Leggiadre fatine percorrono la California, vestite di organza svolazzante, dai lunghi capelli sensualmente mossi dalla brezza, dai delicati gesti misteriosi e deliziosamente segnati da una lussuria inconsapevole. Camminano leggere, messaggere di una hibrys appena accennata, calpestando con piedini lievi un suolo costellato di verdi prati primaverili, accompagnate dalle note di una Summer of Love hippie che dal festival di Monterey si avvicina a quello di Woodstock, mentre la convenzione democratica del 1968 è affondata a Chicago dalla protesta contro la guerra del Vietnam e l'astuto Dick Nixon diventa presidente, facendo assurgere la reazionaria Orange County a sorgente infinita di paranoiche e divine visioni di un Philip K. Dick lucidamente allucinato e avviato verso la distruzione epatica in nome di una insurrezione lisergica che ha il suo dio e profeta in Timothy Leary. Le leggiadre fatine dalle movenze erotiche lentamente si avvicinano, si percepisce il loro profumo pungente simile all'afrore animalesco della superba femmina di una invincibile specie predatrice. Le leggiadre fatine sorridono dolcemente e hanno occhi vitrei, occhi coi quali osservano l'erezione dell'immenso membro del principe degli omicidi. Il loro sorriso è il rictus tetanico della morte.
Esiste una toponomastica dell'orrore, una mappatura dei luoghi dell'afflizione sadica che segnano quel paradigma geografico della cultura pop che è lo stato della California e in particolare della metropoli di Los Angeles. Uno degli indirizzi più famosi è il 8763 di Wonderland Avenue, dove il re del porno John Holmes rimase in qualche modo coinvolto in una storia cupa e spietata di omicidi legati all'universo alcaloidale delle sostanze psicotrope. L'altro, ben più penetrato a fondo nell'immaginario collettivo che si nutre di sangue, è il 10050 di Cielo Drive, vicino alle alture di Bel Air, sempre nella contea di Los Angeles. La data degli accadimenti che si svolsero al primo indirizzo è del 1981, quella di ciò che accadde al secondo è il 1969. 1969 è numerazione che ritorna e adorna anche il titolo di alcuni capitoli di Le ragazze, di Emma Cline.
Esiste sempre anche un attimo eterno in cui gli Stati Uniti, culla di ogni narrazione che da più di un secolo si espande nel crudele immaginario umanoide del pianeta, si fermano a fare i conti con il loro passato. L'arte cinematografica ha permesso loro, già nel 1978, ad appena tre anni dalla mattina in cui l'ultimo elicottero dei marines si staccò dal tetto dell'ambasciata americana di Saigon, di metabolizzare la sconfitta nella guerra del Vietnam.
Le leggiadre fatine dallo sguardo di morte conducono per mano ora gli Stati Uniti a metabolizzare quell'agosto del 1969 in cui la nomade congregazione assassina di Charles Manson, la Family, si dedicò con malvagia perizia allo squartamento, tra gli altri, di Sharon Tate, moglie incinta di Roman Polansky.
Nel romanzo della Cline, Russel è Manson, è ovvio, così com'è ovvio che Suzanne e le altre sono Susan Atkins e Sandra Good e Leslie Van Houten, così come tutto l'ordito della trama è la visione in filigrana degli omicidi di Bel Air. Ma c'è una grandezza in questo romanzo, una grandezza misteriosa che lentamente viene percepita sottotraccia dal lettore e che ha come artefice lo speciale punto di osservazione narrativo. L'io narrante ricorda con orrore, con stupefazione, con rassegnazione. L'io narrante ricorda con tragica lucidità, con triste solitudine. E quello che ricorda è una plumbea atmosfera di attese e di promesse, di vite soffocate da un paesaggio artefatto di bisogni finti e indotti dalla necessità di consumare, di ruoli definiti da una collettività immobile, senza possibilità di fuga, una collettività in cui padri e madri hanno da tempo abdicato al loro ruolo, in cui il sogno lisergico è l'unica possibilità di redenzione, ma anche quel sogno è una creazione di bisogni imposti da chi di quel sogno fa commercio criminale e anche la redenzione promessa è soltanto un idolo malvagio che si nutre dei corpi e delle menti dei suoi adoratori. Quello della Cline è l'autoritratto di un'epoca storica in cui tutta la nostra contemporaneità ha avuto inizio: l'esplosione della cultura pop e la costruzione della condizione giovanile, il mito della rivoluzione sessuale, l'agghiacciante illusione della falsa libertà prodotta dall'uso degli stupefacenti, la scena musicale intesa come rivoluzione e invece condotta sapientemente per mano dal business, così come inteso come rivoluzione e invece business per pochi miliardari eletti sarà da lì a qualche anno quello che Bill Gates e Steve Jobs creeranno nei sobborghi di minuscole cittadine della West Coast. Russel/Manson non è un asceta pazzo, non è un guru omicida, tanto meno un criminale senza scrupoli, ma un pericoloso cazzone squilibrato che voleva fare i soldi cercando un contratto discografico per le sue non certo memorabili canzoni. L'affermazione postbellica di un mercato di consumatori ha esponenzialmente moltiplicato anche i canali e le possibilità della creatività, ma al contempo la visibilità della creazione e la sua relativa fama sono, come sempre, difficilissime strade in salita e per procurarsi i famosi quindici minuti di celebrità declamati da Andy Warhol ormai si può tranquillamente uccidere. Emma Cline scrive un romanzo che trafigge lo scorrere del tempo e con la sua scrittura pone tutti quanti noi di fronte al ritratto di una collettività che ha consapevolmente autodistrutto ogni sua aspirazione. Nel deserto dell'anima forse c'è una piccola speranza: quella di iniziare tutto da capo, senza illusioni.
Un libro.
Le ragazze, di Emma Cline (Einaudi).
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