martedì 24 giugno 2014

L'incipit di #settesonoire edito da @ATeditore nella collana @Officina_M

Poco tempo è passato da quando Sette sono i re ha inaugurato la collana Officina Marziani, diretta da Michele Marziani, della Antonio Tombolini Editore. Vi regalo l'incipit del romanzo.
Buona lettura!

Un fruscio sottile che sibila insistente. 
Una decisa tensione delle sottili gomme, compatte di aria compressa, che segnano di scie sinuose l’asfalto grigio. Abbandonando minuscole particelle di mescola scura che si uniscono all’infinita pressatura del bitume.
Atomi evanescenti di carbonio senza peso che aiutano l’impegno costante dei quadricipiti femorali e dei muscoli sartori. 
Toraci incurvati dalla sfida infinita contro l’attrito dell’aria e dalla guerra ingaggiata contro i minuti e i secondi.
Bicipiti rigidamente flessuosi chiudono, senza possibilità di fuga, ellissi delimitate da manubri lucidi e curvi e da strie imbottite di caschetti dai colori psichedelici.
Corpi rigidamente infissi nel perseguimento di un unico movimento. Essenzialità anatomiche, senza grammi di adipe superfluo, fasciate da tute aderenti fucsia e verde smeraldo.
La sagoma pluricellulare si snoda a lungo sulla strada, scindendosi per poi ricompattarsi, sgranandosi per poi diventare improvvisamente turgida.
Un braccio avvolto dal nero striato di rosa di una calzamaglia termica, appositamente studiata per ridurre al nulla l’attrito dell’aria e, forse, del tempo, disegna, con indiscussa autorità, un gesto imperioso, come un cavaliere templare che guidi una carica appena uscita dalle mura imprendibili della fortezza siriana del Krak.
Automobili e pedoni sono costretti a spostarsi all’improvviso, sfiorati da sguardi duri, di pietra, compresi nell’essenza della missione e celati dalle lenti buie di occhiali dalla struttura perfettamente aderente alla circonferenza del cranio
Non c’è nessuna staffetta. Non c’è nessuna moto della polizia urbana. Non c’è nulla. 
Soltanto la forza impositiva e autoritaria di un organismo che ha, come scopo unico e ultimo, quello di spostarsi da un punto verso un altro. Alla velocità massima possibile che l’uomo, alleato con le migliori e più leggere biciclette, possa raggiungere. 
È uno sfoggio di autorità feudale. È la rivincita della forza muscolare. È l’insurrezione dell’uomo contro la macchina e contro la pigrizia. 
E, come tutte le insurrezioni, vuole le sue potenziali vittime.
Lo sciame migra attraverso le vie. Abbandona con velocità le strade provinciali delimitate dai fossi e dai campi. Occupa tutte e due le corsie,  impedisce i sorpassi, rallenta auto e camion, nella speranza, racchiusa nella sua intelligenza multicellulare e collettiva, di poter incontrare qualcuno che trasporti un malato grave verso un qualsiasi ospedale e di poterlo così rallentare, incurante delle sue proteste, fino alla probabile morte. Pronto a riprendere la corsa infinita, sicuro dell’oblio indifferente notificato dall’espressione stolida delle molte facce di pietra della sua struttura.
Lo sciame dimentica in fretta i campi e i boschi che hanno segnato la sua migrazione iniziale ed entra a velocità silenziosa nei paesi della pianura, attraversando strade, violando il rosso dei semafori, accarezzando pericolosamente, con la sua scheletrica dinamicità di carbonio, i corpi dei vecchi che si stringono verso i muri e i passeggini spinti dalle poche madri che, immobilizzate dal panico, tentano di difendere i loro trabiccoli chiudendocisi sopra a riccio.
Migra lo sciame. Migra velocemente in silenzio. Attraversa paesini, dimentico del paesaggio superfluo, delle strade, delle case, dell’impaccio dei pedoni. 
Tutto deve essere ricondotto all’autorità dello sciame.
Non un suono, non una parola escono dalle bocche contratte e impegnate nella gestione dell’equilibrio dei muscoli e della respirazione.
Nel sussurro senza sosta del suo incedere costante, lo sciame abbandona presto le poche case dei paesi per rituffarsi nella corsa e perdersi nell’inseguimento del tempo.
È un organismo compatto. Uno, due al massimo, alla guida. In coppia, uno vicino all’altro. In una danza di telai e di ruote al carbonio e di tute termiche dai colori sgargianti e fluorescenti che si diluiscono su un comune fondo nero. Nero come la pece. Nero come la notte. Nero come la morte.
È una instancabile oscillazione, appena scomposta dai gesti di comando che le due avanguardie impongono a chi ha la sfortuna di incontrarlo. Al gesto imperioso del braccio teso, puoi buttarti solo a destra o a sinistra. Non hai scampo. Passa lo sciame.
Pochi dei suoi microorganismi rimangono indietro. Giusto il tempo perché l’intelligenza collettiva del gruppo deceleri appena. Quel poco che basta a ricompattare al suo interno i ritardatari. 
Lo sciame deve essere unito. 
Sempre.

