domenica 20 maggio 2018

Di che cosa dovrei scrivere

A volte mi domando se un'unità carbonio come me, che ha pubblicato qualche libro per grazia ricevuta di un editore coraggioso, dovrebbe continuare a scrivere. Non ho avuto un'infanzia infelice, ne ho avuta una normalissima. Mia madre non faceva la puttana e mio padre non era uno spacciatore. Ho avuto un'adolescenza come tutti, credo, non me ne ricordo più. Sono stato soltanto un figlio che ha pianto con dolore la morte dei suoi genitori e che ha sofferto come un cane di fronte alle malattie dei suoi cari. Sono stato, nel ricordo a volte onirico, un figlio come non ne vorrei mai uno come me. Ho commesso, forse come tutti, errori di cui pago ancora le penali e con gli interessi. Ho avuto compagni di elementari e medie che si sono persi nel nulla del nulla della mia terra e, quando andai al liceo di una cittadina senza storia, mi parve di essere arrivato, tanto giungevo dal niente territoriale, a Oxford. Ho frequentato l'università nel silenzio e nella solitudine e ho superato abilitazioni professionali tragicomiche nella loro follia. Vivo, mio malgrado forse, dove sono nato, un paese, una cascina quasi, che perde almeno un centinaio di anime a biennio sino a superare, in discesa, la quota simbolica dei mille abitanti. Sto a trenta chilometri da tutto, dalla Voghera iriense alla Vigevano senz'anima alla Pavia deforme. Se pronuncio il nome della terra in cui sono incardinato, la Lomellina, nessuno sa cosa significhi, tanto meno le pagine culturali della provincialissima gazzetta La Provincia Pavese, che, a ogni mia mail di indefessa richiesta di attenzione letteraria, adduce gentili affermazioni di ritardi improbabili, di antivirus eliminatori di ogni mia missiva digitale, di affermazioni che le mie cose verranno pubblicate dopo Natale, Pasqua, Ferragosto, mentre costantemente leggo sulle sue pagine la presenza di continui personaggi scrittoriali e provinciali che hanno la precedenza giornalistica su chi, come me, forse non esiste. Di cosa dovrei scrivere? De Lillo ha, alle sue spalle, la scena narrativa di New York e di un'America che è patrimonio narrativo condiviso dall'immaginario collettivo, Giuseppe Genna scrive di una Milano angosciosa e agghiacciante che è paradigma della mutazione genetica dell'Italia come, tuttavia, non può essere la mia terra, comunista filosovietica fin dal dal 1946 prima e leghista dal 1992 poi, una terra di risaie in cui si semina ormai, da parte di coltivatori diretti eredi dei più tronfi latifondisti anteguerra, non il Carnaroli bensì  il riso della multinazionale chimica Basf. William T. Vollmann decritta il passato degli States e il futuro dell'Europa, anche lui però proveniendo da plaghe territoriali che, pur se referenti a luoghi misconosciuti del Midwest, fanno gola ai pescecani delle agenzie letterarie statunitensi. Antonio Moresco urla il suo orrore da una Milano che, comunque, ha una sua dignità narrativa resettata da agenzie letterarie ambrosiano internazionali e altri ancora narrano di contrattempi temporali alla Roberto Arlt, supportati dall'ubiquo Vanni Santoni e da interviste al Farheneit della immarcescibile Lipperini, senza contare la comunità di scrittori dagli ideogrammi mandarini che si rifanno a una scena bolognese che non esiste più. Di cosa dovrei scrivere allora e, soprattutto, perché dovrei scriverne quando le poche allitterazioni della mia terra sono patrimonio di editori genovesi che non si rendono conto che, ciò che pubblicano, altro non è se non la stentorea ridefinizione di saggi già pubblicati dall'alessandrino e monferrino Gianpaolo Pansa? Partecipo, obbedendo come un Garibaldi steampunk, a operazioni narrative di guerrilla marketing promosse dal mio editore, scrivo indefessamente saggi e recensioni sulla sua rivista di letteratura, compongo recensioni di romanzi che case editrici di rilevanza forse non più intravista mi inviano e, ogni volta, mi chiedo il perché di tanta narrazione estesa e sacrificale quando, osservando da vicino il Punto Omega della mia scrittura, mi rendo conto che a suo supporto non c'è nemmeno stata una qualsivoglia guerra d'indipendenza gaelica svolta tra le plaghe barbariche di qualche isola nordica narrata da un amanuense rinchiuso in un'abbazia posta ai confini della galassia.

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