A volte succede di trovare un comune sentire, pur tra le differenze dei ruoli che la vita ci impone. Donato Dallavalle è l'autore de Il letto di formiche (excelsior 1881). Ci siamo conosciuti attraverso i nostri libri. Una conoscenza mediata quindi dalla parola scritta, mezzo che un po' ci nasconde e un po' invece ci lascia indifesi allo sguardo degli altri. Gli ho posto alcune domande e lui mi ha risposto.
Tu affianchi, all’attività di scrittore, quella di autore cinematografico. La tua scrittura, il tuo stile ne sono in qualche modo influenzati?
Certamente ma sono linguaggi estremamente diversi…e pensa che io scrivo anche per la televisione, quindi un altro stile e altre esigenze. Mi sento un artigiano delle parole. Mi affascina poter esprimere la stessa idea con tecniche e stile diversi. In un copione televisivo conta l’immediatezza, spesso i testi sono fulminanti. Una sceneggiatura cinematografica può essere molto stimolante perché ti costringe a pensare per immagini, a raggiungere una sintesi talvolta micidiale. Anche il più intimo dei sentimenti deve passare attraverso un gesto, uno sguardo mai un pensiero. E poi la sceneggiatura è un punto di inizio, non di arrivo, visto che sarà portata in immagini da un regista con la sua sensibilità, il suo stile. Lo sceneggiatore è uno degli ingranaggi. Secondo me la letteratura è la forma più profonda della scrittura…e destabilizzante per la vita privata. Per come sono io, quando scrivo un romanzo devo fuggire da tutto, non vedere nessuno per settimane se non la natura, il mare, le rocce...
Trovo ne Il letto di formiche un paesaggio che le tue parole fanno apparire cupo, dipinto con colori, oserei dire, quasi marcescenti. Usi un paesaggio corrotto nei colori e nelle atmosfere come una sorta di specchio per l’anima dei tuoi personaggi?
Anche la stanza dove mi trovo ora è lo specchio di me. L’energia che sprigioniamo modifica l’ambiente, i nostri pensieri rimangono imprigionati nelle pareti come solide ragnatele e i miei non sono sempre molto piacevoli. I personaggi de IL LETTO DI FORMICHE sanno di essere corrotti ma credono di avere ancora una possibilità di redimersi. La casa marcia che sprofonda nella terra, gli echi dei contadini nella pianura e la notte che si diluisce nel giorno oscurandolo, predicono loro che forse non sarà così.
Emilio, uno dei protagonisti, è un ex terrorista di secondo piano, componente di un gruppuscolo a metà strada tra lotta armata e black block. Tuttavia il suo ruolo, diciamo così, politico è una sorta di pretesto, di introduzione alla sua personalità. È forse un segnale che mandi al lettore per cominciare ad introdurre il rapporto vittima-carnefice?
Esattamente. Dopo anni di carcere, Emilio non si riconosce più in quello per cui ha lottato ai tempi della militanza. Torna alla casa del fratello per ritrovare l’unica cosa vera per lui: l’amore per Lucia, la nipotina. Ma lei non c’è, è sparita o forse non è mai esistita. Ecco un altro modo di espiare le proprie colpe. I ricordi si mescolano ad una realtà che cambia in continuazione mentre Anna, la cognata, che, come tutte le donne, sa custodire segreti terribili, si fa accecare dall’amore per lui in modo sempre più pericoloso.
Insomma, il confine tra vittima e carnefice si fa sempre più indistinguibile. Forse solo le formiche hanno la risposta.
Nel rapporto costante che crei tra paesaggio, personaggi e differenti livelli di realtà arrivi a descrivere una sorta di entropia che inesorabilmente finisce con l’ingoiare tutto e tutti, con un ruolo quasi catartico. Dalla marcescenza dei colori, degli oggetti e anche della anime sorgerà forse qualcosa?
