Scritto con lucida e
disperata leggerezza, composto come una sorta di testamento narrativo, realizzato
come la cronaca poetica di una formazione dolorosa, questo romanzo rivela un
Brautigan che si è definitivamente spogliato del suo ruolo di romanziere legato
a un certo modo di intendere la letteratura, per assumere quello di narratore
totale, narratore che lascia ogni riferimento al suo ruolo nel mondo letterario per
raccontare soltanto di se stesso.
E in questo raccontare, in
questa analisi della propria formazione, della propria adolescenza, Brautigan
va alla ricerca di quel fatto, di quell’elemento, di quel punto zero da cui si
è originata la sua personalissima simbiosi (che è poi quella di ogni scrittore)
tra esperienza di vita e narrazione.
Ma come i grandi romanzieri
di razza, Brautigan non concede nulla all’autobiografismo. American Dust diviene così una sorta di trasfigurazione dello
scrittore, in cui la sofferenza e il dolore assurgono al ruolo di strumenti
creativi di una storia dove personaggi, dialoghi, luoghi e paesaggi disegnano
un ideale paesaggio dell’anima.
Un paesaggio dell’anima in
cui l’apparente linearità della scrittura nasconde in realtà un punto di
deflagrazione nascosta, deflagrazione tanto più definitiva quanto più celata
dalle parole e annunciata sommessamente soltanto dalla ricorrenza della frase “Prima
che il vento si porti via tutto”, frase che ritmicamente appare nello scorrere di questa
partitura narrativa.
American Dust
va letto perché solo la sua lettura può contribuire alla comprensione dell’opera
di Richard Brautigan, opera intesa nel senso più ampio del termine, quello
appunto dell’insondabile rapporto tra narratore e narrazione. American Dust, pubblicato nel 1982, fu il suo ultimo romanzo.
Richard Brautigan si suiciderà due anni dopo.
Un libro.
American Dust,
di Richard Brautigan (Isbn).
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