Accendo racconti come faceva mia nonna
“Scrivo per scaldare gli altri” dice Michela Murgia. Che nel nuovo romanzo parla di feste, processioni, piccole rivalità. E di infanzie avventurose. Che non ci sono più
di Anna Maria Speroni,
foto di Nicola De Luigi
Sono cresciuta nella convinzione che la Sardegna fosse il centro del mondo, e Cabras il
suo piercing. Non ho mai avuto voglia di andare via. Ma una comunità coesa è luogo
di contraddizioni: la sbarra che ti sorregge è la stessa che ti rinchiude».
Tre anni fa, con Accabadora, Michela
Murgia aveva ammaliato i lettori con una storia ambientata in una comunità
«interagente e solidale anche nei segreti». L’incontro (Einaudi),
in questi giorni in libreria, di una realtà simile mette in luce le
contraddizioni. Lo spunto è autobiografico: «L’incontro è una festa diffusa in
tutta la Sardegna :
il giorno di Pasqua le statue di Gesù e della madonna vengono portate in due
processioni distinte che si riuniscono in un luogo stabilito. Ma una volta, a
Cabras, un’inimicizia tra parrocchie complicò l’evento. Io racconto la storia
dal punto di vista di un bambino. Il quale, in un’estate che segnerà la sua
crescita, capisce che non esiste solo il “noi”: a volte ci vuole anche l’“io”.
Quando tutti pensano la stessa cosa, vuol dire che qualcuno non sta pensando.
Il romanzo si svolge negli anni ’80, ma il tema della comunità e dei suoi
confini è attuale.
A che cosa si riferisce?
Per esempio all’esaltazione di comunità come gruppo
autoreferenziale propria del leghismo; a una retorica dell’identità legata all’idea di un nucleo impermeabile che non
può fare i conti con l’alterità, pena la sua stessa dissoluzione.
Lei però sembra legata alle sue radici.
Sostiene anche il movimento indipendentista sardo.
I protagonisti dell’Incontro sono tutti maschi.
Nel mio gruppo di amici ero l’unica femmina, ma nessuno degli
altri mi vedeva come tale: mi è venuto spontaneo trasporre i ricordi al
maschile.
Ha avuto un’infanzia avventurosa?
Godevamo di margini di libertà favolosi, inimmaginabili oggi.
Ormai le avventure si vivono solo alla Playstation.
I genitori sono troppo protettivi?
L’infanzia dovrebbe contenere avventure con un margine di
rischio, che non vuole dire rischiare la vita. Con mia madre avevamo un patto, io e mio fratello: potete fare quel
che volete ma ogni mezz’ora dovete farvi vedere. In mezz’ora non combinavamo più
di tanto; però non ci tenevano in casa per stare tranquilli, un rischio se lo
assumevano anche mamma e papà. E non sono venuta su male: ma
senza paura di niente, casomai.
In L’incontro, come in Accabadora, c’è il tema dei legami scelti più forti
di quelli di sangue. Nel primo tra amici, nel secondo tra genitori e “figli
d’anima”, l’usanza secondo la quale i genitori affidano un bambino a un’altra
famiglia. Anche lei lo ha voluto, a 18anni. Perché? Che cosa le mancava?
I molti modi in cui potevo essere figlia non stavano tutti nella
casa in cui sono nata: di mamma non ce n’è una sola. Non è questione di
mancare, ma di che cosa vuoi essere. Il contesto è determinante: non è vero che
puoi diventare qualunque cosa, puoi diventare ciò che il contesto ti permette.
I miei genitori avevano un’attività commerciale e a loro sembrava impossibile
che io potessi fare altro. L’idea che potessi studiare, soprattutto teologia
come poi ho scelto, era molto distante dalla loro sensibilità.
Quindi la nuova famiglia l’ha aiutata a
proseguire gli studi.
Danilo Dolci (poeta, ndr) diceva:“Ciascuno cresce
solo se sognato”. Bisogna che qualcuno ti sogni per come sarai, non solo come
sei. La mia famiglia mi aveva sognato com’ero, per come sarei stata ce ne
voleva un’altra.
Ha cambiato mille lavori. Il preferito?
Insegnare. Ho adorato i ragazzi, miniere di energie che ti
costringono a guardare al futuro con occhi protettivi, da seminatore.
E poi ha cominciato a scrivere. Per caso,
ha raccontato.
Per caso e per culo: non ho mai mandato niente all’editore.
E com’è che l’editore si accorse di lei?
Fu Massimo Coppola, direttore editoriale di Isbn (la casa
editrice con cui poi pubblicai Il mondo deve sapere) e conduttore di Avere vent’anni su
Mtv. Stava preparando una puntata sull’azienda in cui lavoravo come
telefonista, trovò il mio blog. Ed è iniziato tutto. Ho sempre avuto fiducia
nelle mie capacità, ma della cosa che forse so fare meglio non mi ero accorta.
Lei non è uno degli autori che scrivono
per un bisogno irrefrenabile?
No. Le storie si raccontano se qualcuno te lo chiede. Quando, da
bambini, ci sedevamo davanti alla porta di casa c’era sempre uno che, dopo un
momento di silenzio, diceva in sardo: “Nonna, accendi il racconto”. Come se
fosse fuoco per scaldare gli altri. Questo imprinting mi è rimasto: per me
stessa non scrivo nulla.
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