Tutto viene ingoiato dall’amore. I personaggi, il paesaggio, la dignità e la memoria. La domanda fondamentale che si fa ne IL LETTO DI FORMICHE è quanto si è disposti a cambiare per amore? Amando ti suicidi, in un certo modo. Rinunci a una parte di te e la doni a un’altra persona che, nei casi più fortunati, fa la stessa cosa con te. Quindi, alla fine, vivi in un’altra persona. L’amore è impossibile da descrivere, per questo ci provo ogni volta che appoggio la penna su un foglio. Nel romanzo volevo descrivere l’amore come un balletto inquietante. Una ballerina con le gambe spezzate che continua a ballare, un carillon stonato in sottofondo, un giorno che in realtà è notte.
Tu rifuggi, direi quasi programmaticamente, dai generi. O meglio, riesci a costruirne un interessante mix. Credi anche tu, come me, che chi scrive debba pensare soprattutto alla storia che vuole raccontare, senza mai porsi il problema del giallo, del noir, del romanzo storico, ecc. ecc.?
Una volta un famoso direttore editoriale mi ha consigliato di lasciar perdere le mie storie e di scrivere “un giallo, un noir… quelle cose lì.” Sono convinto, senza falsa modestia, che sarei un ottimo giallista. Conosco i codici, la suspense ma sono un randagio, cerco cose che mi facciano riprovare l’eccitazione che sentivo da bambino quando creavo le mie storie, perduto nei campi all’imbrunire. Quando anche un semplice granaio abbandonato poteva creare un mondo parallelo. Scrivendo thriller mi annoierei. Almeno al momento.
Quando comincio a pensare a una nuova storia sono molto eccitato. Non penso se ci sarà un detective o un serial killer e nemmeno quante copie venderò.
Solitamente un’immagine incrociata per caso mi bussa alle palpebre con insistenza. Vuole raccontarmi una storia che, spesso, è debole e monotona ma piano piano migliora. Quando comincia a farmi male, dentro, capisco che l’immagine celava la storia giusta.
Mi piace molto il fatto che tu abbia costruito una storia con pochi personaggi. Mi fa pensare a Cul de sac, di Polanski. Inoltre leggendoti trovo atmosfere alla Stalker, di Tarkovskij o, per rimanere in ambito letterario, alla Altra gente, di Martin Amis. Quali sono, se ci sono, gli autori ai quali ti ispiri?
Di solito sono le immagini a ispirarmi. Quelle evocate dal cinema, dall’arte, dalla natura. Adoro Polansky, Jacques Tourneur e Hitchcock. Sono vere lezioni di grammatica per chi vuole raccontare una storia. In letteratura amo le combinazioni semplici e fulminanti, si sono un po’ sensazionalistico, lo ammetto. Mi ispirano sempre le immagini di Cornell Woolrich, Alessandro Manzoni, nonostante il tipico boicottaggio al liceo, e Phillip Ridley. Il suo FENICOTTERI IN ORBITA è un bacio freddo sulla nuca.
Ma in realtà, vedere un airone fermo tra le nebbia che sale lenta dai campi o una tempesta di mare, oltre ad aprire i bronchi e la mente, è la più grande ispirazione per me…
Il letto di formiche è il tuo romanzo d’esordio. Qual è il tuo rapporto con l’editoria?
Conflittuale ma credo sia comune a molti scrittori. All’inizio non ero assolutamente preparato alle presentazioni, le interviste, l’indifferenza e la sovraesposizione.
Certo quando vedi un libraccio riempire tutte le vetrine e il tuo accanto ai cessi può dare fastidio… ma visto il mio cognome, sugli scaffali sono spesso in compagnia di Roald Dahl e per me è un grande onore.
Sulla base della tua esperienza, che consiglio daresti a chi ha un romanzo nel cassetto?
Di scassinare quel maledetto cassetto. Di far leggere il romanzo, di non stancarsi di provare, di non sentirsi un nuovo Checov incompreso, di spedirlo alle case editrici senza troppa paura del rifiuto. Non è come essere scaricato dalla ragazza di cui ti sei innamorato. E’ molto peggio all’inizio ma si supera meglio.
Giovedì 4 marzo, alle ore 18, Donato Dallavalle presenta qui il suo romanzo.
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