martedì 21 maggio 2013

Le rane, di Mo Yan (Einaudi)

Dieci anni sono occorsi a Mo Yan per approntare questo imponente affresco che dipinge la storia cinese degli ultimi decenni. Corposa e densa affabulazione di ricordi che l’io narrante semina nella narrazione, ricordi che lentamente tessono l’intreccio di questo romanzo che domina e doma il tempo, attraverso la tecnica dell’Autore che fonde piani narrativi e piani temporali nell’affluire delle rimembranze che da personali divengono di un intero popolo-nazione e che accolgono il filo sottotraccia delle mutazioni, spesso impercettibili ma sempre definitive, avvenute dai tempi dogmatici della Rivoluzione Culturale, dominati dal libretto rosso del Grande Timoniere, fino a una contemporaneità che ormai (con)fonde certezze marxiane con le partite doppie del capitale. Mo Yan agisce con le parole nel denso brodo primordiale della nazione cinese, da sempre fruttifera di contaminazioni, di contraddizioni, di riflessi misteriosi e misterici che nascono dal suo essere al contempo confine e incubatrice del mondo. Cina. Gigante estremo, a volte vittima a volte carnefice, lento nel suo incedere così come dinamico è ed è stato nelle vesti di laboratorio universale di miti, credenze, idee. Cina. Espressione non solo geografica ma portatrice di sensuali ed anche efferate esperienze, luogo narrativo e narrante che affascina e circonda nel suo abbraccio salvifico ma anche letale. Se nel XIX secolo nacque, in quella protesi comunque asiatica che è l’Europa (o l’Occidente, comunque), il mito della letteratura orientale, in special modo quella di derivazione indiana, è dai tempi di Marco Polo che la Cina è comunque vicina, tanto per citare Marco Bellocchio. E lo è in misura ancor più determinante in quanto oscuramente interprete delle nostre ossessioni letterarie (il Borges attento a certe misteriose e magiche immobilità estreme confuciane, più ancora che a certi erotismi ed esotismi da califfato di Baghdad), ancor più forse di quell’altro luogo narrativo e narrante che sono gli States, troppo diretti nel loro porsi di fronte a quella finzione che è più reale della realtà. MoYan costruisce, apparentemente circoscrivendolo alla tematica del controllo delle nascite da parte del governo cinese, un vero e proprio romanzo amniotico che funge, ancora una volta come è tipico della sua poetica, da laboratorio lussureggiante dalle cui provette prende vita il racconto degli aspetti fondamentali, immutabili e finali della storia dell’umanità, umanità intesa non come cifra spersonalizzata, bensì come somma di quello che ogni essere umano rappresenta e significa, nel più eroico bene come nel più detestabile male. Mo Yan, nelle vesti di conclusivo cantore di quella misteriosa e affascinante, ma anche a volte spietata e ripugnante, collettività che risponde al nome di homo sapiens, sa appellarsi, nel suo incedere narrativo, a tematiche che prescindono dalla spesso ineludibile opportunità delle epoche storiche, trasfigurandosi così, come è necessità del narratore che vuole essere poeta del tempo più ancora che dei tempi, in imprescindibile narratore dell’universo delle storie.
Un libro.
Le rane, di Mo Yan (Einaudi).

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