sabato 28 dicembre 2013

Piattaforme che mappano narrazioni. Errant Editions #2014newborders

Errant Editions, casa editrice digitale che tra le prime nel panorama editoriale italiano ha avuto la consapevolezza della importanza che la piattaforma tumblr ha nell'universo delle narrazioni, inaugura un nuovo tumblr che si affianca a quello che già da anni la vedeva protagonista nel mondo del microblogging. Come scrivono i responsabili del collettivo errante: Un editore digitale internazionale che inizia da una nuova "casa" per proporre progetti, ampliamenti, novità, sorprese e soprattutto belle storie. Nuove frontiere per le storie, nuove proposte, nuove idee, unite al percorso già compiuto, anzi, in strettissimo rapporto, Vicine. Resta il tumblr classico http://erranteditionsdigitalpublisher.tumblr.com. Questo 2014 New Borders indica un passaggio "oltre" nella ricerca e nel lavoro del nostro gruppo errante.
Piattaforme che mappano il territorio delle narrazioni, che ne ampliano le frontiere, che lo sviluppano, che lo creano.

sabato 21 dicembre 2013

Due sono le notizie

Due sono le notizie che si intersecano in un percorso forse simbolico, significativo, significante oppure frutto di semplici casualità borgesiane finite per azione del caos su una mappa qualsiasi dell'impero, segnata nella cera di una tavolozza di terracotta dallo stilo di uno scriba sumero che sogna o crede di sognare Jung.
Questo blog sul quale scrivo in questo momento (forse sono io lo scriba sumero o sogno di esserlo oppure è lo scriba sumero che sta sognando me) compie oggi cinque anni. Francesca Mazzucato dedica invece un magnifico pezzo sul suo blog d'autore di Repubblica.it a La parte di niente II. La parte degli scrittori.

giovedì 19 dicembre 2013

L'universo quantistico della scrittura

Osservazioni lisergiche di una pianura acida e mutante come quella della scrittura condivisa in quell'universo quantistico della socializzazione delle parole, dei pensieri, forse, dove l'osservatore è demiurgo spietato e nel contempo creatore di ciò che osserva e che probabilmente scrive o da cui è scritto a sua volta, in un divenire che atomizza la scrittura che diviene niente o forse, proprio per questo, tutto. Deserti gialli di sanguinari scenari di libri bolaňiamente squartati ovvero periferici teppismi che assurgono a poetiche borgesiane, dove un balcone fiorito pulsa di spermatiche delusioni. Tutto il sistema narrativo che giorno per giorno si appalesa ai nostri stanchi occhi va ben oltre la socializzazione delle narrazioni, la condivisione dei contenuti. Ogni minuto che passa, ogni secondo, diventa sistema onnivoro, che si ciba della scrittura e dello scrivente che crede di essere, a ragione o a torto, quella stessa scrittura. E questa sottile linea che unisce e fonde narrazioni e enucleazioni dell’anima, come se le parole creassero, a un certo punto, una via di salvezza o di dannazione, come gli elicotteri sul tetto dell’ambasciata USA a Saigon, nell’aprile del 1975, apre in noi la disperata ricerca di un lasciapassare rilasciatoci forse un giorno da feroci servizi di (in)sicurezza che crediamo di aver servito.

martedì 17 dicembre 2013

La parte di niente II. La parte degli scrittori (in formato Kindle)

Da pochissimo La parte di niente II. La parte degli scrittori è disponibile anche in formato Kindle, qui. Prosegue quindi il percorso della efferata trilogia. Arriverà anche una terza parte (qui una piccola prova di scrittura) che avrà come sottotitolo La parte degli editori, ma adesso è ancora troppo presto. Godetevi qui una piccola anteprima di questa seconda parte e poi, se vi piacerà, andate nel Kindle Store di Amazon e, prossimamente, anche negli altri store.

lunedì 16 dicembre 2013

La parte di niente II. La parte degli scrittori (Errant Editions)

Efferate trilogie che arrivano alla seconda puntata. Dopo La parte di niente, inizia il suo percorso La parte di niente II. La parte degli scrittori, sempre per i tipi della Errant Editions. Lascio la parola all'editore:

La seconda parte della trilogia di Angelo Ricci è da oggi disponibile a un prezzo speciale. La trovate, per ora, solo sulla piattaforma Lulu.com, scaricabile qui
In seguito si troverà in tanti altri possibili altrove. Scrisse Angelo Ricci all’epoca dell’uscita de La parte di niente, primo tassello di questo puzzle diviso e divisibile in tre parti ma forse molte di più:
"La parte di niente è l’inizio di una trilogia, efferata forse. Una tripartizione narrativa e narrante, fatta di libri, di autori, di storie, ma fatta anche di denaro e di potere che è quello che rispose una bibliotecaria (citata da Robert Darnton nel suo saggio Il futuro dei libri, edito da Adelphi) quando le chiesero in che cosa consistesse il suo lavoro.”
A 1,99 è un dono per questo periodo di giorni speciali, non resterà a lungo questo prezzo promozionale, lo troverete in altri store
Si tratta di un eBook Errant 2013/2014, la presentazione è iniziata adesso, a dicembre, ma la sua promozione e l’accompagnamento, la riproposizione, proseguirà a gennaio e non solo. Anzi.
In programma un terzo volume al quale Angelo Ricci sta già lavorando, e, naturalmente, alla fine, la raccolta dei tre volumi in un’unica edizione per la quale stiamo studiando qualcosa di speciale.
Ma anche per questo eBook stiamo studiando e immaginando qualcosa di speciale, intanto la cover, di Alberto Malossi, autore anche della prima cover  introduce nell’universo lisergico e capace di stordire che Angelo Ricci ci offre.  Nomi, storie, incroci, inventati? Reali? Che vanno in direzioni impensabili. Per chi ci legge, per chi ci segue, intanto, un estratto
Ombre dal tremore sensuale danzano nelle tenebre che avvolgono come una mater luciferina le pupille di Borges, il grande aedo argentino.Grida di battaglia si materializzano dalle fauci infuocate di guerrieri che si prostrano di fronte alla ricompensa eterna del Walhalla. Rune misteriche si fondono in un amplesso di calda carnalità insieme a profili essenziali di scribi assisi in piazze di geometriche città che ospitano mastabe sumere.Destini definitivi, giocati e persi in lotterie sataniche, diluiscono il tempo che scorre in labirinti estremi, dove ripugnanti esseri metà uomini e metà demoni stuprano fanciulle profumate.Mappe di territori abitati da belve che prevedono il futuro e compongono domande senza risposta alcuna ammantano e coprono, scurendolo senza possibilità di salvezza, l’intero orbe terraqueo…..

giovedì 12 dicembre 2013

Il giardino di Montaigne, di Pier Angelo Soldini (interlinea)

