Dall’immaginifico giacimento letterario mitteleuropeo Adelphi scopre questo affascinante e misterico labirinto linguistico e fonetico in cui lemmi e fonemi divengono protagonisti dell’eterno e babelico caos dell’umanità.
La prefazione è di Emmanuel Carrère e, of course, va oltre i confini della prefazione classica per traslarsi essa stessa in opera che si allega al resto di questo romanzo che lo stesso prefatore definisce con deferenza “strano”. Visione profetica? Saggio? Pamphlet dai toni settecenteschi? Non va dimenticato il contesto geopolitico in cui Ferenc Karinthy scrive questo Epepe, l’Ungheria dei primi anni Settanta, repubblica popolare del blocco sovietico ma che da sempre, memore del mito dei terminali fasti asburgici da josephrothiana felix Austria che diventa finis Austriae, è “la baracca più allegra del gulag”. E da luogo squisitamente mitteleuropeo costretto a fare i conti con quella eterna vocazione alla dominazione euroasiatica di tutto ciò che si affaccia alle sue marche orientali, la sua capitale Budapest diviene epicentro della sanguinosa rivolta antisovietica del 1956 ed Epepe non può non essere inteso, nelle intenzioni del suo Autore, come visione futuristica di ciò che è già stato e al contempo profezia di ciò che sarà poi nel 1989, dalle folle pacifiche che violano l’immarcescibile e berlinese Checkpoint Charlie, al fuoco che avvampa gli interni di palazzi sedi di polizie politiche nella carpatica Bucarest.
La tradizione letteraria, e filmica anche, che nasce al di là della churchilliana cortina di ferro negli anni di ferro della guerra fredda, si è sviluppata nonostante le fatiche ideologiche e i pericoli polizieschi ed Epepe, con quella sua apparente immagine di libro distopico, è al contempo summa e frammento, immagine e riflesso di una distopia che forse è stata più reale della realtà.
Un libro.
Epepe, di Ferenc Karinthy (Adelphi).
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