giovedì 15 luglio 2010

Intervista a Vincenzo Pardini

Quando parli con Vincenzo Pardini, ti rendi subito conto che hai di fronte un uomo che ha compiuto un lungo e profondo viaggio nella vita in compagnia della parola. E questo viaggio, difficile e a volte pericoloso, lo ha percorso e lo percorre unendo coraggio, poesia e razionalità. Tra le sue moltissime opere cito Il falco d'oro, Il racconto della luna, Jodo Cartamigli (tutte e tre con Mondadori). Con Tra uomini e lupi (peQuod) ha vinto il Premio Viareggio-Répaci. Per il cinema ha scritto il soggetto Metronotte, interpretato da Diego Abatantuono. E' appena uscita la raccolta di racconti Banda Randagia (Fandango).
Ha vinto, con il coautore Marino Magliani, la VI edizione del Premio Letterario Tracce di Territorio, con l'opera Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo (Transeuropa).


Vincenzo, ci siamo parlati alcune volte e, da quei colloqui, mi è parso di capire che sei un grande osservatore della realtà. Realtà che osservi con forte angoscia. Un’angoscia però propositiva, polemica, quasi da ribelle. La parola, il racconto, il romanzo, insomma il narrare, sono per te armi da difesa o da attacco? Difesa da questa realtà o di attacco contro di essa?
Sono entrambe le cose, come nella vita. Ci si difende e si attacca a seconda delle circostanze. Ci sono situazioni che mi angosciano molto. Come quando si ha a che fare con le leggi, con le regole. Le trovo sempre ambigue, mai dirette. Un po’delle trappole. Racconti e romanzi che scrivo ricalcano anche questa realtà, che ho conosciuto nella mia lunga esperienza di guardia notturna preposta ai servizi di notte, e di collaboratore pubblicista di giornali.

La tua scrittura non è certamente una scrittura tranquilla. Si capisce che non cerchi la tranquillità, ma il confronto. Il confronto anche aspro, con i tuoi personaggi, con il loro mondo, con le loro vicende. Mi pare che tu sia alla costante ricerca di un senso epico, un senso epico nascosto fra le pieghe del quotidiano. C’è un epopea del quotidiano? Esiste un eroismo nella banalità di tutti i giorni?
Sì, esiste un eroismo quotidiano. A cominciare da quello della sopportazione degli imbecilli, sempre più numerosi e agguerriti in ogni settore. Perfino quando facciamo la fila alle poste o in altro luogo, c’è sempre il furbo di turno, o quando viaggiamo sulla strada, coi cretini che non rispettano il codice, spesso per esibizionismo. Allora penso alla giornata di Diomede. Solo, i troiani attaccavano le navi, Achille e gli altri disertavano e lui ne organizza la difesa, in maniera ragionata, silenziosa, artigianale. Diomede è un eroe che dobbiamo rivalutare. Vive nel nostro quotidiano.

Quando scrivi hai il coraggio di non tralasciare nulla. I tuoi personaggi sono descritti nella loro totalità. Una totalità fatta di spirito, ma fatta anche (e soprattutto) di carne. Anche le atmosfere che si respirano nelle tue storie sono piene di carnalità, di concretezza. I corpi dei tuoi personaggi si “sentono”. Si “sentono” i loro affanni, le loro gioie, le loro meschinità. Questa carnalità la intendi come un peso, una condanna o una liberazione?
La carnalità è sempre una condanna: è il carcere dello spirito. Gli antichi dicevano che lo spirito, una volta libero dalla carne, diviene molto più acuto e intelligente. Può vedere le cose, credo, col dovuto distacco. Racconto i personaggi raccogliendoli tra la folla, tra le persone. Dagli atteggiamenti, dalle parole colgo, o credo di cogliere, le loro sfumature interiori. Quando scrissi Il racconto della Luna andai a “caccia” di immagini di donna un’estate intera. La composi nella mente pezzo per pezzo, come fanno i pittori. Ci avevo lavorato così tanto che me la sognavo, la vedevo, la baciavo. Non mi è più accaduto. Ho amato un fantasma alla follia.

