Scrivo queste note da un estremo luogo di esilio intellettivo in cui mi sono volontariamente rifugiato. Un luogo situato il più lontano possibile da tutto quello che riguarda la letteratura, i libri e la parola scritta di questa contemporaneità. Un luogo che si trova oltre i confini angusti e malati di un presente letterario che probabilmente è già morto senza nemmeno averne avuto coscienza, preda di una spirale quantistica che ha fatto sì che si autoingerisse, si autometabolizzasse e si autoespellesse, originando un desolato orizzonte degli eventi dove non esistono più né un adesso, né un prima, né un dopo.
Scariche elettromagnetiche isolate e inintelliggibili; ecco gli unici residui persi nel nulla a testimoniare l'agghiacciante concerto delle voci di scrittori, di agenti letterari, di editori, di librai, di lettori che si sono estinti in una psicotica voracità di sovrapposizione babelica che ha partorito soltanto un assordante silenzio. Il silenzio che nasce dalla totale depauperazione dell'ossigeno vitale.
Tra i pochi frammenti degni della parola scritta, e, per fortuna, non ancora inesorabilmente perduti, osservo questo libro di Michele Marziani. E lo osservo curiosamente, lentamente. Me ne avvicino con circospetta volontà di comprensione perché intravedo, dalla galattica distanza in cui mi trovo ora, che non è un romanzo, non è un'autobiografia, non è un saggio, bensì qualcosa di prezioso, di raro.
Da qui posso vedere soprattutto i bagliori ancora agonizzanti del presente letterario che si è già estinto, sicuramente un paradosso spaziotemporale, ma mi sia concessa una capriola semanticamente banale: i libri di Michele Marziani sono belli, belli nella misura in cui un libro è bello quando è capace di trasmetterti la sensazione di sentirti vivo mentre lo stai leggendo, è capace di suggerirti la percezione di essere parte di qualcosa di più grande e che va oltre lo spazio angusto della riga stampata e che quel qualcosa, tu che lo stai leggendo, lo stai condividendo nel modo più profondo con chi l'ha scritto.
Gabriele Frasca ha sempre sostenuto che la letteratura altro non era se non una delle tante forme di scambio di informazioni tra organismi pluricellulari, allo stesso modo in cui un aminoacido è un mezzo di scambio di informazioni fra cellule.
Nel desolato orizzonte degli eventi, oltre il quale si è autocannibalizzato il presente letterario, non vi è nemmeno più traccia di una particella elementare. Tuttavia segnali di uno scambio di informazioni esistono ancora e sono frutto di pochissimi messaggeri fra i quali c'è Michele Marziani.
Se nella assenza di ossigeno i suoni non si trasmettono, al contrario, forte e potente come una quasar nata appena dopo il Tempo di Planck, questo suo suono della solitudine si avverte distintamente. È il suono di un messaggero che non si è dato per sconfitto, che ha continuato a inviare segnali nella ricerca di esseri senzienti, e che si è trasfigurato completamente nel messaggio che ha inviato sino alla ostensione più estrema e, al contempo, più sinceramente tersa di se stesso.
Michele Marziani non si nasconde dietro facili schemi collaudati, non utilizza trucchi da mestierante della letteratura. Michele Marziani è Michele Marziani. E Il suono della solitudine è un gran bel libro, forse il più bello che, prima di fuggire per salvarmi dal collasso del presente letterario, abbia mai letto. Forse un futuro può ancora esistere.
Il suono della solitudine, di Michele Marziani (edicicloeditore).
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