Esiste certamente una questione Borges, ed esiste nella misura in cui Borges stesso ne ha definiti i termini. Immenso funambolo della parola scritta, euclideo ingegnere della struttura narrativa, pitagorica sfinge che si erge solitaria nel panorama della letteratura, panorama che ha contribuito a creare, a modellare, a destrutturare, Borges appare al contempo come avanguardia coltissima e retroguardia barocca. Il perimetro della letteratura fantastica, il realismo magico dei Garcìa Márquez in mimetica fidelista e dei Cortázar in dolcevita esistenzialgiovanilista, non può essere sufficiente per definirlo e non lo è mai stato. Certo la prima apparizione in Italia del grande argentino è dovuta alla Antologia della letteratura fantastica pubblicata dagli Editori Riuniti e all'einaudiano Finzioni prima che Borges divenisse una delle colonne portanti di Adelphi. Nei primissimi anni Ottanta è l'editore bodoniano Franco Maria Ricci a portarlo in pellegrinaggio nella penisola periferia dell'Impero e a pubblicarne stralci sulla lussuosa rivista FMR e poi a editarne i suoi testi di riferimento, i mattoni della sua onirica ziqqurat letteraria, nella collana La Biblioteca di Babele, ripresa poi dagli Oscar Mondadori. Quando la critica letteraria italiana era spesso vittima di sviste ideologiche Borges era frettolosamente incompreso se non addirittura ignorato. All'editore parmense, ora a sua volta assiso in un personale e magnifico, e borgesiano of course, labirinto, va senz'altro il merito di aver “sdoganato” l'inarrivabile aedo argentino. Io stesso fui testimone, moltissimi anni fa, dell'incomprensione italiana per Borges quando, ascoltando una trasmissione radiofonica, lo sentii definire, con estrema serietà, essenzialmente come un ladro di testi altrui e come un inventore di autori e di opere false fatte passare per vere. Borges declassato quindi a piccolo falsario, a membro della consorteria dei plagiatori (ah, quelle metafisiche, e un po' ridicole, mostre di falsi d'autore che adornano gli estivi pomeriggi sonnolenti degli alberghi della Riviera di Levante e di Ponente). Naturalmente evito ogni valutazione sull'imbecillità di chi produsse quell'ignobilmente frettolosa e illetterata valutazione. Negli anni naturalmente le cose sono mutate. Borges si è trasfigurato in una sorta di icona pop e lo stesso Bolaňo, altra trasfigurazione pop, lo ha inserito nel suo Pantheon di autori preferiti (esiste una sorta di vulgata in rete secondo la quale il mito di Bolaňo sarebbe stato costruito a tavolino da un gruppo di quotati e famelici agenti letterari "gringos" e la cosa, qualora fosse veritiera, renderebbe comunque Bolaňo ancor più bolaňiano o, perché no, ancor più borgesiano). Appare ora questo Il fattore Borges che le edizioni SUR, sempre attente a ciò che letterariamente accade nell'emisfero australe del pianeta, pubblicano con una felicissima intuizione grafica per quanto riguarda le note al testo, intuizione che lenisce alquanto le tribolazioni del lettore alle prese con le famigerate, anche se ineludibilmente importanti, note a piè di pagina. Dalle pagine di questo saggio traspare lentamente, grazie alla bravura e alla preparazione dell'autore Alan Pauls, una nuova figura del Borges scrittore e del Borges artefice di scritture. L'icona pop non è più quella incardinata nell'ormai imponente apparato iconografico e critico, ma Borges appare nella sua evoluzione temporale e letteraria. Non più quindi un'immobile statua che se ne sta pensosa nel mezzo di una piazza dipinta da De Chirico, ma un autore che ha dovuto fare i conti con le avanguardie letterarie degli anni Venti, ne è stato affascinato prima e poi ha costruito i presupposti per abbandonarle e creare nuove e inedite forme di narrazione che trapassano e trasfigurano gli stessi luoghi in cui queste narrazioni avvengono. Borges che odia dapprima i sobborghi di Buenos Aires e poi ne diviene invece il cantore, in una sorta di riaffermazione quasi etnica della lingua "criolla" dei nativi in contrapposizione ai nuovi arrivati spagnoli e italiani (quasi una sfida etnicoletteraria che ricorda l'epopea di Le gangs di New York di Herbert Asbury, opera che Borges lesse con molto interesse), Borges che vede in West Side Story una rivisitazione delle lotte medioevali fra le tribù vichinghe, Borges che accoglie il romanzo poliziesco come forma geometrica perfetta della struttura narrativa e che, nei suoi mondi letterari costellati di citazioni, teologie, gnosi e neoplatonismi (dove l'autentico si fonde con l'artefatto e l'artificio e dove la mistificazione erudita diviene mezzo di (auto)ironica celebrazione dell'erudizione stessa) è già negli anni Quaranta un precursore del postmodernismo. È un Borges nuovo quello che appare da queste pagine. Un Borges impegnato a celarsi al mondo e al contempo dedito con dovizia e perfezionismo professionale a costruire il proprio mito cui, molto borgesianamente, è il primo a non credere. Un immenso ingegnere della parola e un profondissimo creatore di mondi letterari e di distorsioni geniali dove la finzione è l'autentica realtà e la realtà è l'unica finzione possibile.
Un libro.
Il fattore Borges, di Alan Pauls (edizioni SUR).
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