Tragiche epifanie di Santa Muerte spietata e di sangue che irrora l’acido deserto che definisce la frontiera gringa o chica. Enunciazioni scritte con l’affanno di un affastellamento necessario e ineludibile, spossato e oppresso dalle visioni continue di un’eternità di orrore. Luoghi e paesaggi dove esseri umani, ridotti ad automi dall’angoscia incessante, vivono sotto la cappa di un rumore bianco di orrore e terrore. Simulacri che forse un tempo sono stati vivi percorrono strade di polvere imbracciando Ak 47 e lasciando scie di morte che sgorgano da corpi smembrati e abbandonati a tragico monito di un nulla che ormai è divenuto lasciapassare imprescindibile di ogni potere. Allegoria della violenza che si trasfigura in passaporto per immani ricchezze che sono assise sulle tonnellate di cocaina che divengono quasi essenza vitale di un cortocircuito brutale e malvagio nella sua orrorifica immensità. Demiurghi malefici dalle vestigia di vendetta forse antica governano i destini di questa definizione territoriale che è diventata paradigma della fine della ragione. Diego Enrique Osorno compie fino in fondo questo dantesco viaggio fino agli inferi del mondo, portando con sé la consapevolezza che la parola ha comunque il potere di combattere in qualche modo la follia dell’umanità. Confini che fanno da palcoscenico a vessazioni infinite che già Roberto Bolaňo e Sergio González Rodríguez avevano percorso nella loro partizione occidentale (Sonora, Ciudad Juárez) con il salvacondotto della narrazione, in quella geniale commistione di cronaca e opera narrativa in cui Rodríguez si trasfigurava in personaggio di quel romanzo universo che è 2666, sono ora oltrepassati nella parte orientale (Monterrey, Reynosa) anche da questo oggetto narrativo imprescindibile che si aggiunge, come un borgesiano tassello estremo, a quel misterico mosaico azteco in cui sono effigiate tutte le abominevoli divinità della maledizione.
Un libro.
Z, La guerra dei narcos, di Diego Enrique Osorno (la Nuova frontiera).
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