'80. L'inizio della barbarie, di Paolo Morando (Laterza)
Ascoltando oggi alcune radio e osservando i canali televisivi digitali gli anni Ottanta espandono ancora il loro immaginario fin dentro questa seconda decade del Terzo Millennio. Il pubblico dei cinquantenni è probabilmente il più numeroso perché il 1964 è stato l'anno del boom delle nascite in Italia e chi è nato allora i suoi vent'anni (luogo anagrafico di rimebranze e memorabilia che vuole ancora ascoltare e vedere) li ha compiuti nel 1984, data orwelliana che è forse la vera genesi di quel decennio che fino ai suoi primi anni poteva ancora essere confuso con i Settanta. Sì perché i Settanta non sono finiti alla mezzanotte del 31 dicembre del 1979, ma, permeati dal colore del piombo che così li fece denominare dal film di Margarethe von Trotta, anni di terrorismo di estrema destra e di estrema sinistra, sono in realtà finiti tra il 1982 e il 1984 quando il generale Dozier, sequestrato dalle Brigate Rosse, venne liberato dalle teste di cuoio nostrane e Prima Linea consegnò simbolicamente il proprio arsenale di armi al segretario del cardinal Martini. E d'altra parte l'immagine del look di quei primi anni Ottanta è ancora legata ai Settanta: baffoni rivoluzionari, capelli afro, pantaloni svasati e giubbotti stretti su camicie dai collettoni inamidati. Persino Luigi Arisio, il politicamente moderato ispiratore della “Marcia dei quarantamila”, sfoggia nel 1980 ancora un look da operaio massa stile La classe operaia va in paradiso. Da quel momento, dal quel biennio 1983/1984, iniziano i veri anni Ottanta. È come se un'intera nazione uscisse dall'incubo degli anni del terrorismo e della strategia della tensione e volesse dimenticare tutto. Allora cominciano quasi all'improvviso le celebrazioni giornalistiche degli Agnelli, dei Romiti, dei Pirelli non più visti come nemici del popolo ma come alfieri di una nuova Italia. I pensionati iniziano ad affollare le salette di contrattazione di borsa delle banche, si comprano e si vendono titoli azionionari come al Monopoli, la televisione è tutta un profluvio di notti dei pubblivori e di trasmissioni sugli stilisti, il mondo giovanile non indossa più le Clarks ma le Timberland e il capello rivoluzionario viene messo in riga dalla gommina e i baffoni rivoluzionari, va da sé, vengono rasati e rimangono semmai sui visi di qualche nostalgico dei Dik Dik. Sono gli anni d'oro delle televisione commerciale che da schermo strapaesano ancora immerso negli Anni di Piombo (e a cui avevano dato un contributo molti autori e registi più o meno legati alla sinistra) diventa corazzata berlusconiana. Le donne continuano a spogliarsi, ma a togliersi i vestiti non sono più le veraci casalinghe di Tele Alto Milanese ma le patinate ragazze "cin cin" di Colpo Grosso. Sono gli anni della musica britannica post punk, dei Duran Duran e degli Spandau Ballet e dell'italo disco e i video di DeeJay Television lasciano il segno più del Live Aid. Ma sotto questa superficie tutta lustrini e pailettes si celano i prodromi politici e sociali che segnano ancora oggi la storia della nostra nazione. La P2, la disarticolazione della rappresentanza sociale, la violenza verbale della competizione politica, la nascita del localismo estremista, il confronto difficilissimo con l'immigrazione, le prime crepe della Prima repubblica sono tutte stimmate che proprio in quegli Ottanta iniziano a manifestarsi. Paolo Morando (già autore di Dancing days. 1978-1979. I due anni che hanno cambiato l'Italia) ha il merito di aver scritto un saggio illuminante e completo su un decennio breve, iniziato tra il 1983 e il 1984 e terminato nel 1989, quando con esso terminava tutta l'Europa di Yalta. Da allora la Storia non è per niente finita, come proclamava Francis Fukuyama, ma ci è apparsa in tutta la sua ferocia, quella ferocia che i ventenni del 1984 pensavano ormai sepolta sotto la leggerezza delle note di un brano cantato da Simon Le Bon o da Tony Hadley.
Un libro.
'80. L'inizio della barbarie, di Paolo Morando (Laterza).
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