Romania, anni Trenta dell'ultimo secolo del secondo millennio, anni Trenta di quel secolo breve che ha insanguinato il mondo con la mesmerizzazione dei corpi e delle anime operata delle ideologie totalitarie di destra e di sinistra, anni Trenta che segnano un sottile confine tra due guerre mondiali che la storiografia più avanzata inizia a definire come una seconda guerra dei Trent'anni, dopo la prima nella quale, nel corso del Seicento, i corpi e le anime furono straziati nel sanguinante confronto tra cattolici e protestanti.
Curzio Malaparte, mentre si trova nel 1941 ai confini orientali della Romania nei primi giorni dell'Operazione Barbarossa, la definisce in Kaputt come luogo dagli echi agghiaccianti e inquietanti, luogo in cui si parla una lingua apparentemente latina ma che in realtà cela strutture slave, luogo in cui accanto a palazzi che ricordano i fasti dei boulevards di Parigi si fermano carovane di strani animali da soma che sembrano dromedari. Lo stesso Roberto Bolaňo, nel suo icasticamente magico 2666, pone in Romania uno dei nodi da sciogliere della sua fitta e babelica trama e lo fa narrando fatti lì accaduti proprio nel momento in cui la Romania rimane abbagliata dal canto delle sirene che proclamano un nuovo ordine mondiale all'insegna dell'Asse.
Il nome di Mircea Eliade percorre come un fiume carsico il pensiero europeo post bellico, in cui incarna il ruolo quasi sciamanico di colui che ha guardato nell'abisso ma che è riuscito per tempo a ritrarsi e a fare in modo che l'abisso non guardasse in lui. Pronunciare il nome di Mircea Eliade nei settari anni Settanta del secolo scorso era sinonimo di preoccupante filofascismo, mentre l'indubbio merito di Eliade è stato quello di analizzare il dolore dell'umanità per mezzo del sincretismo culturale, la ricerca dell'arcano, del misterico, dell'esoterico, di tutti quegli attimi spaziotemporali che Carl Gustav Jung avrebbe definito "archetipi".
In questo senso Gli huligani è un forte ritratto dai toni potentemente dostoevskijani di una generazione che, come un magnete impazzito, ha attratto su di sé la disarticolazione morale e umana nata dalla contaminazione e dalla ibridazione di quel coacervo immaginificamente e tragicamente anarcodittatoriale che è stato espressione della negazione totalizzante di qualsivoglia razionalità messa in scena dalla demoniaca illusione rappresentata dal nazismo e dallo stalinismo. I personaggi di questo romanzo si muovono in una "no man's land" morale e ideologica che si trova al centro di una deflagrazione di universi che è sul punto di compiersi. Nessuno è più se stesso ma tutti sono costretti a interpretare una parte, senza farsi domande, lasciandosi trasportare verso l'avvicinarsi di una tempesta che al contempo atterrisce e affascina. I corpi che si avvinghiano in una carnalità fine a se stessa altro non sono che immagini divinatorie di altri corpi che ben presto saranno sì ancora reciprocamente avvinghiati ma stavolta nel fango segnato dai cingoli dei carri armati, la gestione apparentemente libera del sesso altro non è che maschera tragica con cui celare ai propri occhi la consapevolezza di essere soltanto automi imbellettati alla affannosa ricerca di una memoria che si rivelerà orribilmente inesistente. Gli huligani è la fotografia della negazione morale, civile e politica degli esseri senzienti. Quella negazione che, dopo la seconda guerra dei Trent'anni, pensavamo fosse stata definitivamente debellata ma che invece la lettura di questo romanzo fa comprendere come sia ancora più presente adesso, in questo buio inizio di questo per ora oscuro terzo millennio.
Un libro.
Gli huligani, di Mircea Eliade (Calabuig).
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