Vie di una Montevideo che è stazione definitiva e forse ultima di un percorso narrativo che trafigge nel Secolo Breve e in questo scorcio di Terzo Millennio un subcontinente come il Sudamerica. Le algebriche narrazioni di Borges, che fondono misteri nascenti da romanzi gialli con visioni di eruditi del Celeste Impero, mentre rovine metafisiche fanno da sfondo a giochi di specchi che conducono verso una biblioteca infinita in cui il lettore si perde sì, ma da protagonista del libro immortale che è parto pluricellulare di universi in formazione. Realtà che mostrano se stesse attraverso la lente prismatica del fantastico che ne scinde i colori e ne mostra forse l’orrore per mezzo di ricordi ancestrali riportati alla luce dalla maestria di Cortázar. Il tentativo sanguinante di inventariare l’orrore e la morte per mezzo di un caleidoscopio di postmodernismi geniali che Bolaňo porta con sé come il necessario fardello di un santo pellegrino della letteratura che vuole andare oltre la propria fine.
Questo percorso, questa Via Crucis narrativa e narrante che nasce proprio da quel Sudamerica in cui il romanzo, il racconto, il fumetto si uniscono in un unicum di storie universali che conosce la sapienza della storia, della letteratura, della psicoanalisi e che ha nel profondo della sua anima le ferite infertegli dagli orrori della persecuzione, del massacro primigenio delle civiltà precolombiane che perpetua se stesso fino all’orrore delle dittature militari, sorta di teatro sadico, di pantomima alla Marat-Sade di torture e picanas, di stadi calcistici trasfigurati in campi di concentramento e di garage oscuri in cui sfiata la devianza di reparti paramilitari, polizie segrete e aguzzini dallo zelo impiegatizio, giunge fino a noi attraverso profezie come L’Eternauta o gli spazi noir di Muňoz e Sampayo, magistrali descrizioni di quelle zone di confine dove assistiamo alla contaminazione bolaňiana di un orrore tex-mex che è forse il vero lasciapassare per comprendere l’universo. Ed è in questo percorso narrativo che arriviamo alla felicissima scoperta dello scrittore uruguagio Mario Levrero.
Artefice della parola come strumento di creazione estrema e definitiva, Levrero inizia a congegnare una struttura narrativa dalle sfaccettature molteplici. Eroe suo malgrado della quotidianità, una quotidianità che è però passaggio attraverso fratture di uno spaziotempo da cui nascono storie che fondono piani narrativi e tempi, Levrero plasma, crea, forgia una messe di parole che sono strumento e al contempo decifrazione di una realtà in cui divinità oniriche e demiurghi forse defilati appaiono come pulsar dalle misteriose onde elettromagnetiche che ci inviano messaggi, rapporti, segnalazioni, brandelli di universi metanarrativi i cui bagliori il lettore affascinato scorge e dai quali ne è contemporaneamente ammaliato.
Gli stessi strumenti della scrittura con i quali l’Autore ha un rapporto di affetto conflittuale, quel ricorso al pennarello Rotring o la eterna decifrazione del computer come luogo di scrittura ma anche forse come luogo e culla di vita aliena, una vita che si sovrappone a quella reale e spesso la sovrascrive, in un rimando continuo in cui le elettriche stimolazioni che già sono state del cyberpunk e ancor prima di Burroughs, e che vengono qui domate dall’Autore e ricondotte a una realtà quotidiana fatta di piccole e grandi insofferenze, piccoli e grandi inconvenienti, una realtà in cui la morte e la vita vivono nel sogno che vive della vita e della morte stessa, si fondono nel corso della stesura, o nel corso del tentativo di stesura del romanzo (altro affascinante piano di lettura che è alternativamente primario e fonte di altri piani di lettura), in un misterico luogo in cui il libro e chi lo scrive e chi financo lo legge si trasfigurano in entità archetipe e ancestrali dalla manifestazione contemporanea di onda e particella.
Levrero stesso diviene demiurgo di narrazioni, narrazioni che diventano universi, universi che diventano libri, libri che alla fine diventano ancora una volta quella biblioteca infinita di borgesiana memoria che è al contempo mappa dell'impero che si sovrappone all'orbe terracqueo accorpando realtà e finzione. Ed è in quella infinita biblioteca che trova posto ancora una volta il libro universo che, qui e ora, in questo tempo di Planck narrativo, assume il titolo di Il romanzo Luminoso. Romanzo che nasce nella creazione del suo autore e si trasfigura in backstage di questa creazione e in backstage dell’Autore stesso, romanzo alla cui edificazione il lettore è come chiamato attraverso la lettura, nella ostensione ultima di quel romanzo universo che dalla necessità quasi titanica di decifrarne fine e principio trae la sua eternità.
Un libro.
Il romanzo luminoso, di Mario Levrero (Calabuig).
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