Conosco la scrittura di
Claudio Morandini, conosco il suo percorso letterario, conosco la totalizzante e
sorvegliata efficacia delle sue parole. Quella stessa efficacia che si esterna
in questo caleidoscopio letterario dove un inquietante scenario chimerico si
sposa funambolicamente al divenire picaresco di una trama che apre piani
narrativi che si amalgamano assumendo la forma di un raccontare originale e
genialmente bizzarro.
Con A gran giornate Morandini rinverdisce e rivitalizza la tradizione
del romanzo, di quel romanzo che prende le mosse dal Settecento inglese di
Sterne per approdare ai Savinio, ai Landolfi, ai Celati, ai Cavazzoni.
A gran giornate
è un monumento alla narrazione, ma non alla narrazione fine a se stessa, bensì a
quella narrazione che ha il compito di rappresentare la nostra contemporaneità
per mezzo dell’esaltazione della parola.
Morandini non mette certo in
atto una struttura narrativa dedita alla fuga dalla realtà, anzi. A gran giornate, come i romanzi autenticamente grandi, diviene
strumento per la comprensione dei tempi a noi coevi, e fa questo per mezzo di un efficacissimo filtro letterario che, proprio per la sua completezza incisiva,
è più che mai adatto a onorare quello che è il compito del narratore:
rappresentare i propri tempi attraverso la traslazione del sentire comune dell’umanità.
Ed è la traslazione di questo
sentire comune che Morandini fa pienamente sua, dando vita a una storia che
racchiude in sé il senso della vita e anche quello della morte. Per questo A gran giornate è un unicum narrativo. Un
unicum narrativo che dimostra ancora una volta come per fortuna esistano narratori
con la enne maiuscola.
Un libro.
A gran giornate, di Claudio Morandini, (La Linea ).
A gran giornate, di Claudio Morandini, (
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