio.
Ogni narrazione non può prescindere dal tempo. Non può prescindere dal fare i conti con quella linea che porta le nostre vite da un punto ad un altro e che le tiene, forse, prigioniere. Nel tuo narrare cerchi sempre di fare i conti con lo scorrere del tempo, con quella linea che plasma le nostre vite. Nel tentativo, quasi, di domarla. La tua è una battaglia o una vera e propria guerra? E ne esci sconfitto o vincitore?
Sono per natura un perdedor, mi piace ripetermelo. Al momento del crollo, forse, ti fai meno male.
Fuggire da qualche cosa, da qualcuno, da qualche luogo è un pensiero o, forse, un desiderio che abbiamo tutti. E questo fuggire da qualche cosa, altro non è se non un tentativo di fuggire da se stessi. Ma la fuga, a volte, presuppone un ritorno. Alcuni dei tuoi personaggi fuggono da qualche cosa ma rimangono poi come sospesi, in un’attesa che unisce delusione e compiacimento. C’è forse la volontà di perseguire la fuga come fine a se stessa o c’è un luogo dove troveremo ciò che cerchiamo?
La fuga è un disconoscersi creativo. Amo dire che sono fuggito da casa da bambino, un po’ troppo presto, un vizio. Non fuggiamo tutti. La gente che conosco di solito resta. Fuggo perché sono anche un vigliacco. Rimanere al mio posto significherebbe ammettere troppe cose. Quanto al tornare, si comincia a farlo dal momento in cui si parte.
La banalità del nostro quotidiano può essere squarciata dall’imprevisto. E questo imprevisto è tanto più inquietante, nella misura in cui è nascosto, quasi mimetizzato, tra le pieghe della nostra vita. Allora, da una piccola abrasione, nasce un abisso di orrore, tanto più terribile quanto più inconoscibile. Spesso, nelle tue storie, vai in cerca di queste piccole abrasioni per poi narrare, direi quasi, lo sbigottimento, la solitudine di fronte ad un destino indecifrabile. Forse questo orrore che nasce dal quotidiano è una sorta di condanna? Una sorta di pena alla quale dobbiamo soggiacere?
Certo. Quest’angoscia che ci accompagna, questa sbarra che percuote le catene, fa parte di noi. Le catene siamo noi, forse.
E veniamo ai luoghi, alla terra, alle case, alle chiese, alle pietre. La tua scrittura è legata alla tua terra. Lo proclami tu stesso. La tua è una Liguria di rocce, di salite, di muretti, di luci che improvvisamente illuminano zone buie per poi altrettanto improvvisamente spegnersi. Quanto conta, per chi scrive, la propria terra? Esiste un punto d’equilibrio fra l’amore e l’odio che si possono provare per le proprie radici?
Il paesaggio come compensazione, diceva Biamonti. A me, che lo abbandono, potrei aggiungere, come restituzione. Credo di sì. Anche il territorio è quella catena. Le mie radici sono nella terra spinosa e pietrosa, nell’aria azzurra degli ulivi, sempre troppo minerali.
Un confine e una frontiera, distingue Giorgio Bertone. Qualcosa che pulsa e non sai dove sia, ma anche qualcosa che all’improvviso è dentro o fuori.
La mia frontiera, quella ligure, è piuttosto quella che sta tra entroterra e riviera, e mi riporta ai giorni faticosi in cui disertavo i pomeriggi di lavoro in campagna per fare il ligure di scoglio, il Marino “marino”, ecco, quello al mare, della risata. La ferita era in quello sguardo di mio padre. Era necessaria. Era lì che perdevo già.
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