lunedì 23 giugno 2014

Uccidi il padre, di Sandrone Dazieri (Mondadori)

Imponente affresco nero e cupo che attraversa l’Italia dai paesaggi urbani di una Roma dalle indagini questurinizzanti, per dirla all’ingegner Gadda, fino a risalire la penisola verso un pianura cremonese di cascine abbandonate e strade bianche dalle quali sale l’aroma inquietante di prossime nebbie nascenti da lineari panorami padani.
E in questo tratto di penisola si trovano i due capi di una fune che, come un soffocante legame tanatologico, avvince i protagonisti, siano essi quelli principali o i comprimari, e con loro anche il lettore, in una trama claustrofobica dai rilanci geniali e dagli incroci narrativi sorprendenti, come in una sorta di phildickiano Ubiq contemporaneo. 
Non soltanto affascinano gli stilemi doverosamente noir che Dazieri ben conosce e utilizza, ma l’Autore sa a volte anche ben ritrarsi da essi, svicolare verso l’approdo ad altri lidi narrativi ancor più misterici, svisando come sanno svisare i virtuosi del blues e del rock. Ed è infatti un ritmo senza tregua, senza respiro, quello che tiene letteralmente attanagliato il lettore alle mutazioni e alle inversioni che questo Uccidi il padre pone costantemente alla sua attenzione. 
Non solo noir arriva da questo bellissimo libro e Dazieri ne usa la trama e gli intrecci molteplici e caleidoscopici per andare oltre, per superare i confini imposti dal romanzo, per approdare a una vera e propria analisi di un quadro fosco che dalla strategia della tensione e, ancor prima, dal confronto dei blocchi partoriti dalla guerra fredda, ancora fa sentire gli effetti delle sue trame occulte nella nostra contemporaneità storica e politica. 
E la bravura dell’Autore dipinge questa estrema e affascinante contaminazione narrativa in cui l’efferatezza di un delitto si trasfigura in scena primaria dalla quale altre efferatezze vengono generate, efferatezze di servizi segreti, di cellule deviate, di rapporti fra ex superpotenze che diventano, una volta caduta la cortina di ferro, lasciapassare sanguinanti per agghiaccianti e affaristiche transazioni, che ormai vedono anche il coinvolgimento di multinazionali globalizzate, dove gli affari hanno sostituito il confronto militare e politico alla luce di quello che, dopo l’ottantanove, sosteneva anche il maestro della spy story le Carré.
Uccidi il padre diviene così strumento letterario che analizza sottoboschi politici, esperimenti militari effettuati sulla pelle di una collettività ignara, complotti alla Cointelpro di ellroyana memoria che prendono le mosse da quella profezia allucinatoria Anni Sessanta alla Timothy Leary che presto divenne oggetto di tragici interessi da parte di agenzie e di organismi occulti e di panamensi Scuole delle Americhe.
Uccidi il padre non è solo un avvincente romanzo, ma anche l’epifania raccapricciante di una storia “sporca” dell’Italia i cui tragici artefici e demiurghi, forse anche in questo stesso istante, stanno tramando nell’ombra i loro esizialii progetti.
(Chi scrive a questo punto si permette una piccolissima nota. Se da questo romanzo se ne traesse un film o una fiction l’interprete ideale per il personaggio di Dante Torre sarebbe Fausto Paravidino).
Un libro.
Uccidi il padre, di Sandrone Dazieri (Mondadori).

