Sul papiro istoriato di una mappa compilata da scribi misteriosi assisi ai limiti estremi del mondo conosciuto, redatta con inchiostri millenari che segnano i confini di imperi crollati e sepolti sotto immensità desertiche che segnano il passare di un tempo che ha definitivamente ingoiato la storia, c'è una traccia che indica il luogo in cui si erge una mastaba o ziqqurat o compound o fortezza, struttura architettonica sepolta, segreta, inconoscibile, accarezzata da entità posticce che indossano i costumi di una guerra combattuta nei luoghi in cui l'alba del terzo millennio ha fatto risorgere conflitti sanguinanti e sanguinosi segretamente incistati nell'alveo di un medioevo mai finito, sorvegliata da figure archetipe di scherani armati al servizio di oligarchie dalla mimesi astuta segnata da vessilli postideologici e da sopraffazioni armate di denaro e fucili mitragliatori. Luogo in cui la summa della creazione letteraria, pittorica, filosofica, teologica, scientifica, architettonica giunge alla sua definizione finale per mezzo della reiterazione di simboli, di segni, di immagini che tutto vogliono riassumere nel tentativo titanico di far coincidere l'infinitamente grande con l'infinitamente piccolo. Interni in cui vite nuovayorkesi, cristallizzate nell'istante eterno della produzione della ricchezza, si specchiano e si confrontano nella spietata ricerca di quella reciproca affidabilità genetica e culturale da cui si genera la massima gradazione del potere, segnale di riconoscimento eterno delle élites che da sempre hanno il comando dell'umanità, affinché il destino dell'autorità possa essere condiviso nel presente per poi poter essere trasmesso nel futuro, un futuro che genera se stesso nel luogo oltrecaucasico in cui le migrazioni dei popoli hanno avuto inizio e in cui hanno avuto fine le ideologie del secolo breve. Figure spogliate di ogni orpello si muovono essenziali interpretando i ruoli perpetui che dall'alba della migrazione indoeuropea sempre ricorrono nella tripartizione iranica: sacerdoti, guerrieri, produttori. Uomini e donne abbandonano lentamente le maschere sociali e le parti imposte dalla coabitazione degli esseri senzienti che formano la collettività umana, per poter giungere, guidati da un potere che è nuovo nella misura in cui ha riunito in sé tutti i poteri del mondo, alla conoscenza di quell'attimo in cui la vita e la morte si uniscono in un uroborico anello di Moebius che è al contempo fine e principio, definizione del tutto e del nulla. Una nuova mistica appare in quell'orizzonte astrale degli eventi che delimita il punto e il momento in cui la nascita dell'universo produce la sua autoriflessa consapevolezza, una mistica che fonde gli arcaismi del cervello rettiliano e la protesizzazione del corpo operata dai devices digitali. Zero K è l'agghiacciante palcoscenico sul quale va in scena la narrazione di questa trasmigrazione genetica e culturale, è l'inquietante papiro sul quale un Don DeLillo ormai profetico stila, con l'infinita pazienza di un sapiente che è riuscito ad andare oltre il tempo, i complessi segni di un nuovo alfabeto le cui lettere compongono forse un misterioso poema che canta la storia dimenticata di un antico impero fondato da esseri senzienti ormai estinti e dissoltosi inevitabilmente nel pulviscolo cosmico dell'universo.
Un libro.
Zero K, di Don DeLillo (Einaudi).
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