Terza parte di una trilogia diaristica (dopo Il cavallo di Caligola e La forma della foglia, entrambe anch’esse per i tipi di interlinea), dove la forma del diario e della raccolta di aforismi e di pensieri si trasfigura in opera letteraria autonoma, nella quale il sentire dell’Autore diviene ritratto ineludibile di un’epoca e delle sue forme e delle sue amarezze che sono anche quelle di chi le scrive, di chi le crea, di chi le ha vissute e sofferte
Pier Angelo Soldini, scrittore riscoperto, come tanti non lo sono ancora. Interprete di quei decenni che dagli anni Quaranta ai Settanta sono stati formativi di una società, di una nazione, perché no, di una collettività gravata da sempre dai tonitruanti proclami di fascistizzanti ventenni e da decenni di comunque incompresa (incompiuta?) democrazia. 
Voce solitaria nella sua definitiva tristezza, cane sciolto nella sua determinata volontà, Soldini si fa non solo protagonista, come sono sicuro non avrebbe voluto, ma diviene traslitteratore delle difficoltose sembianze della immagine di in paese (paese come l’Italia, ma paese inteso anche come la sua amatissima Castelnuovo Scrivia, alla quale ritorna e dalla quale deve comunque andare via, sempre) che lascia ininterrottamente esterrefatti quelli che, come lui, come Flaiano, come Morselli e come altri, hanno tentato di interpretare andando in cerca di una difficile parvenza di significazione. 
Voce insostituibile di decenni che paiono preistorici, mentre altro non sono se non i prodromi la cui comprensione è fondamentale per valutare l’evanescenza della nostra contemporaneità, Pier Angelo Soldini è bussola imprescindibile e scrittore insostituibile la cui lettura diventa lasciapassare necessario per il presente.
Un libro.
Il giardino di Montaigne, di Pier Angelo Soldini (interlinea).

martedì 10 dicembre 2013

talemotion.com: una nuova piattaforma per selfpublisher

Panorami letterari ormai collegati al mondo 2.0 vedono la nascita di piattaforme dedicate al selfpublishing. Alcune gestite dai grandi gruppi editoriali, altre invece alla iniziativa di società che si occupano del mondo della narrazione condivisa. Appartiene a questa categoria telemotion.com, di cui ricevo notizia che, come si diceva sui giornali di una volta, volentieri pubblico.
Ci presentiamo brevemente: siamo una società di Padova che si occupa di Self Publishing: abbiamo ideato un sito internet www.talemotion.com dedicato agli utenti che si vogliono auto-pubblicare.In un'ottica di sviluppo del nostro progetto, abbiamo dato inizio a rapporti di collaborazione con le scuole di scrittura creativa nazionali e con le associazioni culturali che promuovono lettura e scrittura.L’impronta di talemotion.com segue la logica della social community; gli iscritti gestiscono in maniera autonoma i rapporti e le attività rese disponibili dal sito: votazioni, recensioni, traduzioni, interpretazioni dei racconti pubblicati, partecipazioni a concorsi e molto altro ancora.
Una piattaforma che fa quindi della collaborazione fra autori e lettori il suo punto di forza. 
Forse qualcuno dei partecipanti verrà notato da un grande editore e compirà il salto verso la notorietà letteraria. Chi può mai saperlo. Ai posteri l’ardua sentenza. Nel frattempo faccio un grosso in bocca al lupo a tutti i selfpublisher e come diceva lo shakespeariano capitano Picard in All good things (episodio finale della serie Star Trek-TNG): "Sky’s the limit".

domenica 8 dicembre 2013

Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, di Aldo Agosti (Laterza)

Immaginari effigiati in bianco e nero, dallo sfondo sgranato di foto pubblicate su numeri de L’Espresso o del Corriere tra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta. Baschi nenniani e occhiali dalla montatura di tartaruga saragattiani, sguardi penetranti togliattiani e berlinguieriani. Rivolte di maggio francese che riverberano le loro rivendicazioni in un passato (presente?) italico dove vanno a mescolarsi con lo sguardo di un Gian Maria Volonté che può avere l’occhiata attonita e disperata dell’operaio Massa o quella sadica del funzionario di polizia nelle narrazioni filmicamente geniali e petriane La classe operaia va in paradiso e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Movimenti tellurici di una società che sbanda tra autunni caldi metalmeccanici e prodromici proclami golpisti di una destra dal saluto romano e dal revanscismo repubblichino. Diaspore e scissioni socialiste e operaie, drammi politici che travalicano l’ambito del privato personale che diventa anch’esso politico. Volantini lasciati nel vento di fronte a luoghi dove il lavoro è lontanissimo dall’essere postindustriale e comunque c’è ancora, almeno come coscienza condivisa di un corpo sociale che nei decenni a venire diverrà solo evanescenza. Verbali di assemblee di sezione e articoli di organi di partito, con lettere al direttore che, nella loro innocente sgrammaticatura, lasciano penetrare la tentazione di un deluso ritorno al privato che poi sarebbe stato incoraggiato se non addirittura pianificato da infauste deviazioni piduiste e di servizi segreti al soldo del caos.
Aldo Agosti compie una serissima analisi non solo di un partito politico, ma di uno spaccato della società italiana e di un momento fondamentale della  storia del nostro paese.
Troppo spesso la memoria si perde e diviene luogo di creazione di falsi e nefasti miti. Aldo Agosti ci aiuta a ritrovarla.
Un libro.
Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, di Aldo Agosti (Laterza).

lunedì 18 novembre 2013

Un sogno in rosso, di Alexander Lernet-Holenia (Adelphi)

Territorialità mitteleuropee fanno da sfondo a questo romanzo, così come potrebbero fare da sfondo a immaginari freudiani o, perché no, junghiani, gravidi di messaggi cifrati che reinterpretano l’orrore del divenire storico.
Lernet-Holenia ci ha abituato spesso nelle sue narrazioni a sfondi immaginifici che si trasfigurano in simboli, in icone dal sorriso enigmatico che si alterano in lasciapassare che potrebbero (possono) farci comprendere, in una affascinante commistione di ironia e tragicità, quelle cupe e oscure sinergie ideologiche che hanno svolto ruoli da protagonisti luciferini nelle crudeltà del secolo breve.
Basterebbe l’incipit, così rimarchevole di influssi forse meteorologici, e che con la mente ci fanno andare a quella perturbazione, simbolo di orrori mortali, che apre L’uomo senza qualità di Musil e, perché no, quella eroica Posizione di tiro di Manchette.
Quello sguardo verso inesauribili pianure galiziane, rutene, polacche che, a loro volta, rimandano a infiniti bassopiani ucraini che altro non sono se non il prodromo storico di raffinate efferatezze che albergano, come attese tartariche buzzatiane, nell’infinita pianura di un’Asia sterminata.
Da una parte le rimembranze feroci di rese dei conti infinite fra baroni sanguinari al comando di cosacchi zaristi e rivoluzionari rossi in seducenti battaglie nella Mongolia atavica e portatrice di cinesi millenarismi, dall’altra influssi ancora eterei di prussiane mutazioni, in marcia ormai verso accadimenti pangermanisti e hitleriani.
Nel mezzo un sinfonico chiacchiericcio di impotenza che ci ricorda quello dei nobili russi in attesa dell’arrivo napoleonico nelle prime pagine di Guerra e pace. Mentre su tutto e tutti aleggia una figura misterica e satanica di Anticristo, introdotta dalle profezie di uno scrittore fallito.
Lernet-Holenia, con Un sogno in rosso, descrive quel tragico sonno della ragione che da sempre ha generato mostri luciferini. E lo fa meglio di un trattato storico.
Un libro.
Un sogno in rosso, di Alexander Lernet-Holenia (Adelphi).

domenica 10 novembre 2013

Rien ne va plus: la recensione di Critica Letteraria

Carla Casazza scrive su Critica Letteraria una bella recensione a Rien ne va plus.


"Lo sai che io sono stato Dio?". Inizia in una sala da gioco televisiva, nell'atmosfera artefatta di sfavillante nulla, questo racconto di Angelo Ricci che fa parte della collana Inaspettati/ Unexpected di Errant Editions. Ebook brevi che propongono racconti da leggere nello spazio di un viaggio in metropolitana, nella pausa pranzo, in un intervallo di tempo breve in cui non si vuole rinunciare ad un buon testo compiuto. Partendo dal casinò virtuale, si intrecciano la vicenda dell'anonima conduttrice dall'avvenenza evanescente quanto una giocata on line, e quella del deejay Lawrence Sheik, famoso per le sue originali performance chiamate "barricate sonore", di cui resta un sospetto fino al termine del racconto: forma di protesta estrema attraverso la musica, o spudorata operazione di marketing mascherata con finalità ideologiche? Citazioni tra le righe trasformano il gioco narrativo in caccia al tesoro letterario; sono accompagnate dall'uso disinvolto di un lessico ricercato che diviene esso stesso divertissement come gli infiniti rimandi a persone e luoghi icone di un'epoca, gli anni '70 e '80. Un caleidoscopio vorticoso e colorato che rende perfettamente la frenesia creativa e allucinata, la sete di sensazioni che appaghino tutti i sensi, ma soprattutto la mente e, per alcuni protagonisti di quei decenni, ancora di più il conto in banca. Ne risulta un racconto visionario e assai criptico che di queste caratteristiche fa un punto di forza. Una sorta di ballata psichedelica evocativa e coinvolgente ."Faites vos jeux. Les jeux sont faits. Rien ne va plus".

Il testo originale della recensione è qui.

venerdì 8 novembre 2013

Il mantra dell'installazione pop

Accadimenti interessanti prendono forma nel rumore bianco dei canali della marea digitalizzata televisiva. Accanto alle eterne televendite, che da sole costituiscono una imprendibile fortezza postmoderna, c'è da tempo la reiterazione costante di alcune sitcom (I Robinson, Tre cuori in affitto), che hanno traghettato i Settanta verso gli Ottanta. Sitcom di cui vengono trasmesse le annate complete, dalla prima all'ultima puntata e poi, una volta finite, riprendono ancora, dalla prima all'ultima puntata, in blocchi di cinque, sei, dieci puntate a serata, in una narrazione senza soluzione di continuità. Una vera e propria installazione pop, un mantra digitale delilliano che ricorda la video installazione di Douglas Gordon, 24 Hour Psycho, che rallenta e dilata in ventiquattro ore il celebre film di Hitchcock e che è presenza muta e inquetante di Punto Omega.
L'impossibilità di definire da sempre il termine postmoderno si arresta di fronte a questa affascinante manifestazione. Il postmoderno siamo noi e le nostre vite sono installazioni pop.

lunedì 4 novembre 2013

Solaris, di Stanisław Lem (Sellerio)

Avevamo assoluta necessità di questa traduzione integrale. Noi, che da sempre abbiamo cercato nella fantascienza quelle impronte, quelle tracce che ci avrebbero senz’altro condotto al tentativo, forse titanico, di comprendere il presente. Ricordi cinematografici sostengono questa opera dalla lettura irrinunciabile. Le atmosfere rarefatte di Tarkowskij che vengono poi riprese dall’hollywodiano Soderberg e scopriamo (e ci stupiamo di questo e forse non dovremmo), nella postfazione di Francesco M.Cataluccio che Lem preferiva il secondo al primo, in una rivelazione che ci fa comprendere molto di quello che credevamo di sapere, che ci illudevamo di conoscere di quella fantascienza altra che, come quella dei fratelli Strugackij (altri oggetto tarkowskijani con il loro Picnic sul ciglio della strada divenuto l’immenso Stalker) scriveva quasi in opposizione semantica e sintattica alle space operas degne di un western alla John Ford e alle saghe asimoviane debitrici del Decline and fall of the Roman Empire di Gibbon.
Colossale affresco della sofferenza della psiche umana, Solaris va ben oltre l’essere soltanto un romanzo. Solaris è la zona misterica della letteratura, tra quei rimandi borgesiani a infinite biblioteche, enciclopedie e raccolte di articoli sulla Solaristica, che riprendono a amplificano il desiderio inappagato e inappagabile della totale conoscenza (maledizione tipicamente umana) e quella tassonomia fantastica di autori e opere che anticipa di molto il Bolaňo di La letteratura nazista in America.
Luogo inafferrabile a qualsivoglia definizione letteraria, Solaris è l’ostensione anatomica dell’infinita insondabilità della mente umana.
Come disse una volta Lem, nella fantascienza c’è molta spazzatura e, qualche volta, del genio. Stanisław Lem rappresenta senza ombra di dubbio il genio.
Un libro. 
Solaris, di Stanisław Lem (Sellerio).

sabato 2 novembre 2013

L'acino fuggente, di Enrico Remmert e Luca Ragagnin (Laterza)

Esiste una linea narrativa che, spargendosi dalla parola scritta fino al mare infinito del web, inizia dall’imprescindibile Ermanno Cavazzoni e lentamente scende a valle, attraversando Paolo Nori, Alessandro Bonino e arrivando a lambire Enrico Remmert e Luca Ragagnin. È la linea espressiva dei fous littéraires, dell’immagine felliniana, della furbesca ingenuità del Bertoldo, della tragicomica vitalità delle maschere della Commedia dell’Arte, che vive in un eterno e sanguigno paesaggio narrativo che spesso è geniale, altre volte un po’ stucchevole, ma comunque c’è e lascia il suo segno.
Remmert e Ragagnin sono vittime e carnefici al contempo di questa linea narrativa che prendono e fanno combaciare con un paesaggio e un territorio che è quello di quel Piemonte che diventa Monferrato, Langa e Roero. E la cartina della loro poetica diventa così magistralmente la stessa cartina di un territorio, nella consapevolezza affascinante, e che gli Autori dimostrano, che una mappatura narrativa è anche la mappatura di un luogo e viceversa.
Geniali sì, Remmert e Ragagnin, ma anche un po’ stucchevoli, in quella narrazione che, a farsi prender troppo la mano, diventa maniera e si sente che manca comunque un Beppe Viola che fa il verso, ma lui lo faceva quasi trasfigurandosi, al Gioann Brera.
L’acino fuggente è un’opera interessante ma incompiuta, un po’ come quelle che son belle sì, son coinvolgenti sì, ma son un po’ dolci e un po’ fresche e manca sempre un qualche cosa, un po’ come un kiwi che non sa se esser lampone, fragola o limone.
Un libro.
L’acino fuggente. Sulle strade del vino tra Monferrato, Langhe e Roero, di Enrico Remmert e Luca Ragagnin (Laterza).

martedì 29 ottobre 2013

La caduta, di Diogo Mainardi (Einaudi)

Come un Borges intento a costruire un gioco di specchi sui confini della parola o un Bolaňo immerso nella costruzione di un libro-universo che nasca dalla carnalità della vita, così Diogo Mainardi edifica una struttura narrativa dove circolarità temporali, drammi personali, tracce pittoriche e letterarie, pop e postmoderne danno alla luce un libro-romanzo-saggio dalle tonalità particolari e dalle forme genialmente originali.
Perché l’Autore trasfigura la tragica fatalità che è all’origine di questa narrazione in matrice produttiva di eventi e di ricordi e di connessioni, eventi, ricordi e connessioni che sono personali e anche patrimonio condiviso dell'umanità tutta, quasi che la stessa parola scritta possa divenire macchina per ricongiungere altre connessioni, connessioni che hanno bisogno di essere curate e coltivate.
Libro-simbolo che diventa congegno, soggetto e oggetto di rimembranze, libro-medicina che come strumento nelle mani di uno sciamano letterario si trasforma in veicolo di nessi, legami e concatenazioni, La caduta trae la sua forza, la sua potenza narrativa, proprio dalla sua impossibilità di essere incasellato in una definizione letteraria, impossibilità che diviene momento estremo di libertà compositiva.
I 424 passi che compongono questo testo sono, nel contempo, i passi dell’Autore, i passi del figlio, i passi dei lettori e i passi di una composizione narrativa dove la parola e le connessioni letterarie, artistiche e culturali convergono verso la creazione di un romanzo universo che come le Wunderkammer cinquecentesche si pone l’obbiettivo di essere territorio di composizione del tutto, attraverso l’esplorazione di quel luogo mediano che sta a metà strada tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande e che è il momento di comprensione del mistero della vita, così come avrebbe immaginato Giordano Bruno.
Affascinante e misterico allo stesso tempo, La caduta va ben oltre ogni definizione, creando a sua volta l’esempio di una nuova e forte forma narrativa.
Un libro.
La caduta. I ricordi di un padre in 424 passi, di Diogo Mainardi (Einaudi).

mercoledì 23 ottobre 2013

La prossima battaglia. Interviste con Roberto Bolaňo (medusa)

Un altro tassello si unisce a quella struttura narrativa poliforme e caleidoscopica che è l’opera di Roberto Bolaňo. Una struttura che ha la particolarità di vivere non solo dell’imponenza di ciò che il grande scrittore cileno ha composto, ma anche di quello che su di lui si scrive. Le edizioni medusa pubblicano questa raccolta di interviste, a cura di Gabriele Morelli, che aggiungono importante materiale per la comprensione della narrazione di Bolaňo.
Interviste uscite su giornali cileni nel periodo compreso tra il 1998 e il 2003, periodo in cui Bolaňo era ormai, appunto, Bolaňo.
Come in un racconto di Borges l’autore è conscio ormai di essere divenuto tutt’uno con la propria opera, quasi prigioniero di un destino letterario certamente trionfale, ma osservato dallo stesso con volontà quasi maniacale di precisazione, di affermazione, di alterazione, nella ricerca di quella concisione di enunciazioni che possano avere la forza di rimarcarne la personalità.
È un Bolaňo ancora una volta affascinante e decisivo quello di queste interviste, un Bolaňo se possibile ancor più consapevole di quello che lui stesso definiva la pericolosità della letteratura, intesa non come esercizio di stile, bensì come ricerca di quell’universo della parola scritta che vive nell’eternità al di là dei di ogni libro, al di là di ogni autore.
Se per E. M. Forster la letteratura era un paesaggio, un luogo, un territorio, per Bolaňo la letteratura è un Leviatano, nato per volere di Dio ma comunque associato anche al demonio, e la parola scritta diventa quasi una danse macabre dove lo scrittore è vittima e carnefice, dannato e demiurgo nel contempo.
Un libro da leggere, un altro strumento di fondamentale interesse per tutti i bolaniani.
Un libro.
La prossima battaglia. Interviste con Roberto Bolaňo. A cura di Gabriele Morelli (edizioni medusa).

martedì 22 ottobre 2013

La bellezza delle cose fragili, di Taiye Selasi (Einaudi)

Linee sottili ma temprate come l’acciaio, l’acciaio della sofferenza, del rimorso, delle difficoltà dell’anima, uniscono trame che fondono l’intima tenerezza dell’esperienza e la difficile genesi delle scelte, che il più delle volte, più che volute o cercate, sono subite e imposte, con le asprezze di vite avvolte, loro malgrado, dai mutamenti di un divenire non scevro dalle circostanze e dagli sconvolgimenti sociali, politici e storici della collettività.
Un’odissea interiore, somma dell'interiorità di altre odissee geneticamente legate, che va a ricomporre le tessere di uno sfaccettato mosaico (e di un lessico) famigliare e snoda il suo percorso (i suoi percorsi) tra i colori di un grande affresco della contemporaneità, in cui le tinte amorevoli della dignità e della compassione si amalgamano con le tinte forti e sanguinanti di un dolore frutto di ferite irrimarginabili.
Piani narrativi e temporali che intersecano se stessi, nella ricerca faticosa di una ricomposizione affettiva in cui la struttura delle parole e gli stilemi sono strumenti di una lenta indagine dell’inconscio, di una ineludibile rincorsa, sofferente e vulnerata, verso un difficile orizzonte, verso un traguardo forse possibile, verso un luogo in cui tutte le piaghe potranno essere un giorno, chissà, in qualche modo lenite.
Dispiegata tra due continenti, l’America del sogno, delle opportunità, del valore riconosciuto, ma anche delle inumane durezze di un capitalismo primitivo e darwiniano e l’Africa, l’Africa che è terreno di conquista e anche vittima sociale e politica di quelle durezze e di quelle tragicità imposte proprio da quell’Occidente che sogno e opportunità è solo in apparenza, La bellezza delle cose fragili si mostra come un’epifania del presente, di un presente che fa delle contraddizioni e dello sfruttamento la sua atroce bandiera, imbelletata ancor più crudelmente dalla ineluttabilità delle disuguaglianze spacciate per traguardi di una modernità a uso e consumo dei pochi e a perenne danno dei molti. Forse sarà proprio salvando la bellezza delle piccole e fragili cose dell'anima che troveremo un pretesto per andare avanti.
Taiye Selasi ci dona questo affresco dai toni dostoevskijani. Nadine Gordimer ha ora una erede letteraria.
Un libro.
La bellezza delle cose fragili, di Taiye Selasi (Einaudi).

martedì 15 ottobre 2013

Morti di fama, di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini (Corbaccio)

Sì, tutto vero, purtroppo. Tutto documentato. Lo aveva già scritto Carlo Formenti qualche anno fa (forse con meno descrizioni da Mondo Movie alla Gualtiero Jacopetti). Epater le bourgeois, ça va sans dire. Siamo tutti marionette, morti di fama, disposti a venderci per un piatto di lenticchie e forse ancor meno. Prigionieri di un’assurda matrice, siamo cani di Pavlov che allegramente producono contenuti, arricchendo multinazionali digitali fondate e dirette da imberbi adolescenti dallo sguardo ammaliante e le tasche piene di dollari e che sembrano personaggi di un plot postmoderno dagli echi delilliani. I tenutari dei blog letterari portano il cervello all’ammasso, ipnotizzati dai luciferini pifferai di Hamelin delle case editrici, assediate dal disastro e che li vedono non come avanguardie, bensì come ultime spiagge (parole degli Autori). I selfpublisher sono inconsapevolmente al servizio di qualche algoritmo misterioso e gli ebook contan poco o nulla. Inquietanti fenomeni da baraccone siliconati popolano lande digitali, spargendo visioni di se stessi come gli scorticati di Fragonard.
È una vita difficile, proclamava anni fa Tonino Carotone o, come già nel 1914 cantavano i fanti inglesi, le cui trincee di morte sconvolsero ben più di un membro degli Inklings, it’s a long way to Tipperary.
Peccato che siamo ancora forse al giuseppinismo o a Napoleon Duarte che voleva cambiare dall’interno il Salvador mentre gli squadroni paramilitari gli rapivano la figlia, o al salotto settecentesco dove intellettuali certamente illuministi danno comunque consigli al sovrano borbonico o asburgico di turno (e anche in quell’epoca non è che Voltaire fosse una mammoletta, editorialmente parlando, vedi Il futuro del libro, di Robert Darnton). Il problema è sempre quello: capire da che parte della matrice siamo schierati, anche se abbiamo fatto nostro il motto di Andreas Baader, Ulriche Meinhof  e Gudrun Ensslin, battere cioè la borghesia con i suoi propri mezzi (e infatti Morti di fama ha un tumblr e un indirizzo gmail).
Forse tutti noi, (autori del saggio e lettori) dovremmo inghiottire la famosa pillola rossa.
Un libro.
Morti di fama, di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini (Corbaccio).

Zona Uno, di Colson Whitehead (Einaudi)

Ci sono sempre interzone che definiscono momenti di passaggio, luoghi che trasmutano il conoscibile in inconoscibile, eventi che nascondono, tra le pieghe del banale divenire quotidiano, una porta che si apre su paesaggi infernali. L’”Ultima Sera”. È questo l’attimo spaziotemporale in cui la vita del divenire quotidiano si trasfigura improvvisamente in sanguinaria icona dipinta da un millenarista spietato che riecheggia gli autodafé pittorici e i mondi alla rovescia di Hieronymus Bosch o di Bruegel. È questo l’accesso luciferino che Colson Whitehead sceglie per abbattere e riscrivere la storia delle abitudini reiterate di un mondo e di un immaginario che apparivano fin troppo scontati nella loro fiduciosa e incrollabile staticità.
Orde chimeriche e mostruose battono ormai le vie di campagne e di metropoli. Fortini e palizzate evanescenti sorgono a delimitare i confini di una certezza che altro non ha di suo se non la procrastinazione preagonica della fine imminente. Luoghi destinati a delimitare i confini culturali di un occidente globalizzato sono ormai soltanto campi di battaglia tra un’umanità rarefatta e gli eserciti di Gog e Magog.
E questa apocalisse scioglie lentamente nell’acido di una scrittura cadenzata tra l’interiorità della follia e l’esteriorità dell’orrore ogni vacua certezza. Relitti delilliani di vite postindustriali (il web ormai silente, come un eterno rumore bianco di orrore; pc, stereo e televisori al plasma che nulla più trasmettono se non la loro desolazione di rottami tecnologici; antibiotici senza effetto e supermarket che grondano cibo marcescente; ristoranti alla moda ormai abbandonati e trasformati in avamposti militari di una resistenza senza speranza; icone metropolitane che si trasfigurano in estremi Checkpoint Charlie) vengono travolti dall'incedere inarrestabile di incubi postmoderni che finora  albergavano silenti nella iconografia in bianco e nero di George A. Romero. Zona Uno è il territorio della battaglia finale, è l’Armageddon alle cui pendici si raduneranno alla fine dei tempi tutti i re della Terra in attesa della morte.
L’io narrante di Io sono leggenda è impazzito, ha imbracciato un Ak 47 e ha fatto irruzione nella abitudinaria follia dell’universo postmoderno di DFW e di DeLillo. E allora l’”Ultima Sera” non ha più potuto celare alcuna speranza, trasfigurandosi in resa dei conti estrema.
Un libro. 
Zona Uno, di Colson Whitehead (Einaudi).

martedì 8 ottobre 2013

Gare de Nice-Ville. Il viaggio (Errant Editions)

Le stazioni sono luoghi che abitano un punto mediano delle nostre vite. Luoghi di attese, sogni, desideri, illusioni. Luoghi che fondono presente, passato e futuro. Simboli di scardinamento e di incardinamento, di noia e di flussi di coscienza, di gioia e di odio.
Errant Editions crea il progetto Gares/Stations (qui il tumblr dedicato), riservato al racconto di queste affascinanti e forse misteriose intersecazioni.
Ho scritto un ebook per questo progetto. Si intitola Gare deNice-Ville. Il viaggio. Mi piace Nizza, mi piace quella ibridazione di luoghi, posture e pietre che è quella zona di confine che racconta la fine del Ponente ligure e l’inizio della Costa Azzurra e che presto si fonde negli aromi della Provenza. Luoghi di mare, certo, ma soprattutto luoghi di monti arsi e definitivi, di contaminazioni di vite e di destini. Forse ho tentato di comporre una narrazione che si avvolgesse in quella che viene definita letteratura erotica, non lo so. Quello che mi premeva era di cimentarmi, per la prima volta, con un io narrante femminile.
Che dire? Buona lettura, o meglio, buon viaggio

mercoledì 2 ottobre 2013

#PointLenana - Intervista a Wu Ming 1

Nella serata di martedì 1 ottobre, Wu Ming 1 e Roberto Santachiara hanno presentato Point Lenana a Pavia, a Spaziomusica. Prima della presentazione ho rivolto alcune domande a Wu Ming 1.

Point Lenana. Come nasce questa collaborazione narrativa tra Wu Ming 1 e Roberto Santachiara?
Nasce da un’intuizione folle di Roberto Santachiara che mi fece leggere Fuga sul Kenia, di Felice Benuzzi e mi disse che, a questo proposito, mi doveva proporre una cosa. Ho letto quel libro e mi è piaciuto subito. Fuga sul Kenia era una sorta di ossessione che da tempo accompagnava Roberto. C’erano da scoprire e ricostruire accenni, punti di contatto, momenti nascosti e a volte criptici del passato di Benuzzi. Fuga sul Kenia rappresentava una specie di “evento matrice”, un evento che poteva aprirsi su altre storie, altre narrazioni. Roberto aveva bisogno quindi di un narratore che sapesse muoversi tra gli archivi, le storie, i documenti. E poi mi ha proposto di andare con lui sul monte Kenya. Da questi fatti nasce la collaborazione che ha portato alla stesura di Point Lenana.

Come avete collaborato, in senso propriamente tecnico, tu e Roberto Santachiara?
Roberto è stato il creatore, il portatore di questo “evento matrice”. Ha animato la volontà di giungere a questa narrazione. È stato sempre presente e sempre molto vicino a questa creazione. Ci siamo continuamente confrontati. Io mi sono fatto carico dell’onere dell'organizzazione e della stesura in senso narrativo.

Il collettivo Wu Ming, penso a quello che teorizzate da sempre, come per esempio nel vostro saggio New Italian Epic, interpreta il divenire storico trasfigurandolo in quello che definisce “sguardo obliquo”. Come si incardina Point Lenana in questa definizione?
Point Lenana è l’apoteosi dell’obliquità. È l’opera che inizialmente ha lasciato più perplessi diversi lettori "storici", poteva sembrare una bizzarria. Una serie di storie incastonate le une nelle altre e che ha dovuto in qualche modo perforare la membrana, il feedback che c’è tra noi e la comunità dei nostri lettori. Point Lenana è il frutto di quattro anni di lavoro fitto. C’era la necessità di risolvere problemi di montaggio, di coordinamento tra le storie, tra i piani narrativi. Point Lenana rappresenta appunto quel nostro “sguardo obliquo” sul Novecento. Attraverso la storia di Felice Benuzzi raccontiamo l'irredentismo, il fascismo, il ruolo dell'Italia nella seconda guerra mondiale, la guerra fredda, il colonialismo.

Quanto per i Wu Ming è importante la ricerca dei punti sconosciuti, delle interzone, di quelle che si possono quasi definire fratture spaziotemporali del divenire storico?
Per noi sono luoghi e momenti fondamentali ai fini di quello che definiamo lo “sguardo obliquo”. Raccontare la grande storia attraverso le piccole storie. A differenza dei romanzi ucronici, che presentano una realtà storica completamente alternativa, noi scriviamo romanzi ucronici potenziali. Raccontiamo vicende che si sviluppano in quei momenti storici nei quali tutto può ancora accadere, biforcazioni temporali in atto, dove potenzialità in divenire possono ancora evolversi verso differenti direzioni.

Nelle vostre opere trovano spazio contaminazioni e ibridazioni letterarie, storiche, narrative. È questo il traguardo a cui doveva arrivare il romanzo dal suo punto di partenza, quello cioè del romanzo dell’Otto e Novecento?
È difficile dirlo perché la definizione stessa di romanzo è diventata sempre più inclusiva. Nel Novecento, per esempio, vengono definiti romanzi opere che invece non sarebbero state definite tali nell’Ottocento. Il canone romanzo si è ampliato e oggi la definizione della sua struttura è molto sfuggente. La definizione di questa categoria è ancora aperta e in continua mutazione anche spaziotemporale. Pensiamo a un romanzo del Settecento come il Tristram Shandy di Sterne, che ha caratteristiche simili a certe avanguardie che sono apparse solo due secoli dopo. Io stesso non saprei come definire Point Lenana, non mi sentirei di etichettarlo, di inserirlo in una categoria. L’importante è comunque raccontare storie. Con qualunque mezzo.

Mi pare di ricordare che i Wu Ming lavorassero a un nuovo romanzo, un romanzo che prendeva le mosse da un’altra interzona storica, gravida di sviluppi e di sguardi obliqui: la rivoluzione francese. A che punto è questo progetto?
Lo consegneremo a dicembre e, se tutto va bene, uscirà ai primi di marzo del 2014. E' un romanzo su ipnosi e Terrore (il Terrore robespierriano). Uscirà sempre per i tipi di Einaudi Stile Libero e si intitolerà L’armata dei sonnambuli.

lunedì 23 settembre 2013

La letteratura nazista in America, di Roberto Bolaňo (Adelphi)

Deliziose e definitive simulazioni che tessono una trama che va al di là della realizzazione dell’opera dell'Autore, opera che trasfigura da sempre se stessa da veicolo descrittivo in strumento, mezzo, particella eterna di un universo che vive e riproduce se stesso tra gli specchi (ustori?) di affascinanti malie che fondono echi borgesiani, sentimenti feroci, vitalità estreme e tragiche escatologie. Universo dove la parola non si limita alla pur fatale descrizione, ma va ben oltre il suo stesso ruolo, sino a giungere alla enunciazione di un vero e proprio atto creativo cosmico.
Tassonomia letteraria che prende le mosse da realtà che sono (diventano) finzione e da finzioni che sono realtà, esercizio definitivo di narrazione estrema che conduce verso orizzonti che fluttuano sornioni in quella interzona del creato letterario, interzona gravida di demiurghi tragici che osservano e plasmano strutture narrative che si palesano lentamente nella definizione dei confini del cosmo narrativo, allo scopo di superare quegli stessi, nella dimostrazione ultima dell’infinito percorso della narrazione. Palesamento di stimmate borgesiane imprescindibili, terra di mezzo narrativa tuttavia bolaňiamente determinata, carta geografica uno a uno di un impero della parola, lotteria fantastica nella cui esibizione vengono domate e condotte alla ragione persino travalicazioni ucroniche phildickiane.
La letteratura nazista in America è tassello irrinunciabile nel e del mosaico bolaňiano, è tessera preziosamente cesellata di quel domino (di quell’universo) narrativo che termine non può mai avere se non nel suo impercettibile e tuttavia irrevocabile crollo organizzato da quel suo stesso autore/demiurgo, crollo che ha lo scopo ultimo della e nella dimostrazione dell’orrore atavico che alberga da sempre in quella gnosi misterica e indicibile che è l’umanità.
Un libro.
La letteratura nazista in America, di Roberto Bolaňo (Adelphi).

venerdì 20 settembre 2013

giovedì 19 settembre 2013

La parte e il frammento

Francesca Mazzucato dedica un bellissimo post sul suo blog d'autore di Repubblica.it al bolaniano La parte di niente. E come in un gioco letterario in cui i libri vivono di vita propria il Borges-frammento, interzona prodromica di Borges aveva un Tumblr, uscito parecchio tempo fa, ritorna primo nella classifica dei bestsellers di Ultima Books.
Bolaňo, Borges, parti, frammenti, libri che giocano, respirano... vivono.

martedì 17 settembre 2013

Il ragazzo che credeva in Dio, di Vito Bruno (Fazi)

Un turbinio di parole: franche, lucide, definitive. Un ritmo febbricitante. Un’ansia soffocante come soffocanti sono il vento, il caldo e la polvere di una torrida estate.
Una storia. Una storia antica che si veste delle meschinità e degli eroismi dei contemporanei. Una città. Una città di pietra e di ferro. Una città di uomini e di donne che, nonostante tutto, vivono. Una città che è Taranto, paradigma inquietante di sofferenze di inquinamento e di morte e che solo ora sono dominio della vulgata giornalistica. Una città che è prodromo di una campagna di sassi, di alberi. Una campagna che è scrigno tuttavia di dolci ricordi.
Un uomo: un prete. Una donna: un’immigrata, una prostituta.
Vito Bruno ci accompagna attraverso la crisi umana di un sacerdote, che diviene simbolo delle nostre contraddizioni e delle nostre ipocrisie.
Per ognuno di noi c’è comunque un rifugio. È sufficiente cercarlo. È sufficiente volerlo. Anche attraverso il dolore e la sofferenza.
Come dice Alena, la protagonista: “Voglio tornare a casa.”
Un libro.
Il ragazzo che credeva in Dio, di Vito Bruno (Fazi).

lunedì 9 settembre 2013

Intervistato da "La poesia e lo spirito"

Giovanni Agnoloni mi intervista per La poesia e lo spirito, uno dei più importanti e seguiti blog letterari italiani. Abbiamo parlato di scrittura, letteratura, autori, libri. A Giovanni sono piaciute molto le mie risposte che sul suo profilo Facebook ha definito "illuminanti". Per parte mia lascio ogni giudizio a chi avrà la bontà e il tempo di leggere l'intervista (qui).

lunedì 2 settembre 2013

Canti del caos, di Antonio Moresco (Mondadori)

E questa ostensione eterna di un canto di parole che appare sempre improvvisa pur nella sua estrema volontà di raccontare la necessità deiettiva della perpetuità dell’essere. Apparizione quasi liturgica, messa cantata di luoghi che stuprano parole, opere e omissioni di soggetti che ammantano i loro scheletri di una pelle scuoiata che mostra profonde ulcerazioni che sono dell’anima e del corpo nel contempo. Suono profondo, mistico, terminale. Vibrazione che emerge da un sottotraccia senza fine proprio perché una fine ha, ed è una fine destinata alla ripetizione reiterata e dolente, pur nella sua intrinseca attrazione marchiata a fuoco dal segno di un brivido di sensualità, come la pena inflitta da un demone che mostra sorrisi atroci, inchiavardato nell’eternità di un inferno che si appalesa come una derisione dell’umanità tutta. Pareti scarnificate, offuscate da lugubri sfumature che fanno da scenografia al divenire caparbio di sensazioni vitali e mortali che proprio nella loro reciproca penetrazione ingravidano l’universo. Massa di storie che scardina le porte di un continuum narrativo che esibisce i propri visceri allo scopo di giungere alla stupefazione di quello stesso continuum e di tutti quelli che potranno da esso nascere, nella creazione finale di una nuova corporeità delle anime attraverso la parola. Parola che si fa strumento, ma che diviene anche protagonista che si erge nell'assoluto, che è descrizione, ma anche dimostrazione quasi cartesiana del caos. La materia primordiale muta se stessa in vita palpitante e nasce e muore e rinasce e muore ancora nella negazione e nella affermazione. Luogo che abita la perfettissima zona mediana tra il cosmo e l’atomo, tra la vita e la morte, Canti del caos è l’inno alla nostra modernità così primitiva, così medievale, così scissa e nel contempo unita, vivente tra gli stimoli atavicamente irrimediabili del nostro cervello rettile e l’illusione della onnipresente virtualità tecnologica. Canti del caos va letto perché Canti del caos siamo noi.
Un libro.
Canti del caos, di Antonio Moresco (Mondadori).

giovedì 29 agosto 2013

La vedova incinta, di Martin Amis (Einaudi)

Ormai da tempo, parlando di libri non ho bisogno di essere guidato nelle mie scelte. Ma, anni fa, il titolare di una libreria mi mise in mano una copia di Altra gente e mi disse “questo è un libro che dovrebbe piacerti”. E ci volle poco, nel passare da Altra gente a Territori londinesi, per capire che Martin Amis era uno scrittore che con la follia e l’inquietudine ci sapeva fare. Amis non ha nessuna remora e nessuna paura nel confrontarsi con tutto quello che potrebbe cadere sotto la mannaia del politically correct. Anzi, Amis costruisce le sue storie proprio prendendo spunto da quelle che sono le zone più segrete e inconfessabili del nostro animo. E La vedova incinta non fa eccezione. Lievemente moralista come Rohmer ma anche e soprattutto spietato come un romanziere russo dell’Ottocento, Amis gioca qui con i corpi dei suoi personaggi e con la loro inevitabile resa dei conti con le mode, i cliché e l’inarrestabile scorrere del tempo. Personaggi descritti come prigionieri di una corporeità e di una sessualità totalmente influenzate dalle mode culturali e dalle parole d’ordine di un certo modello imposto a partire dagli anni Sessanta. Personaggi che, loro malgrado, inscenano, durante una vacanza in un castello italiano nel 1970, un carnale autodafé che, alla fine, farà piazza pulita di tutti i luoghi comuni (progressisti o conservatori o giornalistici che dir si voglia) che, come spade di Damocle, pendono sul complicato rapporto fra amore e sesso. Il sesso, nella scrittura di Amis, inteso come grande livellatore; di fronte alla sua insopprimibile forza non possiamo aggrapparci a nessuna idea politica o religiosa, a nessun conformismo o anticonformismo. Siamo tutti solo marionette. Marionette dentro una storia.
Un libro.
La vedova incinta, di Martin Amis (Einaudi).

venerdì 23 agosto 2013

Racconti per signora, di Piersandro Pallavicini (Feltrinelli Zoom)

Il viaggio che il lettore compie tra le parole di un romanzo è destinato ad arrivare, qualche volta, in un affascinante luogo in cui non vigono più le normali leggi della fisica. Un luogo misteriosamente retto da una sorta di letteraria Era di Planck, dove il non detto si cela tra gli argini di impenetrabili fiumi carsici che superano il detto e seminano desideri di ricerca ulteriore e di visioni caleidoscopiche che ancora una volta fondano il sentire del lettore con quello dell’autore, nel ricomporsi e nel ristabilirsi di quella unità che entrambi hanno lungamente e faticosamente cercato.
Differenti erano i piani narrativi di Romanzo per signora, piani narrativi che erano amalgamati dall’Autore in una narrazione che portava a toccare luoghi, anime, esperienze, memorie. E proprio in Romanzo per signora si incontrava, ad un certo punto, questa Era di Planck, questo tempo dove le leggi della narrazione si aprivano verso altri lidi, altri orizzonti, altre domande che il lettore percepiva vivi, palpitanti, ma quasi prigionieri dell’ineludibile e inevitabile dovere del narratore (e della narrazione).
Ora, con Racconti per signora, Piersandro Pallavicini ci accompagna per mano attraverso la genesi della sua personalissima e letteraria Era di Planck.
Affascinanti sviluppi che lentamente si trasfigurano nell’ostensione del segreto sentire del narratore; reminiscenze che fondono autori, libri, vite e visioni; affabulazioni che sublimano quella ossessione per la letteratura, che è propria degli scrittori di razza, in una visione quasi borgesiana, dove la parola scritta diviene l’inevitabile e deliziosamente definitiva unità di misura dello scorrere del tempo, e di quel bagaglio di gioie e sofferenze che sempre l'accompagna.
Racconti per signora non ha solamente la funzione di appendice integrativa (anche se di appendice lussureggiante si tratta) di Romanzo per signora, perché vive di vita (e emozioni e sentimenti) propri.
Racconti per signora è il backstage dell’anima di un narratore.
Un libro.
Racconti per signora, di Piersandro Pallavicini (Feltrinelli Zoom).

martedì 20 agosto 2013

Casa Bàrnaba, di Rosalba Conserva (Manni)

Una silenziosa mutazione epocale, un cambiamento radicale, duro, i cui prodromi sono tutti ben presenti e visibili. Annunciati dal boogie woogie, dalle sigarette e dalla cioccolata, dalle camionette con la stella bianca degli Alleati. Annunciati dalle prime automobili, che cominciano a solcare strade che per loro non sono state costruite. Annunciati dalle prime vacanze dei pochi che ben presto diverranno dei molti. Annunciati dal lento e quasi impercettibile adeguarsi delle piccole e intime abitudini quotidiane. Il cadenzato crollo di una civiltà contadina, mai descritta come una sterile arcadia, bensì come un secolare modus vivendi, che tutto accoglie in sè come un atavico grembo materno, attraversa inesorabilmente le vite e gli animi, le speranze e i sogni, le attese e le azioni. Sino a lasciare un immutabile segno nei protagonisti, nelle dimore, nel paesaggio, nelle pietre. Sino al definitivo compiersi di quella inevitabile evoluzione che, pur sotto gli occhi di tutti, non ha trovato ad opporvisi il cuore di nessuno, perchè comunque nessuno avrebbe potuto resistere a quello che è l'inevitabile scorrere del tempo. Rosalba Conserva dipinge questo grande affresco senza mai lasciarsi trascinare dalle passioni e dai giudizi, dai facili colpi di teatro o da qualsivoglia retorica. Usa soltanto un mezzo. Apparentemente definitivo, freddo, senza appello, ma pieno di una pietas che è strumento non solo per descrivere ma anche e soprattutto per comprendere e partecipare. La creazione di un linguaggio, di un ritmo, di una cifra stilistica che nel suo costante fluire ricorda Verga, Capuana, De Roberto, diviene il filtro attraverso il quale passano e si spiegano le emozioni, i gesti, il detto e ancor più il non detto. Rosalba Conserva illustra un'epopea con i colori della parola e del linguaggio. Forse, l'invenzione più importante dell'umanità.
Un libro.
Casa Bàrnaba, di Rosalba Conserva (Manni).

venerdì 9 agosto 2013

La custodia della scrittura

A chi oggi, in questo preciso istante pregno di deiezioni digitali, affidare la propria scrittura? Alla cumulativa costruzione degli status di facebook? Alla intermittente ed evanescente presenza impalpabile dei tweet di twitter? All'immaginifico e priapico universo di tumblr? All'insondabile iconografia di pinterest? Alla esperta, seppur forse coattivamente decisiva, stabilità dello spazio di un blog? C'è la possibilità di costruire una narrazione nella fuga costante degli attimi di una condivisione che spesso non è se non grido solipsistico venato da reminiscenze da speaker's corner londinese anni Sessanta? E questa stessa scrittura non muta a seconda delle piattaforme (definizione staticamente rimembrante di storie very amazing da space opera pubblicata su fogli segnati dall'untume di cibarie adolescenziali mooooolto USA anni Cinquanta)?
Ridondanze estreme che conducono al nulla di una miscela che si perde nel deserto e nel niente?
Nessun segno di approvazione o di disapprovazione è sinonimo di morte civile e digitale, per dirla alla Seth Godin. Forse per la scrittura oggi ci sono tutti i luoghi e, proprio per questo, non ce n'è nessuno.

martedì 6 agosto 2013

I mestieri di Po, a cura di Osvaldo Galli e Giovanni Giovannetti (Effigie)

L’acqua è da sempre il simbolo della vita. E l’acqua del grande fiume, il Po, si trasfigura in quest’opera nel simbolo non solo della vita, ma delle vite degli abitanti delle terre bagnate da quel fiume. 
Opera che riunisce i pregi del saggio storico con il forte impatto del libro fotografico, I mestieri di Po è una fotografia fatta di parole e un saggio fatto di immagini. 
Cento anni di storia, cento anni di fatiche, cento anni di memorie. Il mutare delle abitudini umane, delle abitudini della Storia immobile, delle abitudini delle “genti meccaniche” di manzoniana memoria, disposto e a volte imposto dall’azione della Storia eroica, disposto e a volte imposto dall’azione della Storia “delle battaglie e degli imperatori”, ha segnato in profondo la vita di noi tutti. 
La memoria indelebile del grande fiume è conservata nella sua paziente potenza. 
La vacua memoria degli uomini è solo il frutto della loro vanità.