venerdì 20 giugno 2014

Anime nere, di Andrea Biondi (Narcissus)

Incroci narrativi e di genere si appalesano al lettore nell’avanzare della trama di questo libro dai legami affascinanti e misterici. Romanzo pulp? Ucronia? Gotico padano? Una Romagna terra di arcane cose, dove l’antico raccontare si fonde col nuovo narrare, fa da sfondo a questo affascinante Anime nere di Andrea Biondi. Immaginate che George A. Romero si imbatta in Richard Matheson, immersi entrambi in un cupissimo scenario in cui è come se il Pupi Avati di La casa dalle finestre che ridono e di Zeder incontrasse il Robert Harris di Fatherland e i personaggi della saga guareschiana si trasmutassero in inquietanti messaggeri che bussano alla porta della residenza del misterioso scrittore del phildickiano The man in the high castle, meglio conosciuto come La svastica sul sole, trasfigurandosi in esseri oscuri dalle immortalità cyborg di una pericolosissima collettività Borg celata nel Quadrante Gamma della galassia. Anime nere non può essere catalogato in nessun genere perché Anime nere è esso stesso il progenitore sanguinante e tenebroso di un nuovo genere narrativo italiano, un genere acido, caleidoscopico, lisergico. Dischi volanti nazisti, valchirie dalle fattezze erotiche e dall’animo luciferino, un’Italia e un’Europa scenario di esperimenti mortali e di esoterismi di un occultismo che va da Madame Blavatsky, attraversando sette segrete adoranti lugubri teosofie, per arrivare a ultime Thule che inondano un mondo di morte con un nuovo ordine mondiale dalle stimmate sataniche e immonde, dove i destini dell'umanità vengono decisi da crociuncinate burocrazie dimoranti in cancellerie dalla claustrofobiche pareti di cemento nate dal delirio architettonico di nuove Berlino alla Albert Speer. Anime nere è romanzo, narrazione, ma anche libro-strumento, forse addirittura entità vivente che, come un Neocronomicon da cui si generano occulte e oscure profezie, ci lancia un messaggio che dobbiamo in qualche modo decifrare per garantire la nostra futura sopravvivenza. C’è una frase di Hunther S. Thompson in Paura e delirio a Las Vegas: ecco come sarebbe il mondo al sabato sera se i nazisti avessero vinto la guerra. Anime nere ci racconta come sarebbe l’eternità se i nazisti (e il nazismo magico) avessero vinto la guerra. Anime nere è un romanzo inquietante e pericoloso come angoscianti e pericolosi solo i grandi romanzi sanno essere. 
Un libro.
Anime nere, di Andrea Biondi (Narcissus).

martedì 17 giugno 2014

La sinagoga degli iconoclasti, di J. Rodolfo Wilcock (Adelphi)

Bene fa Adelphi a riproporre ai lettori, nella collana gli Adelphi,  La Sinagoga degli iconoclasti del geniale J. Rodolfo Wilcock. Se la letteratura, in particolare quella che si orienta alla scoperta del romanzo universo, di quel romanzo che cerca cioè di contenere in sé  e con sé, tutte le storie del mondo, ha la funzione non solo di creare storie, ma anche quella di trasfigurare se stessa in storia primaria, in luogo senza tempo, dove le regole del cosmo si piegano alle regole di un demiurgo che non solo racconta ma che è tutte le parole del mondo, allora La sinagoga degli iconoclasti diventa libro fondamentale, faro, guida imprescindibile. E come non ascoltare in questo libro gli echi di Borges e di tutti coloro i quali, con lui e prima di lui, si sono increati per mezzo di una vera e propria affascinante mimesi con il narrare del mondo. E come non comprendere che altri, dopo il grande aedo argentino, hanno metabolizzato nel loro divenire narrante e narrato queste sezioni di universi esplorati da Wilcock, Bolaňo per esempio, che non fa mistero della sua venerazione per questa opera e che ne riflette le geniali strutture in quella altrettanto geniale tassonomia, al contempo seducente e mostruosa, che è La letteratura nazista in America.
Realtà e finzione si fondono, mappe narrative vengono acutamente descritte, sino al combaciare definitivo con quella mappa dell’impero di borgesiana memoria che è poi la mappa del mondo, di un mondo che forse, nella sua finzione, si appalesa invece come più reale del reale, in un gioco di specchi forse crudele in cui il lettore rimane coinvolto e prigioniero di una affabulazione che si trasfigura da narrazione in strumento, in chiave che apre porte sconosciute che conducono verso orizzonti oscuri e per questo ancor più inebrianti.
Come quel cartografo borgesiano che scopre che la cartina da lui disegnata altro non è se non il ritratto delle sue fattezze, così Wilcock ci conduce per mano alla funambolica scoperta delle nostre stesse anime, anime che rimangono per sempre piacevolmente attonite di fronte alla potenza eterna della parola.
Un libro.
La sinagoga degli iconoclasti, di J. Rodolfo Wilcock (Adelphi).

lunedì 16 giugno 2014

End Zone, di Don DeLillo (Einaudi)

Esce in libreria End Zone è subito la sensazione è quella di avere davanti agli occhi il tassello di un mosaico narrativo ormai imponente al cui compimento editoriale assistiamo negli anni come in una marcia a ritroso della intera creazione dello scrittore nuovayorkese, marcia a ritroso che si compie con la pubblicazione dei suoi primi libri (l'anno scorso la mirabile silloge di racconti L'angelo Esmeralda) e che assume ormai affascinanti caratteri simbolici che rimandano allo stesso sviluppo a ritroso della struttura del ciclopico Underworld e che ci fa comprendere l’opera delilliana come un universo in cui la luce è anche il tempo e anche lo spazio. Seconda opera de DeLillo, pubblicata nel 1972, End Zone ha già in esso i prodromi di quelle che saranno le ossessioni e le ostensioni delilliane e non solo. Quella partita di football che divide la narrazione come un cuneo dal quale altre narrazioni germoglieranno e che è, e non può essere stato altrimenti, ne sono sicuro, causa ed effetto di quella eterna partita di tennis che incardina se stessa in quell’Infinite Jest che David Foster Wallace compone nella sua onnipresente stima, ricambiata, per DeLillo. E Myna Corbett, ragazza in carne che si dimena sulle cosce quando legge o declama e che ci rimanda al dimenarsi sulle cosce dell’altrettanto in carne Babette, moglie del professor Jack Gladney, durante il reiterarsi di coniugali e ponderati amplessi in Rumore bianco. E quella onnipresente incarnazione delle parole e dei loro significati, e dei verbi che furono in principio, che si animano e iniziano a vivere di vita propria, al di là del loro stesso vero o presunto significato, come divinità forse malvagie, quelle stesse divinità che semineranno la morte dei corpi ne I nomi. E il materializzarsi onnivoro di tabelle di ragionato annichilimento umano, di estrinsecazioni radioattive, di ordigni nucleari tattici utilizzabili in un wargame luciferino, in cui stati maggiori in uniforme sviluppano calcoli di sopravvivenze possibili e di residui arsi di un deserto militarizzato in cui la ragione disperata si illude di una vittoria da celebrarsi in isolati bunker nell’attesa della fine di un fallout che intanto cavalca destrieri di orrore. Ed è quello stesso deserto in cui si innalzano le camerate del Logos College, ma è anche il deserto dove strutture dalle architetture avveniristiche sezionano la semantica e la sintassi ne La stella di Ratner, il geniale virgulto della scienza che poi si incarnerà forse in Richie Ambrister, adolescenziale commerciante di porno movies in Running Dog, ed è forse quello stesso deserto in cui si definiranno le analisi ultime di Punto Omega o in cui si gireranno filmati dal contenuto ambiguo in Americana. End Zone è il passaporto per accedere ancora una volta a tutto l’universo delle parole che Don DeLillo ha saputo creare, in un gioco che ancora prosegue e che ancora proseguirà e in cui tutti noi lettori siamo inconsapevoli protagonisti, noi stessi per primi assisi nella voyeuristica osservazione di un asettico laboratorio in cui l'Autore analizza l'umanità contemporanea, i suoi vizi e le sue contraddizioni figlie dell'opulenza occidentale, e in cui i geniali lemmi dell’Autore annullano il presunto confine tra chi osserva e chi è osservato.
Un libro.
End Zone, di Don DeLillo (Einaudi).

sabato 14 giugno 2014

#giugnoconBolaňo e il #gallizioLAB

Ricevo tempo fa, attraverso flussi di comunicazione che trafiggono l'intersecarsi di devices, tablet e notebook, un messaggio di Filippo Pretolani aka gallizio, artefice del gallizioLAB che su Twitter trovate come @beingallizio (cito dalla pagina facebook: gallizio è un laboratorio di talenti raccolti intorno alla sfida di inventare una nuovo modalità di scrittura per il digitale. Se con monitor e display abbiamo disimparato a leggere, l'unica è reimparare a scrivere. Non un editore dunque, gallizio, ma una fionda per scrivere, per creare non tanto un genere letterario ma un possibile senso del mondo). Parliamo, of course, di Roberto Bolaňo, geniale demiurgo di universalità letterarie estreme, e mi annuncia il divenire di un progetto che accolgo immediatamente. Pochi giorni fa il progetto si concretizza all'insegna del collimare di eufoniche assonanze: #giugnoconBolaňo. Ho l'onore e l'onere di inaugurarlo qui.
Buona lettura.

venerdì 13 giugno 2014

Un articolo intervista per Sette sono i re

Giovedì 12 giugno sull'Informatore Vigevanese è uscito, a cura di Mario Cantella, un bell'articolo intervista sul mio nuovo romanzo Sette sono i re.



martedì 10 giugno 2014

Gare de Nice-Ville. Il viaggio (Errant Editions). La recensione di Roberta De Tomi

Roberta De Tomi scrive sul suo blog una bella recensione al mio racconto Gare de Nice-Ville. Il viaggio, uscito per i tipi di Errant Editions nella collana Gares/Stations.
Ecco il testo della recensione. Buona lettura!


Gare de Nice-Ville. Il viaggio, di Angelo Ricci, quando l'erotismo si fa conoscenza 
di Roberta De Tomi 
Non è in cerca di risposte, né ha intrapreso un viaggio iniziatico. La prostituta protagonista di Gare de Nice-Ville. Il viaggio (Errant Editions), racconto di Angelo Ricci, è diretta verso una meta precisa. È una donna bellissima, consapevole di sé e del proprio corpo; un corpo voluttuoso ma, al contempo, “pensante”, ben lontano dall'essere oggetto, o schiavo dei propri impulsi. Proprio dal corpo erotico s'innesta il percorso di una conoscenza che s'irradia al lettore, ipnotizzato da una penna ammaliante.

