martedì 3 gennaio 2012

La stella di Ratner, di Don DeLillo (Einaudi)

Mi domando spesso se, nella scrittura di DeLillo, la trama rappresenti uno strumento, un mezzo, un escamotage, un lasciapassare per aprire visioni nascoste. C’è una sottile linea, spesso frazionata, ma non per questo meno decisa, nella struttura della sua narrazione. L’andare a ritroso di Underworld che, come la traiettoria di una palla da baseball, compie continui svisamenti temporali. La scrittura documentata di Libra, a metà strada tra una docufiction e la trilogia americana di Ellroy. I soliloqui densi di tragicità nascosta di Cosmopolis che, da soli, svelano una vita metropolitana definitivamente sfuggita al tentativo di classificazione compiuto dai minimalisti. L’apparizione di un linguaggio assassino che svela la forza terribile della parola, ne I nomi. Le immagini statiche di performances e di installazioni artistiche che dominano L’uomo che cade e, in parte, anche quella struttura teologica che è Punto Omega. Le figure di personaggi che incarnano, nella loro verbosità, i deliri di una cultura pop e underground che, come un fiume carsico, appare e ricompare nella vita americana, come in Rumore Bianco e Running dog, fino ad arrivare, con Great Jones Street al suo limite estremo, dove la vita e la morte collimano e collidono.
La stella di Ratner presenta, come un catalogo programmatico di personali ossessioni, tutte quelle costruzioni semantiche e simboliche che DeLillo vede ergersi nel paesaggio di un’America che, al di sotto di una crosta labile di apparente solidità, nasconde afflati di tragedia onirica. La figura del quattordicenne genio della matematica apre tutto un mondo di normale e condivisa follia dove, ancora una volta, è il linguaggio (questa volta quello matematico) a trasfigurarsi in codice indecifrabile, paradigma della nostra schiavitù verso la parola. Torme di scienziati che sembrano preda delle loro più ataviche follie, persi in una eterna costruzione di codici e di teoremi, personaggi secondari (autisti e personale di servizio) che si esprimono per mezzo di una afasia meccanica, e che rimandano a certi simulacri di phildickiana memoria.
Il tutto posizionato in un deserto assolato che ricorda le immagini californiane della miglior cinematografia noir e underground degli anni Settanta. Deserto nel quale, primogenitura di tutte le strutture e installazioni che faranno da sfondo al divenire linguistico dei personaggi dei suoi futuri romanzi, si erge il cicloide, edificio perfetto e insondabile che forse, come il monolito kubrickiano, rappresenta, ancora una volta, l'angosciosa e inquietante ostensione del Nulla.
Un libro.
La stella di Ratner, di Don DeLillo (Einaudi).

Nessun commento: