Come un'inquietante icona sensualmente e morbidamente immobile la canna da zucchero sovrasta e racchiude in sé tutta la vita di una colonia francese, la Martinica degli Anni Trenta prebellici, che si appalesa fra le righe di questo romanzo come una visione tagliata dal bianco e nero di un film generato dalle percezioni surrealiste di Jean Vigo.
Tutto è canna da zucchero: la vita, la morte, l'amore, l'odio, la carnalità, la sopraffazione, la gioia, il passato, il presente e il futuro. E tutto poi sarà inevitabilmente zucchero, zucchero dolcissimo e al contempo amarissimo, zucchero fonte di ricchezze smisurate, di ambizioni disumane, di sfruttamento infinito, di innamoramenti sfrenati, di rigogliose tentazioni e meschinità eterne nel loro riproporsi quotidiano.
Gerarchie che nascono da sottili sfumature del colore della pelle, che incardinano generazioni maledette dal pigmento africano reiterato da secoli di accoppiamenti tra schiavi ora appena affrancati e generazioni che improvvisamente vedono il loro destino lievitare leggermente più in alto per il loro sangue, trasfiguratosi ora nel momentaneo e fortuito frutto dell'incontro sessuale con geni europei che ne sanciscono definitivamente la definizione di mulatto e, con essa, l'elevazione sociale al di sopra di tutti ad eccezione di chi, nato dall'amplesso fasciato da lenzuola creole, detiene il potere economico in virtù del fatto di essere bianco di lingua francese.
Neri condannati dalla loro stessa forza sovrumana, mulatti che tentano un riscatto sociale che mai comunque li affrancherà del tutto, bianchi latifondisti che cavalcano tra i campi come ombre febbricitanti di feudatari carolingi e bianchi falliti, squattrinati, alcolizzati che si attaccano al chiarore del loro pigmento come a un lasciapassare che possa prima o poi concedergli l'illusione di poter evadere dai loro inferni interiori.
In questo eterno altipiano umano e agricolo, dove le figure sembrano sovrapporsi alla scenografia di un panoramico e maledetto dipinto fiammingo del Quattrocento, si muove Firmin, il comandante dello zucchero, personaggio creato in un alternarsi di prima e terza persona narrante, mulatto che si aggrappa a quella sua parentesi genetica che lo pone a metà strada tra l'inferno e il paradiso, uomo che si è fatto da sé nel silenzio della consapevolezza della propria provvisorietà sociale e umana e che è giunto al grado di comandante di una piantagione di canna da zucchero. Al di sopra di tutti i neri. Al di sotto di tutti i bianchi.
Raphaël Confiant non scrive solamente un romanzo ma governa il divenire di un intero universo, un universo che sembra lontanissimo dalla sua contemporaneità tanto sono profondamente incardinati in esso i pali portanti di una struttura sociale, politica, economica che riproduce se stessa come una parentesi del tempo dove l'immobilismo coloniale rende tutto simile a un'eterna linea d'ombra conradiana immersa in una bonaccia da cui niente e nessuno potrà mai fuggire.
Un libro
Raphaël Confiant, Il comandante dello zucchero (Calabuig).
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