Non ci sono cavilli morali o considerazioni “perbeniste” nei pensieri che si srotolano nella mente della prostituta, protagonista di Gare de Nice-Ville. Il viaggio. La donna, io-narrante capace di catturare il lettore nella sua rete seduttiva, è una creatura che non si lascia etichettare; e, tuttavia è definita e compiuta, capace di percezioni che non la imprigionano nella rete delle convenzioni sociali, ergendosi in tutta la sua (cito il testo) “orgasmica fierezza”. 
Il viaggio fisico che la protagonista del racconto (edito in formato e-book) di Ricci intraprende, non corrisponde a un'iniziazione. La donna si rivolge al suo Petit Chou (dal francese, piccolo tesoro) che sta per raggiungere, e su cui intesse una serie di considerazioni che s'intrecciano a quello che accade durante il tragitto. In questo procedere si crea un parallelismo tra la vita della donna e il percorso, che nelle fermate, trova i propri momenti apicali. Le stazioni sono "luoghi  di frontiera", osservati dagli occhi disincantati di una creatura che ha il coraggio di immergersi in vie oscure, per poi riemergerne sempre a testa alta. 
La sensualità vibra nell'attesa di arrivare a destinazione. A questa dimensione sospesa si contrappone quella reale del desiderio espresso da alcuni viaggiatori che hanno capito chi è “quella meravigliosa creatura”. Ma la donna non è accessibile a tutti, questo lo colgono subito, e il desiderio bruciante si traduce nella rinuncia castrante. Questa inaccessibilità sembra conferire alla prostituta un potere che si traduce nel senso di sicurezza espresso al lettore senza troppi sotterfugi linguistici. Tuttavia, in questo viaggio, la presenza-assenza dell'amante, si traduce nell'anelito alla meta. A lettura terminata, tra i mille quesiti, uno in particolare coglie il lettore. Arrivata a Gare Nice-Ville... cosa accadrà alla  protagonista, ricongiunta finalmente al suo Petit Chou? 
Su una trama costruita su un “crescendo dei sensi”, s'innestano i moti di un racconto intriso di un erotismo, sottile ma non troppo, giocato sull'elemento-chiave dell'attesa,. La resa magistrale del personaggio/io-narrante è il prodotto dall'abilità con cui l'autore, nel descriverne il prorompente (ma raffinato) erotismo, lo rende tanto più inafferrabile. Il lettore si sente trascinato nel mondo di questa creatura, avulsa, sia da considerazioni intrise di beceri moralismi, che da certo erotismo "clichettaro"  presente in tanta letteratura contemporanea, di genere o mainstream, basata su personaggi patinati, spesso piatti e banali.  
Il racconto di Angelo Ricci, scritto con un'eleganza priva di artifici, si presta a una lettura che colpisce pelle, cuore e testa. Scivola via, instillando quesiti, ammaliando lettori e lettrici, senza mai scadere nel volgare, pur presentandosi in diversi punti audace. Lo scrittore sa raccontare, oltre il mestiere, restituendoci il ritratto compiuto di una prostituta che non sfida la società, né è in cerca di un'elevazione morale. Semplicemente vive e, nel viaggio, trae dal se stessa, dall'erotismo, le ragioni della conoscenza; perché il sesso è anche conoscenza e consapevolezza di sé.

lunedì 9 giugno 2014

Qualcosa c'inventeremo, di Giorgio Scianna (Einaudi)

Ho già avuto modo di conoscere le parole di Giorgio Scianna. Qualche anno fa, con Piersandro Pallavicini, presentai il suo Diciotto secondi prima dell’alba, in una dicembrina e nebbiosissima serata pavese. Ora esce Qualcosa c’inventeremo e ancora il lettore si mette in cammino per le strade milanesi e pavesi, uno sfondo di vie e piazze e luoghi che segnano le anime, che mappano e delimitano i confini dei sentimenti. Milano e Pavia, città che da secoli si osservano accigliate (la prima guidava i liberi comuni, la seconda stava col Barbarossa) in un intervallo di pianura che non è più quella del Po e non è ancora il limite del Resegone manzoniano. Si sente che Scianna conosce i luoghi, i sentimenti, l’anima dei suoi personaggi, si comprende che ne assume i loro riverberi, i loro riflessi, le loro immagini, diventando l’artefice, il demiurgo di una narrazione condotta con maestria e con la genialità dello scrittore di razza che ben conosce il modo di stare dietro le quinte, governando tuttavia il divenire dei suoi personaggi con piglio lieve ma sicuro. E così, diretto con narrativa abilità e bravura, questo romanzo lentamente coglie i suoi afflati da una contemporaneità screziata di tragedia e sentimento, di amore e di ovattata rabbia. Ne nasce una storia, un dipinto, dove un contemporaneo Signore delle mosche di goldinghiana reminiscenza, ma traslato attraverso la quotidianità metropolitana, di una metropoli in cui tuttavia sempre è celato un certo inquietante mistero di ballardiana memoria (e come non essere affascinati dalla fredda crudeltà di Cuneo, teppistello e microcriminale così affine nel suo giovanile delinquere al Molecola dello Snack Bar Budapest di Marco Lodoli e Silvia Bre), tenta di diventare padrone dei destini di due giovanissimi che combattono con coraggio una quotidiana battaglia contro quel fato che purtroppo mai è come vorremmo. Come non essere partecipi delle solitudini e delle gioie e degli affetti difficili dei due fratelli adolescenti rimasti soli, come non essere trafitti dalle loro vite che tanto ci ricordano certi ragazzi mitteleuropei raccontati da Ferenc Molnár, così eroici nella lotta nel loro piccolo e grande mondo. Qualcosa c’inventeremo è il racconto di un passaggio, di un rito quasi tribale di accesso all’età adulta, un rito che noi crediamo non possa più esistere mentre invece anche nella nostra coeva routine, fatta di devices e social network, sempre a noi si palesano quei Tristi Tropici che la nostra presunta civiltà si illude di aver abbandonato nella notte dei tempi. Come un antropologo che si avventura in nuove lande, Giorgio Scianna si immedesima negli slang, nei comportamenti che emanano da una collettività smembrata, dove anime e luoghi si (con)fondono alla disperata ricerca di un introvabile punto di appoggio. Qualcosa c’inventeremo va letto perché attraverso la sua lettura comprendiamo ancor meglio il nostro presente.
Un libro.
Qualcosa c’inventeremo, di Giorgio Scianna (Einaudi).

