martedì 7 maggio 2013

Di bestia in bestia, di Michele Mari (Einaudi)

C’è un fardello che ogni lettore porta con sé. È il fardello delle parole lette, delle parole condivise, delle parole che ne hanno dolcemente invaso l’anima. C’è un rifugio dove ogni lettore trova, forse, riposo. È il rifugio dei libri che ha letto, amato, odiato. È il rifugio della perenne biblioteca borgesianamente infinita, così come infinite sono le storie che vivono in quella biblioteca. Quella perenne biblioteca che ne ha lenito i dolori, le disperazioni. Quella perenne biblioteca che ne ha certificato le gioie.
C’è un passato nella memoria del lettore. Un passato che ne ha testimoniato il presente. Un passato fatto dei suoni delle frasi, del ritmo degli stilemi.
Come uno stemma araldico, segnatura definitiva di ciò che il lettore è stato, è e sarà, figure e visi, ghigni e posture di personaggi e autori vanno a costruire un bestiario metafisicamente medievale che come un santino o, meglio, un ex voto vive nelle segrete tasche di chi ha avuto commercio con le storie che vivono nei libri.
C’è una storia che è (deve essere, forse) tutte le storie. C’è una storia che racconta e si racconta con le parole di altre storie.
C’è (ci deve essere, forse) un libro che è tutti i libri. Un libro fatto di libri. Un libro che racconta il mostruoso piacere del perdersi nella lettura, del perdersi in quella contraffazione più reale della realtà che è la narrazione.
Memorie, echi, risonanze. Vestigia di Poe, Stevenson, Dickens, Mary Shelley. Simulacri divini e tragici che si trasfigurano in una chimera feroce e, al contempo, domesticamente assisa sul corpo stupito di un lettore onnivoro e divorato dall’eterna impossibilità della lettura.
Tutto è destinato inevitabilmente a passare sotto il giogo di quel mutamento che forse è morte, sconfinata entropia che tutto ingurgita e che è visione assoluta dell’universo.
Un libro.
Di bestia in bestia, di Michele Mari (Einaudi).

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