Via Cavour è una perpendicolare di via Roma. Di auto ne passano poche e ci picchia un sole così giallo che, chissà perché, sembra di essere in Etiopia o in Eritrea. Che poi si potrebbe essere benissimo in un altro posto, ma, quand'ero piccolo, sul sussidiario erano le foto delle strade dell'Asmara o di Addis Abeba ad essere così gialle per il sole.
Il sudore che ti bagnava la maglietta, quando a otto anni te ne andavi in bicicletta, con la ruota davanti che scivolava come una biscia sul bianco della ghiaia, è lo stesso che ora ti appiccica le ascelle, sotto la felpa blu e la giacca a vento senza maniche, che porti perché la mattina fa ancora freddo. Che porti perché non hai più otto anni.
Che poi, dietro alla murata delle case, tutte attaccate, tutte nocciola, gialline e rosetta, dietro alle porte a alle finestre e dietro al legno dei portoni o al ferro dei cancelli, si apriva a perdifiato l'infinito dei campi, così infinito che si mangiava in un boccone la linea di confine dei cortili. E non serviva nemmeno l'acqua scura del fosso, che la pianura se la portava via anche lei e, quando arrivavi nel fondo di quei cortili e di quegli orti tutti verdi, ti sembrava di volare via, su, su fino in cielo.
Oggi passavo da via Cavour. E ci passavo a piedi, lentamente, sudando per il sole e ascoltando lo scricchiolio dell'asfalto rovinato. Mi son fermato a guardare dentro ad un portone aperto. In fondo c'era il grigio cupo di un capannone, lungo più del fosso, alto più degli alberi. E ho capito che da tempo non vola più nessuno.
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