C'è come una continua ostensione dell'ostentazione, nella produzione di DeLillo. Ostensione di un'ostentazione limitata e limitante, forse aperta alla speranza che la finitezza dell'uomo racchiuda, nel suo profondo, non certo le risposte alle domande fondamentali, ma quantomeno un'abitudine alla rassegnazione.
Il significato ultimo delle parole, l'uso controllato delle parole stesse, molte volte protagoniste, la presenza continua, in più di un romanzo, di performances artistiche che, nella loro apparente e algida immobilità, rimandano, come in un gioco di specchi, al contrasto con il fluire delle vite e dei casi. Sono questi i suoi strumenti. DeLillo è un grande voyeur. E il suo voyeurismo è tanto più inquietante, quanto più non cerca risposte. Perché non ci sono risposte. C'è soltanto un rimando costante, un sapiente linkare gli aspetti del nostro quotidiano, che poi tanto quotidiano non è. I personaggi di DeLillo non sono mai persone comuni. DeLillo non segue il filo borgesiano di Paul Auster. DeLillo mette sempre in gioco artisti, galleristi, performers, raiders finanziari, docenti universitari, esperti dei servizi segreti. Anche i suoi personaggi più banali giocano i loro destini in contesti che sembrano usciti dalla reiterazione di un gossip che prende le mosse dai luoghi comuni televisivi e non.
Ma questa non è una sua debolezza, Tutt'altro. DeLillo ha imparato a fondo la lezione del romanzo borghese, più Ottocentesco che Novecentesco. DeLillo è un Dostoevskij, è un Flaubert, è un Maupassant che ha capito che, al posto di arrampicatori sociali in gibus e marsina, che si accompagnano a giovani e diafane ereditiere in crinoline, è necessario portare l'attenzione della narrazione verso quello che è il vero punto dolente della nostra contemporaneità: l'assenza totale di qualsiasi volontà.
DeLillo non descrive una società amorale. Non gli interessa. DeLillo si limita (restandone all'esterno) a prendere appunti. E questi appunti altro non fanno se non registrare il nulla. Ecco la sua finale ostensione dell'ostentazione. E' l'ostentazione del nulla. Di un nulla che tenta disperatamente di esistere, attraverso il rimando costante ad una contaminazione fra vita reale e immaginaria. I suoi personaggi vivono in quanto osservatori, in quanto parlatori, in quanto pensatori. Mai come produttori. Mai come costruttori di qualche cosa. Con Punto Omega DeLillo forse arriva al finale di un suo personalissimo lento apprendistato, di pynchoniana derivazione, che prende le mosse da I nomi, da Body art, da Cosmopolis, da L'uomo che cade. La storia, gli accadimenti politici e sociali sono solo un pretesto per contestualizzare un percorso. Un percorso diametralmente opposto al Punto Omega di Teilhard de Chardin. Nel pensiero del teologo francese il punto d'arrivo è Dio, è il Cristo. In Punto Omega, la scena dell'installazione artistica (affascinante reiterazione della poetica di DeLillo) che vede Psyco filmato al rallentatore, apre e chiude la narrazione è ne è la soluzione. Nel mezzo c'è una vita irreale. Nel mezzo c'è solo il deserto. Il nulla. Il vuoto. Lo schermo, la finzione, hanno preso il sopravvento. Noi non siamo più tra gli spettatori. Siamo stati tutti quanti fagocitati dalla finzione. Ne siamo prigionieri. Al di qua dello schermo non c'è più nessuno. Se non un pericoloso demiurgo che è arbitro di quello che rimane delle nostre vite.
Un libro.
Punto Omega, di Don DeLillo (Einaudi).
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