Leggo Il brevetto del geco e vado con la memoria alle due interviste rilasciatemi da Antonio Moresco dove l’autore dei Canti del caos mi spiega che lo scrittore per raggiungere una visibilità nel mondo editoriale deve prima o poi trovare una “fessura” che gli permetta di deflagrare il muro di gomma che l’anonimato gli costruisce attorno. Tiziano Scarpa ha rappresentato per Antonio Moresco proprio quella “fessura” quando, lettore per Feltrinelli, rimane folgorato dalla prosa moreschiana e ne consiglia vivamente la pubblicazione. E gli echi di un comune sentire si sentono e si apprezzano. La declinazione onirica di un reticolato metropolitano gravato dagli orpelli di una modernità che propaganda il superfluo, l’intersecazione tra anime e corpi in un perenne travaso di sentimenti che finiscono con il levarsi come spettri che cantano inni al nulla, l’invettiva alla Testori che viene sublimata dal ricorso ai padri della commedia dell’arte che, come Goldoni, trasfigurano la disperazione in querulomane posa di personaggi insoddisfatti delle loro vite. E forte è l’influsso anche delilliano nel congetturare il mondo attraverso le linee evanescenti di installazioni artistiche che si propagano nel mondo per mezzo di una partenogenesi visiva che tenta di interpretare il tempo, di imprigionarne lo scorrere degli attimi. Mi pare che Scarpa non ami il postmoderno letterario, tuttavia Il brevetto del geco presenta molti degli elementi che Stefano Ercolino descrive nel suo saggio Il romanzo massimalista, ma le tracce di postmodernismo Scarpa riesce a farle perdere genialmente, ingaggiando un duello con la parola che si trasforma in universo parallelo in cui le metamorfosi della descrittività storica di un oggetto, di un monumento, di un movimento artistico si trasformano in palinsesto rinascimentale sotto il quale la digressione, vuoi storica o culturale, vuoi riflessa dal richiamo alle parole d’ordine della rete, rete che già inizia a vivere come golem letterario nei libri di Moresco appunto, diventa momento essenziale di esaltazione della narrazione, come già ne La caduta di Diogo Mainardi, altro romanzo veneziano di quella Venezia, città di Tiziano Scarpa, in cui va alla fine a dimorare, dopo essersi generata in una Milano dai colori che ricordano il prodromo di Orfeo in Paradiso di Luigi Santucci, la consustanzialità delle trame de Il brevetto del geco.
Un libro.
Il brevetto del geco, di Tiziano Scarpa (Einaudi)
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