Un libro.
I mestieri di Po-Navaroli, renaioli, contadini, lavandaie, a cura di Osvaldo Galli e Giovanni Giovannetti (Effigie).

giovedì 1 agosto 2013

Nelle vene quell'acqua d'argento, di Dario Franceschini (Bompiani)

L’unico viaggio che un uomo può intraprendere per rispondere alle proprie domande è il viaggio dentro se stesso, verso le proprie radici. E l’unico viaggio che Primo Bottardi può iniziare per rispondere a quell’unica domanda alla quale sta attaccata la sua vita è il viaggio lungo il grande fiume. Un viaggio pieno di ricordi, di struggenti nostalgie, di inquietanti presagi.
Un viaggio lungo il nastro argenteo del Po, con le sue rive, con i suoi paesi, con i suoi uomini piegati dalla fatica, ma sempre ristorati dall’odore inconfondibile delle sue acque, con le sue donne silenziose e comprensive, carnali e definitive, portatrici di vita, nonostante tutto, e quindi così simili all’acqua.
All’acqua del fiume. All’acqua del grande fiume. All’acqua del Po.
Un nastro argenteo che trascina con sé, nel bene e nel male, gli odi, gli amori, le amicizie, i successi e i fallimenti, le vite avventurose e quelle, magari solo apparentemente, tranquille. Un nastro argenteo che, ad un certo punto, non tiene più conto neanche dello scorrere del tempo, che non tiene più conto neanche della differenza fra sogno e realtà, se mai differenza ci sia stata.
Perché è ora di dare la risposta. Perché è ora di capire. Perché è ora di sapere. Di sapere quello che già sappiamo tutti, fin dalla nascita, ma che solo pochi tra noi hanno il cuore di comprendere.
Dario Franceschini ci accompagna per mano in questo viaggio. Ci accompagna con un linguaggio essenziale, ma pieno di amore e di comprensione. Amore e comprensione per la sua terra e per le donne e gli uomini che la vivono. Dario Franceschini sa che raccontare la propria terra è raccontare delle proprie radici e raccontare delle proprie radici è raccontare di se stessi.

Un libro.
Nelle vene quell'acqua d'argento, di Dario Franceschini (Bompiani).

lunedì 29 luglio 2013

Note in margine a una vita assente, di Paolo Milano (Adelphi)

Paolo Milano fu, dal 1957 al 1986, critico letterario de L'Espresso. Costretto all'esilio negli Stati Uniti, a causa della leggi razziali, tenne un diario. Detta così può sembrar semplice, ma gli scritti di Paolo Milano non possono (anzi, non debbono) essere considerati una semplice sequenza di annotazioni quotidiane. Le sue note sono un vero e proprio reportage che, prendendo le mosse apparentemente dagli aspetti più intimi, ci consegnano il sapore, l'odore, i sentimenti di quelle che sono state le atmosfere sociali, politiche e culturali degli anni Cinquanta. Anni vissuti dall'Autore a cavallo fra due continenti, al continuo inseguimento di un ideale di vita purtroppo irrealizzabile. Apparentemente ciniche, le sue annotazioni sono un inestimabile tesoro che ci permette di capire quelle che sono state le nostre radici politiche e culturali e che, nonostante tutto, certi meccanismi e certe dinamiche sono inestirpabili. Viaggiatore fra due continenti, forse non più europeo e certamente non ancora americano, Paolo Milano segna sulla carta le sue visioni più segrete, più personali e più intime che, tuttavia, sono per noi un lasciapassare irrinunciabile per comprendere il nostro presente. Molto stimato da Giorgio Manganelli, frequentatore, suo malgrado, del milieu culturale dell'epoca, Milano si schermisce e stupisce spesso della sua condizione, in uno sfogo personalissimo e amaro che trasfigura le sue parole nel senso di un'epoca che, ferita dall'orrore della Seconda Guerra Mondiale, ha celato, dietro a un apparente ed instancabile iperattivismo, il proprio inguaribile male di vivere.
Un libro.
Note in margine a una vita assente, di Paolo Milano (Adelphi).

giovedì 25 luglio 2013

Il padre degli animali, di Andrea Di Consoli (Rizzoli)

Un’invettiva. Un lamento epico. Una storia corale dove la terra e le pietre si mescolano con la carne e con il sangue. Un racconto dolente dove la vita si mescola con la malattia e con la morte.
Una vicenda tragica nella sua semplicità e semplice nella sua tragicità dove le radici, una volta tagliate, continuano a sanguinare e a nulla vale il ritorno, perché è un ritorno senza speranza.
Il pittore usa il colore per farci osservare quello che scruta. Andrea Di Consoli usa la parola come una pennellata che stende una tinta forte e grezza, dove lo stile si trasforma in verbo e il verbo si trasforma in sentimento.
Una volta, neanche tanto tempo fa, eravamo noi italiani ad andarcene via. Chissà se siamo mai ritornati.

Un libro.
Il padre degli animali, di Andrea Di Consoli (Rizzoli).

mercoledì 24 luglio 2013

La gamba del Felice, di Sergio Bianchi (Sellerio)

"Un paesino che non si capiva bene se era nord della Lombardia o sud della Svizzera”. È questo lo scenario che fa da sfondo a un cambiamento e a una educazione. Che fa da sfondo al cambiamento di un paese che non ha più la voglia di essere un paese contadino, ma che non ha nemmeno la voglia di non esserlo più. Un cambiamento che gli piove dall’alto. Non voluto. Subìto. Che fa da sfondo ad una educazione. Alla educazione di una generazione di adolescenti, troppo giovani per la guerra, ma non abbastanza per non vederla ogni giorno rievocata dalle ferite dei padri. Non abbastanza per non avere la voglia di combatterne comunque una. Una guerra confusa, ribelle, a volte anche ridente. Una guerra che alla fine troverà anche il proprio nemico. E lo troverà in quel cambiamento imposto e subìto. In quel cambiamento che ha fatto anche morire il grande castagno che “era bellissimo”. Una guerra sempre condotta tra la voglia di divertirsi comunque e il dovere di alzarsi presto la mattina, perché “potevi fare tutto quello che volevi l’importante era che al mattino ti alzavi e andavi a lavorare.” Una guerra che continua per tutta la giovinezza. Una guerra comunque persa. Una guerra che porterà l’io narrante alla fine ad approdare a Milano. In quella Milano da dove era partito tutto. Da dove erano partiti i “beat” e le moto e i giornalini e la musica e le chitarre e i mangianastri. Ma da dove era partito assieme a questi anche quel cambiamento non voluto e subìto. La guerra ridente e dolcemente ribelle dell’adolescente è finita. Ne comincia un’altra. Senza ragazze, senza moto, senza chitarre. Ne comincia un’altra. È la guerra che ogni essere umano dovrebbe combattere. Per non perdersi.
Un libro.
La gamba del Felice, di Sergio Bianchi (Sellerio).