giovedì 6 febbraio 2014

Intervista ad Antonio Moresco

Antonio Moresco non ha bisogno di presentazioni. E' autore di testi fondamentali come Gli esordi, Canti del caos, Gli incendiati, Il combattimentoLettere a nessuno, La lucina, Fiaba d'amore. Gli ho posto alcune domande alle quali ha risposto con gentilissima disponibilità.

La sua creazione letteraria attraversa paesaggi, profili urbani, strade, fondali inquieti e inquietanti. Che rapporto esiste tra questi scenari, che definirei quasi come necessari al divenire delle sue parole, e la sua anima di scrittore?
Tranne “La lucina” e “La buca”, che sono ambientate nel mondo cosiddetto “naturale” (come se il resto non lo fosse!), tutti gli altri miei libri si svolgono in ambiente metropolitano. E’ il mondo che conosco meglio e nel quale vivo, nel quale cammino fantasticando i miei libri o non pensando a niente. La grande città fa sentire maggiormente a solitudine della vita e la dolorosa vicinanza a noi stessi, ci accomuna in questa solitudine ai miliardi di esseri della nostra specie che vivono nelle metropoli e megalopoli del mondo in questa epoca oscura, finale o iniziale. Non si sa mai bene cosa viene prima, se l’ambiente nel quale viviamo o noi stessi, se la nostra anima o il mondo, ma probabilmente, a questo livello, non c’è un prima o un dopo, posso concentrarmi e coincidere a tal punto con me stesso da sentire il mondo premere contro le mie pareti, che a loro volta forzano e spostano la pressione concentrata del mondo.

La sua è una struttura narrativa che percorre il passato, il presente, il futuro accostandosi a temi che trascendono la stessa narrazione, trasfigurandosi in manifestazioni che perforano e mutano la stessa forma classica del romanzo, avvicinandosi a realtà sanguinose, virtuali, carnali. È come se la parola scritta si trasformasse in strumento per la cognizione, attraverso la sua ostensione, anche e soprattutto di ciò che sembra andare oltre ad essa: la rete, il web, l’underground di certe visioni pop, di certe universalità di infinita crudeltà. La parola scritta è ancora lo strumento primario per la comprensione della complessità dei tempi?
Non lo so se, in generale, è ancora lo strumento primario. Per me lo è. La parola scritta è in fondo la meno controllata, in questa epoca, proprio perché si crede che non conti niente rispetto ad altri linguaggi, perché si crede che basti il suo accumulo orizzontale per operare la cancellazione. Per me invece la libertà verticale e la complessità che può passare al suo interno è ancora superiore a ogni altra forma di linguaggio, puramente visivo o di altro tipo. Ciò che passa -o meglio che può in alcuni rari casi passare- attraverso la parola scritta è a mio parere più diretto, più potente, più libero, più verticale, più strutturato, più avventuroso, più ardimentoso, più indomabile, più inaspettato... La parola scritta, così elementare e così plastica, così inerme e così irriducibile, è una cruna attraverso cui può passare qualcosa d’altro, che può portare anche noi da un’altra parte, così altra che magari non riusciamo neanche a immaginare.

Credo che chi scrive e chi legge sia, anche a livello inconscio, all’eterna ricerca di quel romanzo, forse impossibile, che possa comprendere il tutto, che possa essere quasi definito il romanzo universo. Leggendola negli anni mi sono convinto che la sua opera persegua proprio questo fine, un fine affascinante, quasi misterico nella descrizione dell’umana tragicità. Pensa che questo romanzo universo possa essere il fine ultimo della volontà che l’umanità ha di raccontare e di raccontarsi?
Non lo so. In genere non sai bene quello che stai facendo, mentre lo fai. Tanto più se stai camminando lungo strade poco battute. So solo che, con l’uscita de “Gli increati” sono a un giro di boa del mio lavoro di scrittore e della mia vita, che in quel libro tutto quello che ho fatto finora compie un salto di piani e di dimensione, che verrà a mancare il terreno di conoscenza cui siamo abituati e che ci ha portati in un vicolo cieco.

La sua opera è quasi una mappa che definisce la misura del rapporto tra l’essenza disperata della singolarità e il manifestarsi quasi minaccioso della collettività, spesso in eterna opposizione, in perpetua lotta tra loro. Qual è la sua posizione su questa mappa?
Io mi sono spesso sentito come un marziano rispetto agli altri, nella mia vita, fin da quando ero un bambino, e anche dopo, sempre. Mi è molto difficile, mi è sempre più difficile vivere in un mondo di merda simile, dove ogni cosa non è quello che sembra e che dice di essere, dove ogni cosa ti delude, dove l’unica forza di gravità è verso il basso, mai verso l’alto.

Il suo personale momento della scrittura, della creazione letteraria, in quale rapporto è con l’insieme di ciò che ha già scritto e pubblicato?
E’ tutto legato, il magnete è unico.

Qual è la sua modalità di scrittura? Scrive al pc, a mano?
Ho scritto quasi tutto a mano, sempre. Più del novanta per cento di quello che ho scritto ha una sua prima stesura manoscritta. Scrivo al pc solo cose brevi o che devo fare in fretta, risparmiandomi la fatica e la pena di decifrare poi la mia minuscola e incomprensibile calligrafia.

Quali sono, se ci sono, gli autori, le opere, che l’hanno in qualche modo influenzata? Che cosa legge Antonio Moresco?
Sono tanti i libri che ho amato da quando, a trent’anni, ho cominciato veramente a leggere come si dovrebbe leggere sempre: con le spalle al muro. L’Omero dell’”Iliade”, gli storici antichi, Dante, Cervantes, Shakespeare, Murasaki, e poi i grandi romanzieri moderni, Melville, Dostoevskij, Tolstoj, Kafka… Ma sono anche assetato di autobiografie ed epistolari, di pittori, poeti, pellerossa, avventurieri, scienziati, puttane. Ho appena finito, ad esempio, di leggere l’autobiografia di Tyson (“True”), molto disarmata e sincera, che ci fa capire in che razza di cloaca di mondo ci troviamo a vivere.

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