mercoledì 4 giugno 2014

Una bella recensione al mio primo romanzo Notte di nebbia in pianura (Manni)

Il mio primo romanzo Notte di nebbia in pianura, edito da Manni, raccoglie ancora, a sei anni dalla sua pubblicazione, bellissime recensioni. Come questa, scritta da Enrica M. Corradini. La versione digitale di Notte di nebbia in pianura verrà pubblicata per i tipi elettronici di Antonio Tombolini Editore, nella collana Officina Marziani, diretta da Michele Marziani in cui ha appena visto la luce il mio nuovo romanzo Sette sono i re

Ecco il testo della recensione di Notte di nebbia in pianura. Buona lettura!

Leggere Ricci ed essere introdotti all’interno di un ineludibile senso dell’effimero è cosa certa; il tutto, unito ad una certa levità, pare appartenere alla scrittura della gente di questa terra. Che sia la nebbia che già traspare dalla copertina e dal titolo del romanzo? È la nebbia che avvolge la pianura padana, che la movimenta, ne fa danzare le cose, sfumandole di quel non colore che si vede nei paesaggi leonardeschi apparentemente opaco, così sottotono, che vuole esserci ma non gradisce di far vedere che c’è; ti aspetteresti che da questa nebbia traspaiano cose sinuose, invece dalla forza della scrittura emerge, come dopo una lunga apnea, un mondo variegato che pulsa vita da tutti i pori. Buoni e cattivi ma neanche tanto, figure dai colori netti che non vogliono sbiadire ma anch’esse fatte di nebbia che si affacciano come a tante finestre dello stesso caseggiato e tu passando le intravedi. Movimento, movimento che appare e scompare e tu, per vedere, così come facciamo nella nebbia, sei costretto a puntare sui dettagli, a cercare punti di riferimento. I personaggi che prendono vita e le loro poche frasi, definite, ripetute ossessivamente, ci fanno da bussola. Ognuno è a sé, intagliato nel legno, quello che l’umidità avvolge di muschio. E poi la nebbia è leggera, come lo sono forzatamente le nostre personalità. La nebbia che tutto indistintamente avvolge alleggerisce i pesi che se li intra-vedi non sembrano poi così pesanti; ti appaiono pezzo a pezzo ed è più facile sopportarli. Il giovane uomo perso nel suo modo stantio, la madre che lo ha lasciato al suo destino, questa volta il suo “meno male che sei alto” non rappezzerà più gli strappi che la vita gli procurerà; il rabbioso che vive d’improperi, anch’egli fermo, il confronto con la forza pubblica, sempiterno rincorrersi di buoni e cattivi e qualche volta non sai davvero più chi sono i buoni, e neanche i cattivi, il Fanelli, personaggio delizioso che da dietro le quinte dice la sua e poi decide di lasciare; gli agenti di servizio, la detenuta Sandri Anna, appiccicata ad un brandello d’affetto che sta tutto nell’odore della felpa del suo Ibrahim che l’ha appena incastrata in un pasticcio ed è scomparso, e lei, cerca il suo bambino disperata e continua a credere in quell’uomo che le ha gettato in galera con la sua felpa. Gli amici del pokerino. Svetlana, la donna di Ucraina di uno di loro, che deve imparare a parlare meglio se no sembrerà sempre una immigrata….
Il Ricci scrive bene, va liscio, evapora le parole, anche quelle pesanti e le mette nella bocca di una umanità infarcita di speranze e di umidità, la nostra.