Ci sono terre di confine che non sono altro che il paradigma dei confini che ci attraversano. E questi confini non solo ci attraversano, ma segnano le nostre vite in modo indelebile. Noi viviamo del nostro passato. Noi viviamo nel giudizio degli altri. E il nostro passato e il giudizio degli altri plasmano quello che siamo, in un presente duro, carnale, difficile, ineluttabile.
Tra Toscana e Liguria. Tra colline dove si consuma la follia di un'epica del vivere quotidiano, all'insegna di una violenza accettata, ed entroterra rocciosi dove la banalità dello scorrere del tempo (e delle vite) nasconde lo stillicidio terribile dell'incomprensione e della durezza dei rapporti tra le persone.
Una resa dei conti. Una resa dei conti totalizzante. Senza la possibilità di sottrarvisi.
Le nostre vite sono destinate a seguire un percorso delimitato da un destino che è già scritto in ognuna delle nostre azioni. Anche la più banale. Anche la più insignificante.
Forse l'unica possibilità per una temporanea salvezza, per un armistizio, non certo per una pace duratura, è la fuga, o meglio, il ritorno a ciò che di noi è rimasto.
Perché ti chiedevi che vita era? Per questo te ne sei andato? Il fatto che non avesse mai combinato niente, che da giovane si fosse risparmiato la fatica e ora ricevesse un sussidio per sopravvivere senza far niente - come se il mondo glielo chiedesse, non far niente Emiliano Timonti, senti il rumore della vita e non far niente - non significava che a far qualcosa non ci avesse mai pensato, ci pensava sempre, non faceva altro…
Si rilassò sul sedile e si rispose. Certo, che era vita, tutto era vita. Abbassò le palpebre, era vita finché su quel manifesto da morto un giorno non ci fosse scritto il suo nome. Conobbe il mondo, fece poco, tornò alle colline, ne danno il triste annuncio ecc.
Un libro.
Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo, di Marino Magliani e Vincenzo Pardini (Transeuropa).
Nessun commento:
Posta un commento