Ti sei trovato d’accordo con me nel dire che oggi si vive tutti come se fossimo colpiti da una nevrosi di guerra in tempo di pace. Che può fare lo scrittore?
La deve raccontare,  perchè raccontandola la rivela, la esorcizza, togliendole la carica negativa che ha. Si vive in un’epoca di grande tentazione in tutti i sensi. Paolo VI, un papa intellettuale, che pesava molto le parole, negli anni Settanta disse una cosa che si è poi rivelata profetica, ma nessuno o pochi, nemmeno tra prelati, se ne sono accorti: il pericolo dell’umanità viene da Satana. Di recente, padre Gabriele Amorth, ha detto che Satana ha la residenza in Vaticano, e che lo sa anche l’attuale  Papa. Si può e si deve esorcizzare il male convivendoci e ricorrendo alla preghiera quotidiana, un dialogo con L’Invisibile.

Veniamo a Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo. Un libro particolare, dalla struttura complessa e originale. Come è nato?
E’ nato perché Marino Magliani, scrittore molto attento e sensibile che sa fare anche il critico, mi chiese un testo sulla mia terra, su richiesta di Giulio Milani di Transeuropa, un giovane editore alla ricerca di cose nuove. Allora mi sono ricordato della mia  terra di origine, dei suoi abitanti, di me che la frequentavo e la osservavo sin da adolescente con dentro un senso di smarrimento. Quel momdo stava cambiando, sarebbe venuta la strada carrozzabile, i veterinari sostituivano i tori da monta con l’inseminazione artificiale. Ho voluto che quel mondo non scomparisse del tutto, ne ho raccolto le punte estreme, le ho mescolate dentro un cappello, le ho estratte e raccontante.

Da ciò che scrivi si comprende che la tua terra ha, per te, un’importanza fondamentale. Che rapporto hai con le tue radici, come uomo e come narratore?
Non saprei dirlo che rapporto ho con la mia terra. E’ molto cambiata. Scomparse le mulattiere, cadenti le vecchie case e capanne. Cadente anche la mia casa, il tetto avallato, i muri scrostati, le tavole dei pavimenti tarlate. Ci vado via via, accendo il fuoco, stiamo insieme. Mi sembra che qualcuno mi parli, dica cose. I fantasmi non tradiscono mai. Bisogna non averne paura. Se ne offenderebbero.

Vincenzo, nel ringraziarti, ti faccio un’ultima domanda che credo sia importante per chiunque scriva. Quali sono i libri, gli scrittori che ti hanno influenzato o coi quali senti una comunanza di intenti, di idee, di stile?
Ne ho letti molti. Piccolo, quando andavo alle elementari, avevo dentro una strana mania: avrei voluto impossessarmi di quanto vedevo: un raggio di sole, il volto di una persona, il suono di una campana. Ma non sapevo come fare. Ne soffrivo. Finchè la maestra non mi lesse Pinocchio di Collodi e Il piccolo alpino di Salvatore Gotta. Mi sentii un altro. Capii la forza della parola che cattura l’immagine, il sentimento. Ma ci volle del tempo perché potessi impossessarmi dello strumento, che fu quasi pronto dopo i sedici anni. Nel frattempo avevo letto Moravia, Landolfi, Pasolini, Siciliano, Parise, Ottieni, Pavese, Fenoglio, Pratolini, Bilenchi, Fucini, Prezzolini, Malaparte, Tobino, Pea. Insomma, mi aggiravo nel Novecento. Ragazzo, lessi Salgari, Dumas e altri. Ma li leggevo non solo per le loro storie, ma per capire il meccanismo, la tecnica della narrazione e migliorarmi. Tutti mi hanno dato qualcosa. Ma non li ho mai derubati. La forza dei racconti e dei romanzi l’avevo dentro, ma era come un torrente senza alveo. Dovevo farglielo. E la parole erano strumenti, come il picco e la pala. La ruspa non mi interessava. Ero e sono rimasto artigiano. E ho fatto mia una regola che mi suggerirono Felice Del Beccaro, Cesare Garboli ed Enzo Siciliano: di rimanere scrittore, di non venire un letterato.


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