Connessioni che avvolgono un universo. Connessioni materiali e
immateriali. Sentimenti che scavano nel profondo di anime apparentemente
semplici (di quella definizione medioevale e francescana di “semplice” che
rimanda alla purezza) e che appaiono invece portatrici di abissi, di
domande, di sofferenza, ma anche di speranze nascenti da un quotidiano che è la
somma di azioni che si affastellano in attesa di un destino che domina il
tutto. Congegni meccanici, installazioni artistiche, dispositivi digitali,
opere d’arte, ninnoli a volte insignificanti e che invece rivelano paesaggi di
anime, ma anche relitti informi, rottami, frammenti che contribuiscono alla definizione dell’immagine totalizzante e completa
delle vite che erigono un cosmo, spesso inconsapevolmente o loro malgrado. Un
cosmo che combina tracce del passato in un presente sfaccettato e
caleidoscopico nella sua complessità. I muri, le periferie, le strade, i
viadotti, le ferrovie, il flusso del traffico automobilistico, gli interni delle case, tessere di un mosaico che forma
una metropoli dagli intarsi phildickiani e che è, a sua volta, immagine di quel luogo della narrazione che
è l’America, intesa come USA, composta in quella definizione narrativa che ne
fa immaginario collettivo di storie. Tempi e luoghi che si incrociano e si
fondono, generi che si rincorrono e che si completano. Non esiste mai in
DeLillo una contemporaneità che possa dirsi completamente tale. Ogni istante
che si snoda in questi racconti è il frutto di un passato, arcaico, forse, i
cui tratti dominanti vivono sottotraccia in un presente tecnologicamente (ma
anche militarmente, finanziariamente, politicamente) frainteso nella rappresentazione propagandistica che compie di se stesso e che di quegli inevitabili
arcaismi porta le stimmate, facendosi anteprima di un futuro inevitabilmente
dominato senza eccezione dagli atavici rapporti di forza creati
dall’insondabile e impalpabile dogma dell’essere in qualche modo incardinanti
in un mondo di dominati e di dominatori.
Osservatore, indagatore, voyeur dell’ostensione perenne di
una collettività che è governata da un ipertrofico nulla, giocatore estremo del
linguaggio e attento conoscitore del potere, spesso sanguinario e sanguinante, delle parole e dei
nomi (che si sovrappongono alla realtà oggettiva plasmandola a loro piacimento
come demiurghi maligni), DeLillo compone questi racconti come definizione
perentoria delle proprie ossessioni. Quelle stesse ossessioni che ha infuso da
sempre nella sua creazione narrativa e che configurano altrettanti segni
indelebilmente marcati al fine di raccontare il livello profondo e meno scontato sia
della società che del suo modo di immaginarsi. L’angelo Esmeralda si staglia al contempo perentorio e
interrogativo come perentoria e interrogativa è la storia degli uomini e
DeLillo, come un monaco antico che riporti le cronache di miracoli e di
saccheggi, contribuisce mirabilmente ancora una volta all’ineludibile opera del
raccontare l’eterna circolarità dei tempi.
Un libro.
L’angelo Esmeralda,
di Don DeLillo (Einaudi).
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