Se le teorie di Marshall McLuhan e di Vance Packard sulla manipolazione dei media potessero avere una rilettura in chiave narrativa questa non potrebbe che essere rappresentata da questo bellissimo romanzo di Richard Stern, una inquietante precognizione dai risvolti sottotraccia sottilmente phildickiani e vonneguttiani, una profezia letteraria che, scritta sul finire degli anni Cinquanta e pubblicata nel 1960, anticipa di venticinque anni le Confessions of a dangerous mind di Chuck Barris.
In una New York anni Cinquanta, dalle patinate ambientazioni che sembrano evadere silenziose da un romanzo di Truman Capote illustrato dalle tele di Edward Hopper, singolarità umane, segnate da nomadiche nevrosi e riservate asocialità, vengono lentamente assemblate da un calvo e istrionico demiurgo che le arpiona una ad una trasfigurandole dal ruolo passivo di vittima a quello di carnefice in una simulazione televisiva la cui essenza è quella di burlare gli inconsapevoli protagonisti e di mandarne poi in onda, previa firma della relativa liberatoria, lo sbalordimento e la ridicole posture. Coinvolte nella struttura di produzione di questo format televisivo le poche ex vittime prescelte dal demiurgo, e per suo mezzo cooptate nella ristretta cerchia dei coautori, lentamente assistono alla invasione delle proprie vite, delle proprie anime, del proprio assetto mentale da parte di una macchina scenica innovativa a tal punto da riuscire a trasformare le quotidiane meschinità degli esseri umani in seducente e attrattiva narrazione per il popolo degli spettatori televisivi.
È una escalation di sfide quella che il demiurgo pone sia al management della rete televisiva, sia a se stesso. Il suo nom de plume, Golk, diviene metonimicamente il nome stesso delle scene girate, delle burle che ne sono essenza, del programma, dei membri del cast (i Golk) mentre l'eco si espande esponenzialmente attraverso la contrazione del linguaggio giornalistico, il rimbalzo dei media, le chiacchiere da bar, sino alla sua consacrazione fonetica e simbolica di nuovo slogan: "È un Golk!"
Da apprendista stregone, tuttavia con la angosciante consapevolezza di esserlo, Golk alza sempre di più il tiro della sua creazione teorizzandone gli stadi successivi, numericamente definiti in progressione da conto alla rovescia da guerra nucleare, con appunti scritti su un grande quaderno, tenendo discorsi ai suoi collaboratori come un filosofo della Grecia classica avrebbe fatto sotto un portico di Atene, adombrando mimiche facciali da dittatore bonario. Le dinamiche interne del gruppo sempre di più appaiono quelle di una delle tante sette californiane che popolano le subculture pop degli anni postbellici americani, totalizzando l'amicizia, la complicità, il sesso.
Golk ben sa che nell'universo tutto ha una fine e porta la trasmissione alla sua definitiva e mortale trasformazione da goliardata di strada a inchiesta sulla corruzione politica, coinvolgendo funzionari, senatori, industriali, gole profonde, informatori e doppiogiochisti. È la fine.
In una sorta di cupio dissolvi in cui non è più possibile comprendere chi sia il corrotto e chi invece il corruttore, Golk, il Golk e i Golk precipitano dal ruolo di carnefici a quello di vittime sacrificali.
Ma come in tutte le migliori visioni postmoderne, di cui a buon titolo Richard Stern potrebbe esserne con questo romanzo considerato una sorta di precursore, non tutto si dissolve. Golk scompare nel nulla, ma per anni decine saranno le segnalazioni di sue fuggevoli apparizioni in ogni angolo degli States. Come un messia mediatico Golk vive nella e della sua scomparsa. Chi dice di averlo intravisto non lo descrive mai sofferente o angosciato, ma dal sorriso beffardo di chi sa che tutto è stato, è e sempre sarà solo e soltanto un Golk.
Un libro.
Golk, di Richard Stern (Calabuig).
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