venerdì 11 giugno 2010

Intervista a Mino Milani

Non è facile parlare di Mino Milani. Almeno per me. Un semplice riassunto non sarebbe sufficiente. Troppe sarebbero le cose che andrebbero tralasciate. Per questo motivo indico due link: wikipedia ed Edizioni Effigie. Lì dentro c'è tutto, o quasi. E forse, quello che manca, è proprio quello che serve. So che Mino sarebbe d'accordo.
Termina con lui questo ciclo di interviste ai vincitori della VI edizione del Premio Letterario Nazionale Tracce di Territorio, la cui Giuria Letteraria è da lui presieduta e coordinata.
In una tarda mattinata di un freddo novembre di sei anni fa cominciammo, circondati dagli scaffali della sua libreria, a ragionare sulla possibilità di creare un premio letterario diverso dagli altri. Se siamo arrivati sin qua, lo si deve solo a lui.


I romanzi, i saggi storici, le sceneggiature per i fumetti, il giornalismo. Mino, tu sei stato, passami il termine, il primo autore multimediale. C’è un punto d’incontro che accomuna tutti questi campi?
Sì, credo. La decisione di fare quello che si vuole, senza paura.

Nella tua storia di narratore non ti sei mai chiuso in una torre d’avorio, né hai mai avuto paura di frequentare generi che, diversamente da oggi, potessero essere visti con sufficienza da una certa élite letteraria. Rispetto al noir o al giallo italiano o perché no, al romanzo storico alla Wu Ming, non ti senti, a ragione, un pioniere?
Non ci sono pionieri nella letteratura. Chi crede di esserlo si illude. Magari si diverte, ma è un po’ patetico. Quello che tu fai, in un modo o nell’altro, è già stato fatto.

Non so, penso a Fantasma d’amore, ma potrei pensare anche a tutti i libri della serie di San Siro. E così mi viene da riflettere sul fatto che tu sia stato un grande indagatore dell’orrore che si nasconde nella banalità del nostro quotidiano. Un nostro gesto, un nostro pensiero possono aprire orizzonti inquietanti? Possono formulare domande alle quali non vogliamo o non possiamo rispondere?
Credo, o temo, di sì. Un semplice gesto, un semplice pensiero possono essere quelli che danno alla tua vita un corso mai cercato, mai previsto. Forse è questo il bello della vita, se la vita ha un bello.

La Provincia Pavese, quotidiano al quale sei molto legato e che hai anche diretto, l’estate scorsa chiese ai suoi lettori di inviare un racconto legato al territorio della provincia di Pavia. In quell’occasione tu affermasti che dietro ogni abitante della provincia c’era una storia che aspettava di essere raccontata. Voglio ampliare questa tua dichiarazione e chiederti: ogni storia merita di essere raccontata?
Sì. Il problema è come raccontarla e come farla diventare storia di altri.

Sei stato definito "il cantore di Pavia". Quanto contano, per chi scrive, i luoghi, i territori, i paesaggi, le case, le pietre? E soprattutto quanto contano i sentimenti che nascono da questi luoghi, da questi paesaggi, da queste pietre? Dai luoghi che abitiamo e che vedono passare le nostre vite può nascere sì amore, ma anche odio?
Luoghi, territori, paesaggi, pietre, e quello che significano. La storia, insomma. Tutto mi nasce da qui o, nei momenti più duri, dal tentativo di non esserci più.

E veniamo a Jack London e a Joseph Conrad. Anzi veniamo a Martin Eden e a Cuore di tenebra. London e Conrad sono tra gli autori che preferisci. In particolare Martin Eden e Cuore di tenebra sono due viaggi attraverso il buio del nostro destino. In che modo ne sei stato influenzato?  Siamo noi artefici del nostro destino o ne siamo in balia?
Quei due grandi libri, (quei due grandi, London e Conrad) sono andati dritti al mio cuore, mi hanno fatto capire che cosa è  vivere, che cosa è scrivere, mi sostengono a ogni momento, con quella splendida invidia che m’hanno acceso dentro. Scrivere qualcosa che valga un poco di quanto hanno scritto loro! Quanto al destino, va bene, possiamo tentare di fare qualcosa per costruirci, e questo è già tanto. Ma il destino non si cura di queste nostre cose, e ci porta dove vuole.

Penso al tuo romanzo Due biglietti di sola andata, che lessi tempo fa. E ne approfitto per farti una domanda tecnica. Quanto conta il dialogo in una narrazione? È sufficiente a caratterizzare i personaggi?
Sì, è sufficiente. Guarda Shakespeare. Ma il romanzo pretende la narrazione, giusto e tu gliela dai.

Quando fai nascere una storia, la scrivi di getto o è necessario del tempo per interiorizzarla?
Getto o no, se la scrivi, l’hai interiorizzata. Diversamente non scrivi una storia, ma solo parole.

Negli anni Settanta si diceva che gli italiani non potessero scrivere romanzi gialli o noir perché era troppo forte l’influenza di Alessandro Manzoni. Direi che quella affermazione sia stata nel tempo sufficientemente smentita. Tuttavia non credi che si debba soprattutto guardare alla storia e non chiedersi mai se si stia scrivendo un giallo o un noir o nessuno dei due?
Credo poco o nulla ai generi; credo poco o nulla all’influenza di Manzoni sugli scrittori. L’avrà, se mai sui critici, che fanno anche loro il poco che possono. Non so se sia stata nel tempo sufficientemente smentita, come dici, l’affermazione che nega a noi italiani di scrivere gialli o noir: li scriviamo e basta, mafia, camorra e una schiera di commissari. E’ di moda. Non sono certo che li scriveremmo, se di moda non fossero. Non nasce un Chandler, da noi, nemmeno uno Spillane, nemmeno un Wallace. Uno Scerbanenco, se mai. Bravissimo, ma altro.

Nel ringraziarti, Mino, ti faccio un’ultima domanda. Che cosa diresti a chi ha un libro nel cassetto?
Di tirarlo fuori, cercare un editore e avviarlo al suo destino. Te ne ricordi? “Habent sua fata libelli.”

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