Inoltre qui è possibile leggere la mia intervista a Donato Dallavalle.
Tante sono le zone d’ombra che si nascondono nelle nostre vite. E più sono mimetizzate nella banalità del quotidiano, più sono inquietanti. Il compito della letteratura (comunque di una certa letteratura attenta alla realtà delle cose) è quello di stanarle. E, una volta stanate, portarle alla luce, divaricando il più possibile la cesura fra inquietudine e normalità.
Donato Dallavalle ci consegna un’opera che, a differenza di tante altre prigioniere di un genere, con i generi invece ci gioca; al punto da farci capire che le facili categorizzazioni sono per lui un mezzo e non un fine.
Una storia apparentemente semplice, quasi lineare, ma che sin dalle prime parole lascia trasparire la preoccupante presenza di una limpidezza interrotta.
Emilio, ex terrorista di secondo piano dal passato non privo di ombre, durante un permesso dal carcere si reca alla casa del fratello morto da poco, per assistere al funerale e per ritrovare la nipotina Lucia, alla quale è legato da un rapporto morboso.
A casa troverà la compagna del fratello, Anna, donna dal carattere chiuso e difficile, che si rivelerà, a poco a poco, artefice di un gioco ambiguo e terribile.
Da subito ci viene presentata la comparazione semantica e sintattica fra la descrizione di un viaggio in treno e il territorio onirico di una favola. Favola che si trasforma ben presto nella chiave per comprendere la storia narrata e accompagnarci nello sviluppo degli avvenimenti.
La presunta ordinarietà degli stessi e la tranquilla vicenda del viaggio in treno sono soltanto i prodromi del confronto fra i due personaggi di Emilio e di Anna (che sosterranno in seguito gran parte dei dialoghi dell’intero romanzo) e la galleria dei fantasmi di un passato difficile, che allunga la sua ombra su di un presente complesso da decifrare, e che, alla fine, trasformerà in fantasmi gli stessi due protagonisti.
L’Autore è senz’altro debitore di una formazione cinematografica. La sua prosa presenta una forte visionarietà, specialmente nella costruzione dei luoghi. Luoghi che non hanno una mera funzione di contorno o di scenografia, ma che lentamente si trasformano in un vero e proprio manto soffocante, che a poco a poco si stenderà sopra tutto e tutti.
I colori dominanti di tutta la narrazione sono il nero e il marrone, colori che rivelano il progressivo avanzare di una marcescenza che dalla terra si trasmetterà lentamente anche alle anime.
E questo si comprende non tanto dal resoconto diretto, ma soprattutto da quello che ne dicono, ne pensano e ne sentono (anche olfattivamente) i protagonisti.
Anche i raggi del sole non scaldano, non asciugano, non risanano e, quando si cammina all'aperto, è necessario quasi spostarli, come fossero oggetti ingombranti. Sembra di assistere all'affannarsi dei personaggi nel mezzo di una pianura o di una brughiera descritta e filmata da Tarkovskij (Stalker, tanto per fare un esempio).
Significativa è la continua presenza di fluidi umani (sangue, urina, sperma), che "sporcano" lo spazio circostante, quasi a negare l'umanità degli esseri dai quali provengono. Anche la grappa, bevuta in un momento di relax, sporca il mento di chi la beve e poi, una volta caduta a terra la bottiglia, inonda il pavimento (un altro fluido che sporca). Gli oggetti, gli ambienti, le case, le stoviglie sono sudici, il cibo è insapore. Tutto è ridotto al rango di mera e inconsistente suppellettile che non ha nemmeno la funzione di arredare una realtà, ma soltanto quella di fare da cornice ad un sogno che, a poco a poco, assume i contorni di un incubo.
L’Autore ci descrive un vero e proprio universo che cade a pezzi, una vera e propria entropia degli oggetti che altro non è se non il paradigma orribile di una entropia delle anime.
Non c’è mai il facile abbandono stilistico ad un genere letterario. Non c’è horror, o noir, o splatter. L’Autore non si accoda pedissequamente ad una qualche moda letteraria ed editoriale.
C’è invece il ricorso ad un uso metaforico della realtà, per mezzo di una sapiente costruzione che coniuga l’orrore dell’incubo con la banalità del quotidiano.
Le formiche del titolo rappresentano il simbolo di questa lenta distruzione (come non ricordare, in questo caso La formica argentina di Italo Calvino). La loro invasione costante e progressiva dei luoghi, degli oggetti, dei letti, la loro presenza sempre più pesante, viene accolta quasi con assuefazione. Ed è proprio questa assuefazione che ci fa intendere come gli stessi personaggi a poco a poco si abituino al crollo del loro mondo. Crollo prima psichico e poi fisico.
È la stessa assuefazione all’orrore più incredibile e indicibile che ognuno di noi sperimenta nei propri sogni e nelle proprie angosce notturne .
Dallavalle ha descritto un incubo, approssimandosi alle atmosfere misteriose di Altra gente di Martin Amis.
Un incubo che nasce dalle piccole imperfezioni degli oggetti, dalle anomalie imperscrutabili della vita, dai segreti inconfessabili che ognuno di noi si porta dentro.
Un libro.
Il letto di formiche, di Donato Dallavalle (excelsior 1881).
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