Dieci anni sono occorsi a Mo
Yan per approntare questo imponente affresco che dipinge la storia cinese degli ultimi
decenni. Corposa e densa affabulazione di ricordi che l’io narrante semina
nella narrazione, ricordi che lentamente tessono l’intreccio di questo romanzo
che domina e doma il tempo, attraverso la tecnica dell’Autore che fonde piani
narrativi e piani temporali nell’affluire delle rimembranze che da personali
divengono di un intero popolo-nazione e che accolgono il filo sottotraccia
delle mutazioni, spesso impercettibili ma sempre definitive, avvenute dai tempi
dogmatici della Rivoluzione Culturale, dominati dal libretto rosso del Grande
Timoniere, fino a una contemporaneità che ormai (con)fonde certezze marxiane
con le partite doppie del capitale. Mo Yan agisce con le parole nel denso brodo
primordiale della nazione cinese, da sempre fruttifera di contaminazioni, di
contraddizioni, di riflessi misteriosi e misterici che nascono dal suo essere
al contempo confine e incubatrice del mondo. Cina. Gigante estremo, a volte
vittima a volte carnefice, lento nel suo incedere così come dinamico è ed è
stato nelle vesti di laboratorio universale di miti, credenze, idee. Cina.
Espressione non solo geografica ma portatrice di sensuali ed anche efferate
esperienze, luogo narrativo e narrante che affascina e circonda nel suo
abbraccio salvifico ma anche letale. Se nel XIX secolo nacque, in quella
protesi comunque asiatica che è l’Europa (o l’Occidente, comunque), il mito
della letteratura orientale, in special modo quella di derivazione indiana, è
dai tempi di Marco Polo che la Cina è comunque vicina, tanto per citare Marco
Bellocchio. E lo è in misura ancor più determinante in quanto oscuramente interprete
delle nostre ossessioni letterarie (il Borges attento a certe misteriose e
magiche immobilità estreme confuciane, più ancora che a certi erotismi ed
esotismi da califfato di Baghdad), ancor più forse di quell’altro luogo
narrativo e narrante che sono gli States, troppo diretti nel loro porsi di
fronte a quella finzione che è più reale della realtà. MoYan costruisce,
apparentemente circoscrivendolo alla tematica del controllo delle nascite da
parte del governo cinese, un vero e proprio romanzo amniotico che funge, ancora
una volta come è tipico della sua poetica, da laboratorio lussureggiante dalle
cui provette prende vita il racconto degli aspetti fondamentali, immutabili e finali
della storia dell’umanità, umanità intesa non come cifra spersonalizzata, bensì
come somma di quello che ogni essere umano rappresenta e significa, nel più
eroico bene come nel più detestabile male. Mo Yan, nelle vesti di conclusivo
cantore di quella misteriosa e affascinante, ma anche a volte spietata e
ripugnante, collettività che risponde al nome di homo sapiens, sa appellarsi,
nel suo incedere narrativo, a tematiche che prescindono dalla spesso ineludibile opportunità delle epoche storiche, trasfigurandosi così, come è necessità del
narratore che vuole essere poeta del tempo più ancora che dei tempi, in
imprescindibile narratore dell’universo delle storie.
Un libro.
Le rane, di
Mo Yan (Einaudi).
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